10 Agosto 2022

“Vivrò come una farfalla”. Sadakichi Hartmann, il discepolo di Whitman che portò il Giappone negli Usa

Il ragazzo aveva diciassette anni, era arrivato in America, a Philadelphia, due anni prima. Attraversò il Delaware a piedi, su un cavallo di fortuna, qualcuno gli aveva pagato la tratta del battello. Il poliziotto di quartiere gli indicò la strada. 328 di Mickle Street, Camden. “La prima cosa che vidi di Whitman fu il suo petto nudo – la lunga barba grigia scorreva sulla camicia aperta”. Novembre 1884, “era una brutta giornata, la neve ricopriva le strade”, il poeta era stato falciato dalla paralisi, dieci anni prima, e accoglieva gli ospiti così, seminudo, nel candore invernale, con la sfacciataggine di un dio. “Voi siete un ragazzo giapponese, vero?”, attacca il poeta, coinvolto, come sempre, dall’esotico, dalla vita vasta. Iniziano così le Conversations with Walt Whitman, pubblicate in origine nel 1895, a New York, tra le più schiette e sincere – scritte, tra l’altro, con perizia narrativa da antesignano dei beat – testimonianze sugli ultimi anni di vita del poeta (le leggete, in parte, in: Walt Whitman, Non esiste diavolo peggiore dell’uomo. Interviste, De Piante, 2022).

Sadakichi Hartmann – questo il nome del ragazzo – era un autentico altro, un senza patria, un ronin esistenziale. Nato a Dejima, isola artificiale nel porto di Nagasaki – luogo senza ascendenze, dunque, di scambio, ideato per fini mercantili – da una dama giapponese, morta poco dopo il parto, e da un imprenditore tedesco, Sadakichi studiò in Giappone, fu trascinato negli Stati Uniti appena ragazzo. Con straziata precocità, il “ragazzo giapponese” capì Whitman, e volle toccarlo (“mi sembrava rappresentare l’immagine spiritualmente più profonda dell’America contemporanea”); il poeta, forse, sorpreso da quella impudica audacia, carpì dal ragazzo qualcosa della miniatura lirica giapponese (si leggano le poesie, retrattili, raccolte come Sand at Seventy).

L’ultima visita del ragazzo accadde nel 1891, pochi mesi prima della morte del poeta. “Tengo duro fino all’ultimo, ma è giunto il tempo di dire addio alla mia fantasia”, gli disse Whitman, riferendosi a una delle sue poesie estreme, Good-bye My Fancy. Le ultime parole rivolte al suo ammiratore rasentano il simbolo mistico, “Ora è nuvoloso, forse passerà”.

Rapito da stupefacenti ambizioni, per un paio di decenni Sadakichi Hartmann mise a soqquadro la vita culturale americana. Fece esplodere il suo talento in diversi fronti, troppi: fu fotografo, critico d’arte, drammaturgo, poeta, romanziere, di fede anarchica. Scrisse un testo teatrale su Christ, uno sul Buddha, un altro intitolato Mohammad. Ovviamente, mise in scena un dramma su Confucio e uno su Moses; nel 1916 pubblicò la propria traduzione/invenzione delle Rubʿayyāt di Khayyām, testo canonico dell’esotismo in lingua inglese. Nell’introduzione il poeta nippo-tedesco dichiara le proprie intenzioni whitmaniane: “Voglio una poesia semplice, che sappia attrarre tutti, dalla cameriera al sapiente, dall’ordinario uomo d’affari all’artista solitario”. I versi, infine, sono riusciti, ma il persiano Khayyām pare il romano Orazio:

Cosa dovremmo sognare, di cosa dovremmo chiacchierare
in questo giorno così triste, in questo clima tanto cupo?
Dal giardino gli astri sono invisibili
gli incendi offuscano la pianura
e le ore scorrono con volti imbronciati.
Dobbiamo essere felici proprio quando il cielo è grigio.

Nel 1920 pubblicò un romanzo, The Last Thirty Days of Christ, in cui prende voce “Lebbeo, meglio noto come Taddeo, figlio di un comune pescatore della Galilea, nato a Cafarnao, apprendista di Zebedeo, uno dei discepoli di Gesù di Nazaret”. Il romanzo, ambientato “durante il settimo anno dell’imperatore Nerone”, rinarra, da sguardo laterale, la missione di Cristo.

“Quando ho conosciuto il Maestro avevo trentadue anni, sapevo poco del mondo, a parte un soggiorno in Tiberiade. La mia prima ambizione era diventare un seguace di Esculapio. Non per dispetto a mio padre: amo bagnarmi, sentire il tumulto del vento e dell’acqua, la vita che crepita e salta. Semplicemente, desideravo qualcos’altro oltre a cacciare cibo per gli uomini. Mi impedirono di andare ad Alessandria. Allora, ho pescato, ho aiutato mio padre, ho sognato di diventare un predicatore, per lo meno un lettore, nella sinagoga. Quando ho ascoltato il Maestro a Cafarnao, il desiderio è diventato irresistibile…”.

