04 Settembre 2020

Sia lode a Kim, “l’Amico di tutto il Mondo”, il ragazzo che non ha paura di essere felice e sa che ogni cosa è segreta

Rudyard Kipling aveva il genio dei nomi: Kim rimanda, con la stessa persuasione, ai confini dell’esotico e ai dispacci segreti. Kim pare la formula che dischiude i mondi dell’immaginario, una cifra ipnotica, l’Om della narrativa, la sillaba da cui discende ogni avventura.

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L’Ottocento è pieno di eroine sfregiate dall’amore – la Bovary, la Karenina, la Lady di Henry James – dopo la sbornia, precedente, di eroi più o meno autentici – Ivanohe, Robinson Crusoe – eventualmente sorpresi dal caos – il Lord Jim di Conrad. Kim frega tutti in contropiede: è orfano e povero, “un povero fra i più poveri bianchi”, di una povertà che gli permette di essere tutto – e soprattutto il contrario. Kim è figlio di una “bambinaia nella famiglia di un colonnello”, indiana, morta di colera, innominata, e di Kimball O’Hara, “giovane sergente portabandiera del reggimento irlandese dei Mavericks”, morto vagabondo, donnaiolo, preda del vizio. Appunto: Kim è tutto & il contrario. È indiano e irlandese, è colono e colonizzato, non è né adulto né bambino, parla ogni lingua, ogni dialetto, puro & folle, colomba & serpe. Dalla destrezza dell’incipit – “Sedeva, beffandosi delle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah…” – sappiamo che Kim interpreta gli ordini a suo modo, tramuta l’arma da guerra in un puledro o in un pachiderma.

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Kim attraversa i mondi, ecco. Ecco perché i suoi servigi sono necessari a tutti: agli inglesi, che lo vogliono – anche in virtù dell’ascendenza paterna – come spia nel Grande Gioco; al monaco tibetano che incontra per la via, perché Kim, come si ripete di continuo, “è l’Amico di tutto il Mondo”, è “l’Amico delle Stelle”. Kim può tutto: consegnare dispacci tutelati dal mistero e rintracciare fiumi che esistono solo nella leggenda. Egli è di questo mondo e dell’altro; serve i poteri spirituali e quelli temporali, servendo, di fatto, il proprio capriccio.

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Kim esce a puntate, dal 1900, sul “McClure’s Magazine”, rivista americana che pagava abbastanza bene e che, negli anni, aveva pubblicato Conan Doyle e Jack London, Robert Louis Stevenson e Mark Twain. Il libro è edito, poi, nel 1901, da Macmillan & Co. In molti identificano in Kim – preda dell’autoinzuccamento del proprio autore – il capolavoro di Kipling, io preferisco I libri della giungla e alcuni racconti tardi, torbidi, effettivamente inquietanti. Kipling – lo spiega bene Claudio Magris, nel club dei ‘kiplinghiani’, in una intro all’edizione Einaudi di Kim, “Fra i raggi della Ruota” – non sa scrivere un romanzo, nel senso che non gli importa la struttura romanzesca: anela alla vita e al suo odore, che non si forgia in capitoli. Kim è costituito da una serie di scene, di lampi: per alcuni è un divertimento – come stare su un albero tutto il giorno a spiccare ciliegie – per altri è una chiamata, per lo più è un libro esoterico. Kim dice, con limpida chiarezza, che ciò che importa è ciò che non si vede, il visibile è transitorio, pia illusione per chi si beve la ‘realtà’ e se ne bea, beota. Tutto, infine, è segreto: la Storia procede per trame sotterranee – che implicano il fraintendimento e l’incomprensione, la trappola del demonio –, d’altronde, la Ricerca del senso remoto è un viaggio nell’incomprensibile, tra dèi sgargianti con la lingua di fuori. “Come una goccia tende verso l’acqua, così l’anima mia andava verso la Grande Anima che trascende ogni cosa… Onde ho saputo che l’Anima aveva superato l’illusione del Tempo e dello Spazio e delle Cose. Onde ho saputo che ero libero”, dice il lama, alla fine del libro. Eppure, pur ‘illuminato’, è avvinto dall’affetto per Kim. Perché Kim non è un ragazzo, non è un uomo in carne e ossa: è una ispirazione, un salto nel vuoto, la fede nell’Eldorado e nell’età dell’oro dietro il passo montano, l’astuzia di un pettegolezzo come unico sigillo di verità. La felicità, ecco: Kim è l’ipotesi che si può essere felici. Attraversando ogni volto e ogni luogo, senza sostare in nessuno.

