02 Aprile 2024

San Pietroburgo, storia & miseria di una città assoluta

San Pietroburgo è una città dalla storia affascinante e macabra, sfarzosa e spietata, culla artistica delle menti più raffinate e geniali del primo Novecento russo, come testimonia questo splendido testo di Solomon Volkov, San Pietroburgo. Da Puškin a Brodskij, storia di una capitale culturale, ripubblicato per la terza volta da Mondadori nella bella versione di Bruno Osimo. Il saggio è l’appassionata biografia culturale di una città da parte di un autore che mira a restituire alla sua amata San Pietroburgo il ruolo che le spetta. Inserirla, ovvero, entro la nobile schiera di quelle città che si sono formate nella coscienza mondiale come centri culturali fondamentali del Novecento, al pari di New York, Berlino, Parigi, Londra.

Si parla sin da subito di mito perché, in trecento anni dalla sua fondazione, la città, attraverso l’arte, la musica, la poesia e la conoscenza, è riuscita a resistere e a splendere, nonostante gli innumerevoli tentativi di distruzione compiuti dalla natura e dall’uomo. Ad ogni assalto, l’inevitabile rovina della città veniva interpretata come primo passo della sua sicura rinascita in qualche forma diversa. La natura di questi assalti è molteplice: tirannia (ricordiamone la forma più paradossale incarnata nelle figure di Lenin e Stalin); declino economico (il primo e il più eclatante fu quello che prese piede subito dopo la rivoluzione del 1917, quando la città passò da due milioni di abitanti a ottocento mila persone nel 1920); inondazioni (nel corso della storia San Pietroburgo dovette affrontare i danni provocati dalla sinergia tra la piena della Neva, l’alta marea e le tempeste dal Mar Baltico); purghe staliniane (gli anni 1934-36 sono il periodo più cupo di questo processo; oltre agli arresti e alle esecuzioni di massa si aggiungevano anche le accuse reciproche e le autoaccuse sotto tortura); censura (dagli anni ’60 agli anni ’80 le opere migliori e più amate dai pietroburghesi erano unicamente quelle che circolavano sottobanco, attraverso copie dattiloscritte); paura (gli arresti da parte del regime sovietico avvenivano dal giorno alla notte, senza che l’accusato conoscesse le proprie colpe); fame. Quest’ultima piaga merita un discorso a parte, perché non si tratta di momenti di carestia legati a fatti storici circoscritti, ma di una dimensione di sottofondo che riguarda l’intero periodo sovietico. Si passa dalla fame all’indomani della rivoluzione, quando la gente mangiava cani, gatti, ratti, a quella più tormentosa, perché misurata, delle porzioni razionate sul posto di lavoro, fino alla grande fame degli anni 1941- 44, durante l’assedio della città da parte dei tedeschi. Se, di quest’ultimo periodo, all’Occidente arrivavano immagini piene di forza e determinazione (per esempio fece il giro di tutto il mondo la fotografia che raffigurava il grande compositore Šostakovič mentre spegneva un incendio sul tetto del conservatorio in tenuta da pompiere), Leningrado arrivava a perdere anche trentamila vite al giorno. Le testimonianze di Volkov sono preziose perché veritiere, gli intervistati sono tutti testimoni oculari di quei fatti: “La gente camminava e cadeva, si alzava e cadeva”, o ancora:

“C’erano reparti distrutti dalle bombe, persone sfinite che riuscivano a malapena a reggersi accanto alle macchine, che si legavano per non cadere. Negli archivi non si trova niente di simile. Sfogliammo migliaia di fotografie fatte dai cronisti in quegli anni. Vedemmo gente al lavoro, uomini e donne, seri o sorridenti, ma tutti immancabilmente energici”.

