Il talento di Davide, che coincide nel nome – significa “beneamato” –, è farsi amare da tutti. Il più giovane dei figli di Iesse, “fulvo, belli gli occhi, bella la forma” (1 Sam 16, 12), spiazza per bellezza e fragilità: il padre non lo crede in grado di assumere l’incarico del Padre, che paradosso. Davide ha il genio del seduttore che si riverbera dal viso alle mani – duplice volto –, agli strumenti che determinano la sua storia regale: la cetra e la fionda. Davide suona e il suo canto seduce il re, sfianca il male (“Quando lo spirito di Dio irrigava Saul, Davide afferrava la cetra e suonava: Saul sentiva il bene, la quiete, e lo spirito del male arretrava da lui”, 1 Sam 16, 23). Di fronte al filisteo Golia, Davide, spoglio di corazza, integro nella sua sonora identità, maneggia la fionda, seduce il gigante alla morte, lo piega per rapina e astuzia (“Davide mise la mano nella sacca, trasse la pietra, la lanciò con la fionda, colpì il Filisteo in fronte – la pietra si conficcò nella fronte ed egli cadde con la faccia nella terra”, 1 Sam 17, 49). Cetra e fionda sono strumenti simili nelle mani di chi li maneggia: entrambi pretendono dal corpo un canto. La cetra incanta, imbambola il male; la fionda uccide. Quando diventa re, Davide è l’uomo che “danza e salta davanti al Potente” (2 Sam 6, 16), che trasporta l’Arca cinta nel canto: “Davide e la casa di Israele, tutta, danzava davanti al Potente con ogni forza, e inni e cetre e arpe e tamburi e sistri e cimbali” (2 Sam 6, 5). Davide è il re poeta e guerriero, che del suo regno ha fatto un salmo, un inno. Dei Salmi che la tradizione ascrive a Davide, alcuni rimbombano il bene, implorano la pietà che pietrifica il tempo; altri impetrano vendetta, riscossa, verdetto di crimine, sterminio.
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Delle raffigurazioni di Davide la più audace è quella di Tanzio da Varallo. Davide ha la faccia da bambino, i capelli, biondi e ricci, s’irradiano. Rispetto a quel volto tutto è eccessivo, impossibile: il braccio del bambino, enorme, la spada, gigantesca, la testa di Golia, nel pugno sinistro, con il buco in fronte, grande quanto un corpo. La faccia di Davide ha l’innocenza spietata di una bestia, la stessa cauta eleganza di un giaguaro. In effetti, i Salmi non vanno letti come una raccolta di poesie – ma ripetuti, ripassati a memoria, leccando ogni verso fino a smarrire le coordinate della comprensione. I Salmi non si meditano, si colgono incessantemente, finché non diventano fischio e noi ci tramutiamo in fiera, in preda.
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Intendo dire che la seduzione di Davide non è grata, ma violenta – egli non adorna, pretende di essere adorato. Quando Saul dubita che quel bimbo di vetro possa affrontare Golia, il filisteo – ennesimo dubbio che fa cappio allo splendore del ragazzo –, Davide risponde: “Il tuo servo pascola il gregge di suo padre e più di una volta il leone e l’orso sono venuti a strappare le pecore dal gregge; allora io inseguo, abbatto e strappo dalla bocca del predatore la pecora e se mi si rivolta contro lo afferro per le mascelle e lo uccido” (1 Sam 17, 34-35). Davide dimostra la sua ferocia dopo aver ammazzato Golia: “Davide fece un salto, fu sopra il filisteo, prese la spada, lo finì, gli segò la testa” (1 Sam 17, 51). Forse è con la mascella della fiera, del leone o dell’orso, che Davide fabbrica la cetra e la fionda, in fondo, un solo strumento. Il fraintendimento, implacabilmente, comunque, colpisce Davide: sembra troppo bello, troppo giovane, troppo fragile per poter uccidere.