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Kipling – cosa rara tra gli scrittori che traducono in piagnisteo le proprie scartoffie – non aveva paura di essere felice. Come Kim. “La più grande delle tante benedizioni che ebbi la fortuna di ricevere è stata la consapevolezza della mia felicità nel momento in cui la vivevo, e non quando fosse troppo tardi, e io pieno di rimorsi”, scrive Kipling nella sua autobiografia, Qualcosa di me, pubblicata postuma, un anno dopo la morte. La felicità riguarda proprio Kim: “c’è dentro una considerevole grazia e non poca saggezza, e la parte migliore di entrambe la devo a mio padre”. L’omaggio filiale non è fatuo: John Lockwood Kipling fu artista di talento; gli schizzi realizzati nel Punjab e in Kashmir per l’impero britannico sono ora al Victoria and Albert Museum, dal 1875 fu preside della Mayo School of Art in Lahore. Anche il papà di Pasternak era un illustratore, ma ciò che mi sorprende è che JLK ha illustrato molti volumi del figlio ‘Ruddy’. Questo, credo, ha a che fare con un’indole, con l’altitudine di un legame. “Fu pubblicata un’edizione illustrata dei miei lavori e spettò a mio padre occuparsi di Kim… Ricordo un’immagine di mio padre nel tabernacolo di lamiera mentre rovistava tra cumuli di enormi fotografie dell’India alla ricerca di un particolare di nessuna importanza da inserire in una delle sue incisioni. Al mio ingresso, alzò lo sguardo e, grattandosi la barba, senza smettere di rimuginare, citò: ‘Se si raggiunge questa semplice bellezza e solo questa, comunque avete il meglio che Dio inventi’”. Non credo ci siano altri esempi, altrettanto alti, di padri che abbiano illustrato i libri dei figli. JLK morì nel 1911, al figlio era stato assegnato, giovanissimo, nel 1907, il Nobel, e ad esso s’abbinò un certo trascolorare dell’ispirazione.

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A differenza di Peter Pan, Kim non si esilia in un mondo immaginario e abita la giovinezza come un ordine sapienziale; a differenza di Jim Hawkins preferisce l’avventatezza all’avventura e pensa che non ci sia altro tesoro che la libertà di disobbedire – dando ad intendere l’opposto. (Se aggiungiamo Tom Sawyer, il “giovane Holden”, Alice, il David Schearl di Chiamalo sonno, l’Asher Lev di Chaim Potok, le “piccole donne”, pensiamo a come, in modo inatteso, siano i ragazzi ad avere fatto la letteratura in lingua inglese).

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Anche Mowgli – la creatura di Kipling nata qualche anno prima, dedotta dallo stesso marmo felice – è una creatura che varca i mondi. Come Kim, non è bimbo né adulto – il romanzo si scrive per alterare la crescita – come Kim è amico di tutti, uno che attraversa i mondi. Mowgli vive in un feroce paradiso, la giungla, e conosce il gergo di tutti gli animali; Kim è esperto nella natura umana, dialoga con il paria e con il colonnello d’alto grado. Entrambi non ritengono necessario altro al di là oltre la carne e il desiderio, blu – eppure, sono consapevoli che perfino un prato, pure uno sguardo anonimo induce a segregarsi nel segreto. Essi non svelano, si gettano.

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“Kim metteva tutta l’anima nello sguardo che attraversava i baratri turchini”, è scritto. Come se l’anima fosse un balzo e nient’altro che questo vagare tra baratri turchini. Non è importante imparare l’equilibrio, semmai scegliere di farne a meno; turchino è il nome dato a una morte certa. Il vero maestro è Kim che tra l’illuminazione e la menzogna sta nel mezzo, prestando fede a tutti, a nessuno, e ride. (d.b.)

*In copertina: Steve McCurry, “Indian Child”, 1997; la fotografia è tratta da qui

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