Sono al Salone del libro di Torino, i biglietti aerei per il Guatemala costavano troppo per lo stipendio di un editoriante[1].
Partiamo da un presupposto ingombrante:
mi sono svegliato incazzato, con la testa ancora piena di alcol perché ieri sera mi sono preso una sbronza colossale per non pensare al salone. Ma arriva sempre il momento in cui non puoi più pensarci e devi farlo, per la pagnotta, chiaramente, ma devi farlo.
Ero quindi lì con il corpo, con la testa narcotizzata dagli antidolorifici e un vecchio di ottant’anni mi si presenta e pretende che gli regali un libro. Vecchio mio, è il tuo giorno fortunato, prenditi pure tutto, tanto io devo star qui seduto a vedere questa schiera di approfittatori culturali, inutili editori, fumettari e giovani entusiasti che non credo di poter vendere nulla, e poi ti prego spostati che mi mandi addosso un tale puzzo di vecchio che potrebbe darmi il colpo di grazia in questa mattina in cui la testa penzola e non si regge.
Esco un attimo per un caffè, penso che con gli antidolorifici possa ben sposarsi, ho già le gambe pesanti e non riesco a camminare bene. La barista mi guarda e mi dà un gettone dopo che le ho dato i soldi, mi guardo il gettone e sorrido, penso tra me: “e adesso?”. Lei deve aver intuito la mia perplessità e mi guida, con voce soffice, all’altro gazebo. Salone, un bar è un concetto semplice, ieri sera ci ho buttato una quantità di soldi che basterebbe a tener viva una famiglia e funzionava così, io pagavo e loro mi davano da bere. Non c’erano gettoni e il bar ha assolto completamente alla sua funzione: ne sono uscito sulle ginocchia.
Allora mi sono un po’ svegliato. Ho cominciato a vagabondare un po’ tra gli editori, a prendermi gli attacchi di panico di fronte all’impatto devastante di tutti i Sellerio uno dopo l’altro creano un effetto ottico labirintico ma efficace commercialmente tanto che mi ero quasi convinto di avere immediato e necessario bisogno di comprare l’intera saga di Montalbano.
Poi è successa una cosa: verso l’ora di pranzo hanno tutti cominciato a mangiare, e io avevo una fame boia ma avrei dovuto riprendere dei gettoni e dio me ne scampi però quello che mi chiedo è: essendo i libri già profanati, svuotati della loro essenza di clausura, di ritiro spirituale sotto queste luci al neon accecanti del Lingotto, perché restituirli a queste mandrie di lettori con un’immagine ancora più bassa, ridicola, con un editore che mangia e si sbrodola e tinge la sua barba sciatta di olio e infila tra i denti le verdure che tra due minuti si troverà a esibire a uno sfortunato lettore mentre parla di Kafka con questo filo verde tra gli incisivi e allora avremo perso un altro lettore e sarà giusto, e se non lo abbiamo perso lo abbiamo dato in braccio ai grandi editori che gli venderanno le ricette di Cracco e via discorrendo.
Un giorno al Salone basta e avanza per capire che il vero problema al di là del Salone in sé, delle logiche che lo compongono, dei personaggi sempre uguali, è che gli editori non portano più la cravatta.
[1] Questa nota non ha alcun senso se non quello di sfottere un po’ gli amanti di DFW che qui al Salone del Libro si moltiplicano ogni anno continuando una strana e inquietante tradizione per cui si finisce per assomigliare fisicamente ai propri idoli. Il problema è che a uno stile scanzonato, autentico e diretto, fluente e tagliente come una lama nel burro (pregasi notare la similitudine di altissimo pregio), qui ci sono tristi riproposizioni, sosia da avanspettacolo, stempiati con i capelli lunghi, giovani che si fanno le cannette convinti di avere un problema con la droga, improbabili quanto antiestetiche camicie sbottonate e fasce per raccogliere le chiome. Peccato che DFW, al Salone del libro, non ci sarebbe venuto in nessun modo. La nota in realtà aveva un suo senso, peccaminoso, ignobile, di richiamare tramite audace link al mio articolo precedente in cui scrivevo che, l’ipotesi di dovermi sorbire un’altra conferenza stampa del Salone era totalmente improbabile dal momento che mi sarei trovato dall’altro capo del mondo solo per scongiurare simil sciagura (qui si è tentata un’allitterazione).