In qualche modo – poco importa se ingenuo – Sadakichi Hartmann ha aperto la via a un ‘genere’: i romanzi – più o meno devoti – sulla vita di Gesù. Nel frattempo, il giapponese in America era stato eletto re del Greenwich Village, scriveva regolarmente su “Camera Notes”, la rivista di fotografia fondata da Alfred Stieglitz. Nel 1924 Douglas Fairbanks gli chiede di fare la comparsa in The Thief of Bagdad: Sadakichi è addobbato con un improbabile turbante e un mantello da genio d’Oriente. In effetti, perfino il suo viso è sconcertante: ha la ruvidezza del tedesco e l’effimera levità del nipponico. A volte non disdegna il kimono, spesso è oggetto delle vignette satiriche del tempo. Con gli anni Venti, ad ogni modo, la storia artistica di Sadakichi Hartmann – ricostruita in Sadakichi Hartmann: Critical Modernist, University of California Press, 1991 – si esaurisce. I tempi cambiano, il ragazzo giapponese invecchia, fiaccato dal male. Si ritira a Banning, California, nel ranch della figlia; è tra i rari giapponesi – per questioni di salute più che per blasone estetico – a non essere arrestato dopo l’ingresso del Giappone nella Seconda guerra; ad ogni modo, è indagato dall’FBI, e muore poco dopo, nel novembre del 1944.

Ejnar Hansen, Portrait of Sadakichi Hartmann, before 1934

Più che altro, l’importanza di Sadakichi Hartmann è quello di aver fatto da cerniera tra la cultura americana e quella nipponica: nel 1901 scrive il primo manuale di Japanese Art – ma l’anno prima aveva pubblicato una History of American Art. Nei primi anni del Novecento traduce – e ricrea – alcuni tanka, riferendosi alla tradizione della poesia giapponese classica. Insieme a Yone Noguchi, è il primo autore giapponese di haiku in lingua inglese: nel 1916, a San Francisco, pubblica una raccolta di Tanka and Haikai, dedicando questo fascio di Japanese Rhythms alla madre, cioè al Giappone. Una copia conservata presso la Lilly Library della Indiana University, dedicata To Ezra Pound. Greetings!, dimostra l’amicizia tra il nippo-tedesco e il grande poeta. Non è un dettaglio occasionale: Ezra Pound ‘importa’ la poetica dell’estremo Oriente nel 1915, pubblicando come Cathay alcune sue versioni dalla poesia cinese classica, e nel 1916, traducendo Certain Noble Plays of Japan; nel 1913 aveva posto le basi dell’Imagismo, il movimento lirico che si basa, come scrive Pound, sul “metodo ideogrammatico”. Nel 1912, tramite la vedova del grande iamatologo Ernst Fenollosa – già professore di filosofia e di politica economica all’Università imperiale di Tokyo, morto nel 1908 – il poeta aveva ottenuto testi inediti sulla poesia cinese e il teatro Nō. Secondo Kenneth Rexroth – che nel 1971 cura una raccolta di testi di Hartmann, White Chrysanthemums – il primo contatto di Pound con la cultura giapponese avviene proprio attraverso i testi di Sadakichi Hartmann, che nel giugno del 1912, sulla rivista “Forum”, pubblica uno studio sul Japanese Drama. Di certo, Hartmann e Pound si incontrano, nel 1915, a Londra.

Il lunare Sadakichi Hartmann, per sempre alieno al proprio tempo, sradicato – e dunque: del tutto americano – passò da Whitman a Pound, finì travolto dal silenzio. Nel 2016, per la cura di Floyd Cheung, Carcanet ha pubblicato i Collected Poems di Hartmann. Aveva lo sguardo di chi ti sa squadernare il futuro, lì per lì, leggendoti la mano; aveva lunghe mani e lunghi bastoni, e l’eleganza eccessiva, fino alla sciatteria, dei poeti. Non fece mai ritorno in Giappone perché, semplicemente, non aveva un posto a cui fare ritorno.

 John Decker, Portrait of Sadakichi Hartmann

***

Tanka

Inverno? Primavera? Chi può dirlo?
Germogli bianchi sulle ali del susino
sembrano grumi di neve.
Il cielo azzurro non fa sbocciare i fiori
eppure la loro fragranza è un augurio.

*

Luna sonnambula, albina,
si specchia in un mare placido:
quale volubile istinto notturno
ti ha esortata a fuggire dal cielo
per vivere nel mare, all’alba?

*

Come nebbia sui covoni
crolla, dolcemente, la pioggia di primavera
sopra gli agrumeti:
chi si affaccia alla finestra di Ume
la scambierà per un uccello che canta.