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Le proprietà di Davide si rivolgono all’opposto. Il più giovane è il più capace; l’inadatto è l’unico; il più fragile è il più forte. Allo stesso modo, Davide cala nelle profondità del canto il vero – per questo i Salmi vanno svaginati, rivoltati per capirne l’ombra. Il seduttore conosce la sedizione della menzogna: tradisce, uccide per appropriarsi della donna di un altro, non sa evitare l’incesto e la ribellione del figlio. Eppure, sa piangere – l’altro volto del canto – e in vecchiaia la cetra e la fionda prendono il corpo di “Abisag, la Sunammita… giovane e straordinariamente bella”, che “serviva il re”, ma “il re non si unì a lei” (1 Re 1, 3-4). Abisag è canto che conduce alla morte, requiem: la cetra, la fionda.
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Davide, il beneamato, conquista la fiducia di Saul; quando il re, geloso della sua gloria, vuole ucciderlo, gli sottrae i figli. La figlia di Saul, Mikal, “si invaghì di Davide” (1 Sam 18, 20); Gionata, il figlio primo, il prediletto, “nutriva grande affetto per Davide” (1 Sam 19, 1), e sceglie di tradire il padre per proteggere l’amico, amato (“Gionata informò Davide dicendo: ‘Saul mio padre cerca di ucciderti… nasconditi’”, 1 Sam 19, 2). La seduzione di Davide piega: lacera i legami di sangue, separa i figli dai padri, le mogli dai mariti. Nel Primo libro delle Cronache il re è cinto da un epiteto sinistro: “La fama di Davide dilagò per i paesi, il Potente lo rendeva terribile tra i popoli” (1 Cr 14, 17). Terribile è l’azione di Dio: “Chi ti è pari tra gli dèi, Dio?/ Chi è possente in santità/ terribile nell’atto/ autore di prodigi?”, canta Mosè dopo aver varcato il Mar Rosso (Es 15, 11); “Terribile è il Potente, l’Inesorabile/ re enorme sulla terra”, salmeggia il poeta (Sal 47, 3). D’altronde, scrive Paolo agli Ebrei, “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (Eb 10, 31). Insopportabile, piuttosto, è incaricarsi dell’aggettivo appropriato a un Dio. Così, su Davide, il re che convertì in trono e reggia la cetra e la fionda, incombe l’etimo del supplizio. Provato da Dio – o da Satana, come vuole il cronachista, l’ombra allevata dalla luce – Davide compie il censimento di Giuda e di Israele. Vuole conoscere come proprio ciò che gli è donato, penetra in una matematica inappropriata. Dio punisce Davide inviando su Gerusalemme “l’angelo devastatore”, che appicca la peste (2 Sam 24, 15 segg.). Per purificarsi, Davide erige un altare a Dio. Non canta più, non danza. Offre olocausti – fa strage che tempera la strage. “Il flagello si allontanò da Israele” (2 Sam 24, 25), Davide invecchia, il regno staziona nell’impotenza, prima che lo accolga Salomone, il figlio nato dal tradimento, perciò sapiente nel giudizio (la cetra e la fionda della parola definitiva). A Salomone, Davide assegna una verità di obbedienza e di vendetta (1 Re 2, 2 segg.): non ha più roteato la fionda, fino a farla suonare, gli ultimi canti che gli sono ascritti, nel salterio di Israele, censiscono il terrore (“Il nemico mi perseguita…/ Mi manca il respiro/ cuore gremito di gelo”, Sal 143, 3; 4), benedicono il terribile, il solo (“Si dica del terribile la potenza/ si narri la grandezza/ giustizia inneggiano/ memoria della tua bontà”, Sal 145, 6-7).
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Come una radiazione, i Salmi vanno munti nel deserto – si sa che la voce, con mani attorcigliate, eleva un velo, una tenda, il riparo dall’occhio di Dio. Non c’è altro che l’uomo – e Dio – nei Salmi. A volte, questi canti sembrano uno scudo, contro la pretesa di Dio, ad assottigliare l’assoluto. Altre volte sembrano l’arma con cui Dio si garantisce la solitudine – egli non vuole servi, ma cibo. Forse, sono la fionda con cui il salmista vuole bucare il cranio di Dio, per danzare con la testa spiccata tra le braccia. Dal foro, sulla fronte, fiotta luce.
Davide Brullo
*Si pubblica per gentile concessione parte dell’introduzione ai “Salmi” editi da Aragno, 2021