Nata dalla mente e dal carisma di Pietro il Grande, incoronato zar di tutte le Russie a Mosca nel 1696, San Pietroburgo venne fondata, a partire dal 1703, grazie al lavoro forzato e alla morte di decine di migliaia di uomini, tanto che la nomea di città maledetta entrò fin da subito nelle leggende popolari. L’elaborazione del mito comincia con la letteratura russa classica: Puškin, Gogol’, Dostoevskij. Il primo, con l’emblematico poema Il Cavaliere di bronzo, identifica il primo nucleo spirituale costitutivo della città: la sua antiteticità. Senza soffermarsi sul verso sonoro estatico e rigoroso – nessuna traduzione riuscirà mai a renderne lo splendore –, il significato intrinseco alla base del poema è chiaro: la volontà creatrice di Pietro e quindi dello Stato stesso, che finisce inevitabilmente per scontrarsi con i sogni e i desideri dei suoi membri. Dopo Caterina la Grande, stravagante e generosa, che diede inizio alla collezione che avrebbe trasformato l’Ermitage in uno dei più grandi musei d’arte del mondo, dopo il primo sincero entusiasmo con cui gli scrittori dell’epoca salutarono la nuova capitale, sfavillante nei suoi edifici di stampo europeo (per citare solo qualche esempio ricordiamo il Palazzo dello Stato Maggiore e l’Arco di Trionfo, il teatro Aleksandrinskij e il Palazzo Michailovskij, ad opera dell’architetto italiano Carlo Rossi), con Gogol’, allora giovane provinciale del sud e in seguito scrittore tra più grandi di tutti i tempi, la città comincia a tingersi di macabro e grottesco:

“Nikolaj Gogol’ vide Pietroburgo come regno virtuale dei morti, dove tutto è umido, liscio, omogeneo, pallido, grigio, nebbioso”.

Il fatto è che Gogol’ odiava Pietroburgo e Pietroburgo non ne voleva sapere di lui. Per cui, alla vita brillante dei balli di corte e dei ricevimenti sfarzosi a casa dello zar, Gogol’ contrappone una propria visione appassionata della capitale, una Pietroburgo-monstre, abitata da caricature e/o da emozioni e reazioni personificate (a questo proposito si rimanda ai miei due racconti preferiti di Gogol’: Il ritratto e Il cappotto). Con Dostoevskij la “Palmira del Nord”, si trasforma infine in un paesaggio urbano marcatamente prosaico con le periferie dove vive la povera gente, gli umiliati e offesi. Il primo romanzo di Dostoevskij, infatti, Povera Gente, riporta in primo piano quello che la città, schermata dallo sfarzo e dalla compostezza imperiale, aveva sempre custodito: la malinconia e l’indigenza della povera gente. Dostoevskij rifiutava l’immagine di una Pietroburgo brillante, contestava lo stesso Pietro il Grande e le sue riforme, respingeva l’architettura della città, era convinto che queste costruzioni fossero soltanto patetiche imitazioni degli stili europei. Con il romanzo Delitto e castigo, del 1866, quando la città era ormai circondata da cupe fabbriche fuligginose, disseminata di tuguri e mostruosi palazzi di case popolari, scossa dalle prime gravi agitazioni studentesche e tormentata dagli incendi dolosi, il mito di San Pietroburgo si riversa nei crogioli mentali di un ex-studente, il più famoso omicida della letteratura russa: Rodion Raskolnikov. La città con le sue vie e le sue piazze brulicanti e malsane, la sua luce e determinati spazi, si esprime attraverso l’incessante lavorio psicologico e spirituale del protagonista, fino a diventare una realtà solida e familiare, conoscibile attraverso i meandri inconsci di ciascuno di noi.

L’immagine di Pietroburgo, quale finestra sull’Europa, tanto cara a Pietro e ai suoi apologeti decade, fino a scomparire.