*

Anche se l’amore è appassito
i fiori illuminano i boschi:
perché, come un tempo,
non percorri le navate della selva
e sogni le ore passate?

*

Dai un nome a questi
giorni vaghi ed erranti!
Sono come la corteccia
del sogno che le anime randagie
abbandonano all’alba.

*

Ascendi alle mie labbra
musa del vino ambrato!
Gioia di chi sorseggia
i sussurri del sakè,
frutto di una fonte divina.

*

Mentre gli eoni roteano
io conosco il piacere:
che senso ha lamentarsi
se nel futuro vivrò
come una farfalla?

*

Quando le vecchiaia giunge
sulla nostra soglia
vorremmo smorzare la campana
chiudere la porta e chiamare
a servizio un altro giorno.

*

Haiku

Fluttuano petali bianchi
sul sentiero tortuoso del bosco –
nient’altro è il sogno della vita.

*

Alla luna nuova, l’incontro!
Da due settimane attendo invano.
Stanotte – non dimentico.

*

Rosse foglie d’acero:
veglia di fiamme sopra
l’abside dell’albero.

**

L’arte giapponese

Divinità circondate da vaste aureole su fondo blu, strani demoni che sorridono sereni in vesti drappeggiate, morbide, fluenti, assisi su troni di fior di loto, con stemmi mitologici: tali sono le figure giunte dal primo periodo dell’arte giapponese. Come in Italia la pittura devota, prima di sfociare nel realismo dei successori di Masaccio, era incarnata nelle opere del Beato Angelico, che tendevano al mistico e all’ideale, così il Giappone riassumeva nei pannelli che decoravano i suoi templi i criteri di una bellezza purificata, nativa.

Nell’VIII secolo, quando la città di Nara divenne la sede del Mikado, il Giappone non era affatto uno stato arcaico. L’autorità imperiale si era notevolmente estesa, il potere ereditario dei capi locali era stato sostituito da un sistema di prefetti che ricoprivano cariche e compiti sotto il controllo del Mikado. L’educazione nelle arti – che in Giappone significava lo studio dei capolavori dell’antichità cinese – aveva fatto progressi. Erano state create scuole e università, in cui si approfondiva la storia, lo studio dei classici cinesi, il diritto, l’aritmetica. Questo, ovviamente, a beneficio delle classi degli ufficiali; secoli dopo l’istruzione toccò la gente comune. Gli insegnanti di pittura erano per lo più coreani.

La colossale statua in bronzo del Buddha e alcune notevoli sculture in legno, ancora a Nara, testimoniano l’abilità degli artisti giapponesi. Il primo libro che ci è giunto da quella civiltà è il Kojiki, o “Ricordi di vecchie cose”, completato nel 712. A corte esisteva una corporazione, ereditaria, di attori, simili ai bardi della Britannia e dell’Irlanda, che recitavano le “antiche parole” al cospetto del Mikado, durante le occasioni solenni.

Di maggiore importanza sono le realizzazioni in campo architettonico: il buddismo richiedeva templi e pagode maestosi per l’esercizio del culto. Perfino la crescente autorità della corte necessitava di edifici degni alla sua grandezza, in consonanza con gli splendidi cerimoniali adottati in Cina, rispetto ai palazzi del passato, per lo più temporanei.

L’antica civiltà cinese ha svolto nel mondo orientale la parte della Grecia in quello occidentale: non vi è ambito del pensiero giapponese, spirituale, morale, materiale che non porti tracce dell’influenza cinese. Oltre alla Cina, c’è l’India, da cui proviene l’altro carattere decisivo per capire il Giappone: il buddismo. Continuando il paragone, il buddismo occupa una posizione simile a quella del cristianesimo nel mondo occidentale. I giapponesi, nel corso dei secoli, hanno accolto i doni dell’arte cinese e dell’India; tuttavia non dobbiamo intenderli come meri copisti. Se ciò fosse vero, non incontreremmo individualità capaci di cogliere e rifondare le influenze straniere; avremmo un popolo di idolatri, facilmente sottomessi. Ma il Giappone ha rinnovato sempre la propria giovinezza: la struttura stessa delle sue isole, che formano una sorta di mezzaluna staccata dal continente, la voracità dell’isolamento, hanno fatto del Sol Levante una terra privilegiata, adatta alla raffinatezza, alla sprezzatura artistica, a una ossessiva sensibilità.

Il primo pittore menzionato nei documenti è un cinese, Shinki, giunto in Giappone sotto il dominio di Yūryaku (457-479). Poco dopo, un discendente dell’imperatore cinese, Wen Ti, fu dichiarato “l’artista più famoso ai tempi dell’imperatore Buretsu” (498-506). Trecento anni dopo, Nau Riu ottenne dal Mikado il titolo di “primo pittore del Giappone”.

Sadakichi Hartmann

Gruppo MAGOG