05 Aprile 2019

Cronaca apocalittica dalla fine della letteratura: Francesco Sole ha più successo di Giancarlo Pontiggia e a scuola si studiano i testi di De Andrè e di Vasco mica quelli di Mario Luzi. Dobbiamo salvare la grande poesia

Non si tratta di praticare l’arte del catastrofismo, ma di una precisa consapevolezza della situazione in cui versa la poesia oggi in Italia.

Non sto a ripetere i dati, basta solo ricordare l’invisibilità e omertà della critica, la confusione nei riguardi della concezione stessa della poesia, l’indifferenza della scuola, la spinta del mercato, l’azione distruttiva dei mass media e della televisione in particolare, l’abuso delle pubblicazioni ecc. ecc. Non bastano le lodevoli eccezioni per eliminare la regola…

In generale, direi che mai come oggi si avverte il bisogno di esprimersi in poesia e questo sarebbe un bene, se tale desiderio si trasformasse in ricerca, in lettura, in studio, in confronto. La quantità di testi pubblicati su carta o su internet sta producendo non solo un abbassamento della qualità, secondo una specie di legge di natura, ma diffonde la convinzione che l’improvvisazione, il pressappochismo, il dilettantismo costituiscano le chiavi del successo. E che di successo della “mediocrità” occorre parlare basta consultare le cifre della diffusione di raccolte come quelle di Francesco Sole rispetto a quella di Giancarlo Pontiggia o di Umberto Fiori, per citare solo due esempi. «Viviamo in un mondo in cui la cultura aspira all’intrattenimento» (Mario Vargas Llosa) e anche la poesia è precipitata all’interno di questa tragica spirale: qualche svenevolezza sentimentale, qualche accumulo di espressioni stucchevoli e sdolcinate e la ricetta del successo è assicurata.

Non tutto quello che oggi si scrive. Ma il problema non sta neppure in questa ovvia deduzione: il problema consiste nel fatto che non esistono più strutture di “mediazione culturale” autorevoli.

In televisione ci si ostina a ripetere che De Andrè, Lucio Dalla, Vasco Rossi sono dei veri e propri poeti e come tali sono ospitati nelle antologie scolastiche. Pur apprezzando nei loro testi qualche guizzo riuscito, pur essendo un loro fan per quanto riguarda la musica, chiedo se sia mai possibile paragonare la loro produzione con l’originalità, la profondità, la vastità di pensiero, il valore stilistico e linguistico di un Mario Luzi, di un Vittorio Sereni, di un Bartolo Cattafi, di un Pier Luigi Bacchini. Ma i nostri giovani che frequentano le scuole superiori e le università di Lettere, con l’eccezione di uno sparuto numero, leggono questi autori, li esaminano, li hanno introiettati nella loro cultura? E coloro che detengono le chiavi della cultura massmediatica?

Condivido il parere di Alfonso Berardinelli secondo cui «i veri narratori e i veri poeti in ogni generazione non sono più di un paio di dozzine e i libri degni di essere letti ancora meno». Certo non è facile e mai è stato facile, come testimoniano le vicende di Proust e di Tomasi di Lampedusa, cogliere sempre nel segno, ma non per questo si deve abbandonare la partita, anche a costo di commettere errori… errori certamente, ma sempre entro certi limiti.

Ora però non si tratta di valutazione, la questione investe rapporti molto più profondi: «La civiltà si impoverirebbe molto se la letteratura sparisse o diventasse un puro divertimento, uno svago passeggero e superficiale». E il pericolo del quale è veramente urgente prendere consapevolezza consiste nel fatto che «la cattiva letteratura “serve” a mettere in ombra quella buona, quella che merita di essere letta» diventando dannosa, perché inevitabilmente crea contagio e produce nefaste conseguenze. «Ma il “libro-svago” e il “libro-non problematico” annunciano la fine (desiderata?) dello spirito critico e della cultura come critica dell’esistente: annunciano cioè “un mondo senza libertà”. E quando le società democratiche aspirano a fuggire dalla libertà, quando danno segni di preferire qualche forma di servitù volontaria, la democrazia comincia a morire in spirito, anche se le istituzioni continuano a fingerne l’esistenza» (Alfonso Berardinelli, Vargas Llosa tra romanzo e democrazia, «Avvenire», 18 gennaio 2019).

Se, come crediamo, la poesia “rivela” lo “spirito” di un periodo storico, la prospettiva assume tinte veramente preoccupanti. La parabola iniziata con la distruzione dell’eredità, operata dalle Avanguardie, oggi sta giungendo alla “soluzione finale”: la tecnologia, supportata dal mercato, chiusa nella dimensione di un puro e semplice presente, impedisce la formazione di una scala di valori: tutto è equivalente.

Che fare? Come salvare la poesia e il suo messaggio di umanità?

In primo luogo, denunciando il pericolo, opponendosi a un tipo di letteratura “consumistica”, ma soprattutto coinvolgendo tutti coloro che ancora credono negli ideali di una poesia, di una letteratura, di un’arte a misura d’uomo.

Salviamo, quindi, la grande poesia.

Giuliano Ladolfi

*Si riproduce, per gentile concessione e con lievi cambiamenti, l’editoriale di Giuliano Ladolfi, “Salviamo la grande poesie”, che apre l’ultimo numero di “Atelier”, il 93, del marzo 2019 (informazioni qui)

**In copertina: Mario Luzi (1914-2005) fotografato da Luciano Bonuccelli

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