A cavallo tra Otto e Novecento, congiuntamente a un esuberante rigoglio culturale che interessò tutte le arti, a cominciare dalla musica, la città irrequieta si riflette attraverso gli animi di grandi artisti, che per loro disposizione presentivano lo spirito del tempo (già a fine Ottocento, attraverso le sue ultime opere, come la La donna di Picche e la Patetica, il grande compositore Čajkovskij, aveva cantato il nostalgico passato preannunciando un futuro terribile).È questo il tempo di Stravinskij, il più importante compositore e innovatore musicale del Novecento, unanimemente riconosciuto genio, ricordato a livello mondiale per i suoi originali balletti, ma in particolare per la Sagra della Primavera, un’opera non creata, ma a lui rivelata, svelata. È il tempo di Blok, poeta già in vita famosissimo in tutta la Russia, espressione del movimento poetico più in voga all’epoca, il simbolismo che, secondo la poetessa Anna Achmatova, fu l’ultima grande corrente della letteratura russa. È il tempo di Mir Isskustva (Mondo dell’arte), insieme associazione artistica e rivista d’arte, attraverso la quale i suoi principali esponenti (il famoso impresario teatrale Djagilev e gli scenografi Aleksandr Benois e Leon Bakst) si sforzarono di spingere tutta la vita culturale della città verso nuove frontiere, promuovendo l’idea di Pietroburgo come provvidenziale e imprescindibile faro culturale e spirituale di tutta la Russia. La motivazione più stringente che animava questi ragazzi, non si basava su domande, tentativi di miglioramento dello stato dell’arte, manie di protagonismo, ragione o torto rispetto alla tradizione degli umiliati e offesi… Il loro proposito era suscitare pietà e amore per Pietroburgo. Nell’arco di dieci-quindici anni, poco prima del grande salto del 1917, l’arte russa riuscì ad assorbire, a digerire e a rielaborare in modo ardito i risultati del lungo sviluppo europeo: “I primi avanguardisti russi assai presto lasciarono alle spalle l’impressionismo, il pointillismo, l’Art Nouveau, l’estetica simbolista e il cezannismo. Si soffermarono sul cubismo e per qualche tempo Picasso fu un loro idolo, ma già nel 1912 [il pittore] Filonov annunciava che Picasso era finito in un vicolo cieco”.

In epoca sovietica questo periodo fu proclamato ufficialmente il periodo più vergognoso e più sterile della storia dell’intellighenzia russa. Nel 1914, sullo sfondo della guerra con la Germania, la città venne ribattezzata Pietrogrado (e nel 1924, alla morte di Lenin, Leningrado). Fu il primo di una serie di eventi sfortunati, che favorì la spinta autoreferenziale della capitale a scapito delle sue originarie aspirazioni cosmopolite. Gli eventi storici successivi, che si abbatterono sulla capitale portandola miseramente al declino, favoriscono la trasmutazione verso il mito della città martire. All’indomani della Rivoluzione russa, le vie della città erano deserte. L’artista Mstislav Dobužinskij, creatore di stupefacenti litografie di Pietroburgo nel 1921, ormai emigrato in Occidente, ricordava:

“Davanti ai miei occhi la città moriva di una morte di straordinaria bellezza, e io mi sforzavo di cogliere con forza la sua immagine spaventosa, deserta e ferita”.

Profetessa e portatrice della sublimazione di Pietroburgo fu Anna Achmatova, che con Requiem, probabilmente la più grande testimonianza artistica contemporanea sul terrore staliniano, suggella la forza spirituale della città. Stalin aveva dichiarato una guerra genocida al proprio popolo. “Nemici del popolo” venivano annunciati ogni giorno alla radio, nei giornali, nelle riunioni, ma parlare di dove andassero era vietato. Sui lati degli infami furgoni neri nei quali cacciavano gli arrestati c’era scritto “Carne”, “Latte”. Il Requiem di Achmatova è una sorta di mistero che riprende per il pubblico contemporaneo la storia della Passione.

