Mi capita sempre più spesso di voler fuggire dagli umani o quel che ne è rimasto. Passerei volentieri l’esistenza immerso nella mia biblioteca, a tuffarmi nelle pagine o a vergar parole, mie, quelle poche che riesco a cavare dall’indolenza del mio animo. Ma l’aria, la luce del sole, le ombre degli alberi, son lì che mi attendono, proprio dietro casa. Proprio dietro la porta. C’è uno squarcio di mondo al di là e al di fuori della mia stanza, dove posso trovar riparo e rifugio. Basta far due passi, prendere un sentiero e quindi ritrovarmi in un bosco. I fastidiosi rumori cittadini svaniscono. Non s’odono urla, trilli, squilli, clacson e tutti quei disumani suoni che straziano la mia essenza palesandosi e rendendomi come Bartleby, protagonista, scrivano, di un meraviglioso racconto di Melville.
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Erano settimane che non lo cercavo, il bosco, erano settimane che non mi addentravo in quel bosco. Ma qualcosa, due giorni or sono, m’ha chiamato. Sentivo l’attrazione, il richiamo, da quei luoghi di luci e ombre, attraversati e osservati da nessuno. Decido di uscire, conto tutti i miei passi, mi lascio portare da quei passi fin dentro la solitudine più estrema. L’unica traccia, sensata e romantica, dell’uomo in quella solitudine è una panchina. Bisogna camminar parecchio per poterla raggiungere, ma me la raffiguro, la immagino, la disegno nel tragitto che mi separa da essa. E quindi eccomi, e quindi eccoci.
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Ho tra le mie mani, come ovvio che sia per un solitario sventurato come me, un libro. “Storie del buon Dio” di Rainer Maria Rilke, nella splendida edizione SE e nell’altrettanto splendida traduzione di Giorgio Zampa. L’ho già letto tre volte e l’invito della natura mi sembra il palcoscenico adatto per la quarta. Rilke parla della morte all’amico paralitico Ewald, affacciato alla finestra: “Quanto ha detto mi richiama alla mente una fanciulla. Si può dire che essa, i primi diciassette anni della sua vita serena, non avesse fatto che guardare. I suoi occhi erano tanto grandi e tanto liberi che tutto quanto ricevevano lo spendevano, mentre nel corpo della giovane creatura la vita scorreva indipendente, alimentata da semplici intimi rumori. Ma in quell’anno appunto un brusco evento turbò quella vita doppia che appena si sfiorava, gli occhi irruppero all’interno, e tutto il peso esterno precipitò, attraverso loro, nel buio del cuore, ogni giorno precipitava con tanta violenza per quegli sguardi ripidi e profondi che il cuore, nella stretta del petto, si frantumò come una coppa. La fanciulla si fece pallida, la salute le scemò, divenne solitaria per restare coi suoi pensieri, e da ultimo essa stessa cerco quel silenzio in cui certo nulla più turba la meditazione. (…). Affogò. In uno stagno quieto e profondo, sulla cui superficie si disegnarono tanti anelli che lentamente si allargarono scivolando sotto le bianche ninfee, che si agitarono tutte”.
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Quanta inaudita bellezza, devo, voglio tuffarmi ancora e ora posso sedermi. Ma il mio sguardo cade proprio sulla panchina, il mio sguardo s’accorge che abbandonato ad essa giace solitario un altro libro. Attorno non c’è anima viva, nemmeno in lontananza s’odono passi o s’intravedono ombre. Il libro è “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. Una prima edizione Adelphi, del 1979. In rilievo il timbro SIAE, il prezzo, di nessuna importanza, in lire. Non c’è alcun codice isbn (verrà qualche anno dopo) a occupare la copertina. Sembra nuovo, mai sfogliato, appena dato alle stampe. Salvatore Satta, uno dei tanti postumi, pubblicati postumi e apprezzati postumi. “Il giorno del giudizio”, libro che parla di morte e di morti:“non si muore, si vive, è questa la verità che sembra ovvia, è invece gravida di conseguenze, perché la vita trasforma tutto, non c’è nulla che resista alla sua implacabile volontà”. Salvatore Satta, dalle pagine che leggo avidamente, ne scrive (di morte e di morti) in maniera diversa da Rilke. Non è di certo poeta. Nessuno è poeta come Rilke. E la sua visione, di morte e dei morti, non coincide esattamente con la mia. Ma le parole scorrono vivide e vive, c’è comunque del fuoco che arde dentro e dietro. E la cosa che più m’ha preso e sorpreso, del romanzo, dello scritto, del lascito del bosco è che è diviso in due parti. La seconda delle quali consta nemmeno una pagina: “Riprendo, dopo molti mesi, questo racconto che forse non avrei dovuto mai cominciare. Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi della mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno. Oggi, poi, di là dai vetri di questa stanza remota dove io mi sono rifugiato, nevica: una neve leggera che si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi. Fra breve tutto sarà uguale. Nel cimitero di Nuoro non si distinguerà il vecchio dal nuovo: ‘essi’ avranno un’effimera pace sotto il manto bianco. Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quando seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio”. Basta ed avanza per sorridere al cielo e sentirmi grato, a Satta, agli alberi attorno, alla panchina, a Rilke che a quella panchina mi ha accompagnato.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Isaac Levitan, “Dopo il temporale”, 1890