17 Marzo 2020

In questo tempo moribondo mi innamoro perdutamente di Rubem Alves…

L’aria del complotto fa starnutire le spie. Sta tornando il tempo libero, come un tornado, come una corrente d’aria che contagia anche questo tempo, si ammala, non quello meteorologico che diventa brutto e cattivo, no, quello relativo, cronos e kairos, di un male di vivere alla giornata, di una febbre da domenica pomeriggio, quando la malinconia assurge a tristezza, sgomento inspiegabile, vecchiaia dentro. Mentre allo stereo alterno Dalla alla Bossanova mi resta una domanda per la quale non ho risposta. Mi è stato chiesto se credo in Dio? Ho risposto con un verso non mio, di Chico Buarque: saudade è il contrario del parto. È preparare la camera per il figlio morto. Qual è la madre che più ama? Quella che prepara la camera per il figlio che non farà ritorno o quella che prepara la camera per il figlio che farà ritorno. Sono un costruttore di altari. Li costruisco sulla sponda di un abisso scuro e silenzioso. Li costruisco con poesia e musica. I fuochi che su di essi accendo mi scaldano le mani e m’illuminano il volto.

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In questo tempo moribondo m’innamoro perdutamente di Rubem Alves, un intellettuale brasiliano morto ottantenne da poco, fu psicanalista, filosofo, storico, poeta, pedagogista, cultore di cucina, pastore presbiteriano e, come teologo, è stato il primo a scrivere in modo approfondito sulla teologia della liberazione. Viene poi accusato di condotta sovversiva dalle autorità ecclesiastiche presbiteriane e perseguito dal regime militare. Per questo abbandona il Brasile e si rifugia negli Stati Uniti. Educatore, teologo, psicanalista, ma anche (o soprattutto) poeta, scrittore di racconti per bambini, amante della cucina. È un mago della parola e possiede uno stile inconfondibile. Ha scritto su temi che spaziano per gli universi della sociologia, della psicanalisi, della filosofia e della teologia. colui che ha coniato il termine “Teologia della liberazione”. Ma più di ogni cosa, Rubem è – come ha avuto modo di sottolineare Antonio Nanni – “Un suscitatore di sensazioni, di emozioni, di fantasie e riesce a risvegliare in chi lo ascolta un mondo di sogni e fiabe che si è addormentato con la fine dell’infanzia in ciascuno di noi”. È uno degli intellettuali più conosciuti e rispettati del Brasile. Autore di una vastissima opera (la sua bibliografia enumera più di 50 titoli), con forte connotazione autobiografica, Alves è uno dei più luminosi artefici della lingua portoghese, la cui plasticità ha toccato nei suoi testi forme cangianti ed espressioni di rara e sempre sorprendente singolarità. Negli anni ’90, giunto alla pensione, diventa proprietario di un “particolare” ristorante nella città di Campinas, dove potrà dare libero sfogo al suo amore per la cucina. Il direttore della Scuola da Ponte (Portogallo) ha detto di lui: “Rubem è un appassionato della vita, un compulsivo fruitore della vita. Ancora non ha scritto tutti i testi e tutti i libri che la sua mente contiene, ancora non ha sentito, amato, giocato e riso abbastanza, ancora non ha risposto a tutte le lettere e messaggi degli amici, ancora non ha raccontato alle sue nipotine tutte le storie che esse sarebbero capaci di indovinare, ancora non ha fatto esperienza di tutte le assenze e di tutte le nostalgie, ancora non ha spiato tutti i misteri del mondo e di se stesso… Al tema dell’educazione associa spesso la metafora del “sogno” e del “giardino”: «Le scuole si dedicano ad insegnare i saperi scientifici, dal momento che la loro ideologia scientifica proibisce di avere a che fare con i sogni (cosa romantica!). Mi spaventa l’incapacità delle scuole di creare sogni! Soprattutto oggi che i mezzi di comunicazione – specialmente la televisione – che conoscono bene la psicologia degli esseri umani, seducono le persone con i loro sogni piccoli, spesso grotteschi. Mi spaventa la capacità dei mezzi di comunicazione di creare sogni! Ma da sogni piccoli e grotteschi può solo sorgere un popolo di idee piccole e grottesche, che ignorano che l’essenziale nella vita di un paese è l’educazione». E altrove: «La mia passione per l’educazione ha dei paesaggi e i paesaggi che mi commuovono adesso non sono gli stessi che mi parevano tali quando ero giovane: esiste un mondo che avviene grazie allo svolgersi logico della storia, in tutta la sua crudezza e insensibilità, ma c’è un mondo ugualmente concreto che nasce da i sogni: La Pietà di Michelangelo, Il bacio di Rodin, le tele di Van Gogh e Monet, le musiche di Tom Jobim, i libri di Guimarães Rosa e di Saramago, le case, i giardini, i cibi: essi sono esistiti come sogni prima di esistere come fatti. Quando i sogni prendono forma concreta sorge la bellezza. Zarathustra diceva che era giunto il tempo per l’uomo di piantare le sementi della sua più alta speranza. È questa l’immagine che si forma attorno alla mia passione per l’educazione: sto seminando le sementi della mia più alta speranza, non cerco discepoli cui comunicare saperi, i saperi già vagano a disposizione di chi li voglia catturare. Io cerco discepoli per piantare in essi le mie speranze».

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Come si vede, Rubem – con il suo stile peculiare e d’impatto – porta delle severe critiche al sistema educativo. Ma chi lo conosce da vicino, sa che le sue critiche sono la manifestazione di un desiderio profondo di offrire ai nostri alunni un’educazione più giusta, grazie alla quale il professore stesso possa realizzarsi nella sua vocazione di maestro. Pensieri sull’educazione «L’atto di educare si rivela nell’atto di fare l’amore. Chi impara dagli amanti diventa un migliore educatore. Gli alunni conosceranno, concepiranno e daranno alla luce». «Ogni esperienza di apprendimento inizia con un’esperienza affettiva». «Non esiste niente di più pernicioso per il pensiero che l’insegnamento delle risposte esatte. Le risposte ci permettono di camminare su terra sicura. Ma solo le domande ci permettono di entrare nel mare sconosciuto. