E allora, compagno Sartre, facciamo autocritica? O ci facciamo bastare quanto da te sbottato, riconosciuto a malincuore, nel tuo Autoritratto a settant’anni, 5 anni prima che tu, Sartre, uomo tra i più maledetti e a tal ragione a me seducente, chiudessi gli occhi, a questo mondo che hai messo in discussione, e risolto, e di nuovo capovolto, ribaltato come a te pareva, e la tua mente pontificava, e la tua mano vergava? Sono passati 40 anni precisi, dalla tua morte, e accidenti se non sei rimasto quello che volevi: un segno inscalfibile nella Storia delle idee. E io, che ti ho sempre in testa e che però me lo sono dimenticato, che sei morto il 15 aprile, e infatti a Pangea il pezzo lo consegno in ritardo, e la colpa di chi è se non la tua, Sartre, tu che mi distrai, confondi, mi incanti con la tua sicurezza di “parole non dette ma sapute”?
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Così lo uso apposta, per stizza, quel ‘compagno Sartre’ che, ci scommetto, ti fa rivoltare nella tomba: ma come la vuoi mettere, in che parafrasi, tu che dicevi sempre, e con vanto, “i comunisti hanno ragione, ma io non ho torto”? E va da sé che sempre è arco temporale sbagliatissimo, tu hai camminato accanto ai comunisti a un tempo, ai tempi de I comunisti e la pace, quando a tuo incriticabile parere gli Stati Uniti volevano mutare la guerra fredda in calda: cioè farlo sul serio, lo scontro con l’URSS, e come, atomico, magari? I russi invece no, per te loro erano pacifici e in ben altre faccende occupati! Ma erano gli anni 1950-’55, e al Cremlino difatti erano impegnati, ma a non smentirsi, e a palesarsi, nel 1956, coi loro carri armati, a Budapest, e tu, mio adorato Sartre, allora sì che hai fatto fuoco e fiamme, di parole, a condannarli, bestemmiarci contro, i carri armati e il Cremlino, e a togliere amicizia e saluto a quei tuoi ex compagni che compagni sarebbero rimasti. Dio santo, Sartre, è incredibile eppure è come se ti vedessi, in lotta di parole, da quando l’occupazione nazista della tua Francia ti tolse dalla culla della tua creduta invincibilità, facendoti schiantare sul duro pavimento della realtà. Tu, da nauseato, atterrato di botto quale “uomo sociale” nella identica condizione degli altri. Condizione che identica non è mai, caro Sartre, e tu lo sai, che la libertà ce l’hai ma ad averne vigore, consapevolezza, e responsabilità, la libertà è azione, e si è per quello che si fa, e tu sei esistito da superstar della filosofia e della letteratura, non prima dei tuoi 40 anni. Esistere ma come uomo e uomo pubblico, e di successo e di conseguenza riverito. E invidiato. L’obiettivo tuo supremo, Sartre, scrivere per esistere di un esistenzialismo tale solo nelle parole e idee degli altri, di chi lo pronuncia e nella sua bocca lo fa essere, perché come rivendicavi tu: “Esistenzialismo è parola stupida, che mi hanno appiccicato addosso, e quello che di esistenzialismo riportano i manuali non significa niente”.
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Insomma, compagno Sartre, se non vogliamo fare autocritica, facciamoci almeno due conti in tasca. Tu nel 1975 dichiari i tuoi guadagni: “Al mese, 1 milione di franchi di diritti d’autore, più 725 mila da Gallimard, e 1 milione e 600 mila di pensione annuale”. Non è davvero poco, e pure dovuto. Ti ricordi di quando ti sei ‘accorto’ di non aver versato un franco al fisco, e sei corso a piangere soldi da tua madre? Che poi, a dirla tutta, vivevate insieme, e la casa era la sua, giacché tu non hai mai voluto, per principio para-c*lo-comunistico, possedere nulla, né da milionario comprarti la sicurezza come facevano i tuoi compagni milionari, investendo in capitalistiche azioni. Fatto sta che mamma tua ti salvò e ti donò 12 milioni di franchi. Maman era ricca, di nascita e di nozze, Simone de Beauvoir lo scrive nelle sue Memorie di una ragazza perbene, e con giustificata invidia: “Sartre non ha mai dovuto lavorare per vivere”. Sì, tu sei nato fortunato ma cresciuto avido, lasciamelo dire: in una biografia non autorizzata, Simone lamenta che le rinfacciasti, rivolendoli indietro, i soldi che proprio Simone, tua sodale, tua fidata, fu una volta costretta a chiederti per aiutare la di lei madre in difficoltà. Soldi di cui tu, Sartre, non avevi bisogno, primo perché guadagnavi molto più di Simone, secondo perché a differenza tua lei si è dovuta mantenere da sola, tutta la vita, in quanto la sua famiglia perse ogni avere nel crollo del 1929. In Autoritratto a settant’anni, tu, Sartre, piangi miseria, dici che sono finiti i tempi in cui giravi con le tasche piene di banconote, in cui lasciavi mance spaventose ai camerieri, in cui finanziavi ogni progetto, appello il più folle che fosse, o salvavi Liberation. Ricordi, compagno Sartre, le battaglie con Jean-Luc Godard, le vostre mattane in strada per il giornale La cause du peuple? Ti facesti arrestare, per la libertà di dirla, un’idea la più assurda, e scriverla, e stamparla. E avevi già più di 60 anni, e ne avevi di fiato e p*lle, Sartre, e quando volevi, come sapevi cacciarle fuori!
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Ecco, lo vedi, Sartre, che mi fai, che mi porti a fare: basta una tua foto, con Simone, e con quel pazzo furioso di Godard, per frenarmi, rabbonirmi, smetterla di rimproverarti ogni incoerenza. Mi basta vederti, e vedere la tua luce negli occhi, accesi nel loro buio, nonostante il loro buio, e le tue mani vecchie, nodose, e ritorno devota a te, ai tuoi libri, ai tuoi inscusabili sbagli: Mao, la rivoluzione culturale, Fidel Castro, tutto quello che la tua lingua si è volutamente astenuta di dire sugli orrori dei paesi a regime comunista che tu conoscevi bene. E però… quel lampo nei tuoi occhi. Alle prese con la nuova, ennesima battaglia. Sarà che ora è il tempo di una guerra inedita guidata da anime modeste, da uomini mediocri. Ma oggi io quel lampo non lo vedo nello sguardo di nessun letterato, filosofo, politico, maestro buono o cattivo che sia. Sartre, tu sostieni che si può al massimo “stimare e mai ammirare nessuno, perché l’ammirazione è un sentimento che presuppone la propria inferiorità rispetto a colui che si ammira”. Fiera di disobbedirti.
Barbara Costa