Dopo la morte di Stalin, il periodo di transizione, fino allo sgretolamento dell’Unione Sovietica, fu caratterizzato da un lento fuoco artistico che trovò espressione attraverso i canali non ufficiali della stampa, mediante ribattiture di testi che circolavano clandestinamente. Poeta simbolo di questo periodo fu Iosif Brodskij, Nobel per la letteratura nel 1987. Fu espulso dall’Unione Sovietica nel 1972, in patria definito “feccia” dagli organi di potere. Brodskij si lasciò alle spalle una Leningrado ansiosa di sperimentazioni, ansiosa di rifiorire dal punto di vista artistico-letterario, ma piuttosto smarrita. Lo scrittore Sergej Dovlatov descrisse la Leningrado degli anni Settanta in questi termini:

“Tanti anni di miserabile esistenza avevano ripercussioni sulla psiche. Ne è testimonianza l’alta percentuale di malattie psichiche. E naturalmente regnava l’eterno compagno di viaggio della letteratura: l’alcol”.

La Leningrado culturale aveva cambiato volto. Lo scrittore Andrej Bitov è forse il più rappresentativo di questa trasformazione (La casa di Puškin fu completato nel 1970). Il ritmo della sua prosa assomiglia al ritmo del nuovo uomo leningradese simile al movimento del nuotatore solitario fra le onde del vuoto quotidiano, quando il nuotatore pare annegare, ma la sua testa torna continuamente a riemergere in superficie”, secondo le parole dello scrittore Gorbovskij.

Il saggio di Volkov, non vuole essere un compendio storico letterario che sintetizza e illustra le vicissitudini di una città e dei suoi principali artisti, come probabilmente traspare da questa recensione. Né tantomeno vuole essere un sunto allo scopo di elogiare i geni perseguitati del passato e celebrare i loro anniversari postumi, ciò non aggiunge vitalità alla cultura presente. È piuttosto un vaso di Pandora da cui fuoriesce sangue e vita, morte e sbigottimento, melanconia e stupore. Può essere considerato anche un tentativo di abbozzare in 550 pagine la vastità di una città il cui nucleo originario scaturì proprio da un ideale, che per sua natura è irriducibile a qualsiasi contenimento.

“Nel 1920 a Pietrogrado i generi alimentari venivano distribuiti in porzioni razionate sul posto di lavoro. Per sopravvivere, gli intellettuali si davano alla caccia alla razione, reperendo razioni dovunque potevano. Come molti altri intellettuali di Pietrogrado, il poeta A. Blok, fu costretto ad andare al servizio al ministero sovietico della Cultura per la casa editrice Vsemmirnaja literatura. Qui Blok e altri specialisti compilarono una lunghissima lista di capolavori di tutti i tempi e degli autori che bisognava ritradurre in russo e pubblicare per il pubblico proletariato. Solo nella prima collana si progettava di pubblicare millecinquecento titoli di natura accademica e cinquemila edizioni più popolari. Per la realizzazione di questa idea utopistica, nelle condizioni difficili della Russia postrivoluzionaria sarebbero stati necessari almeno cento anni, ma intanto si poteva dare da mangiare agli scrittori. Uno di loro, Andrej Levinson, ricordava  che l’attività di Vsemirnaja literatura fosse il tentativo disperato e paradossale di innestare la cultura spirituale occidentale sulle rovine della vita russa”.

Escludendo il paradosso di questa situazione, trovo che questo libro insegni a pensare animati da un ideale vasto. Forse sarebbe interessante ripensare a quei “tentativi disperati”, non in chiave pietistica o giudicante, ma ammirata, scavalcando i confini della supposta certezza di sapere ciò che è giusto o sbagliato. Ripensare a quei “tentativi disperati” equivale a morire e a risorgere, a morire e a risorgere ancora per una verità che si mostra a spizzichi e a bocconi o, talvolta, in modo costante, una verità più cara di qualsiasi altro ideale. Dostoevskij, per dirne uno, lo sapeva bene. Io non so di che natura sia questa verità, posso solo dire, animata dalla stessa: “sarebbe interessante innestare la cultura spirituale russa sulle rovine di quella europea”.

Isabella Serra

Gruppo MAGOG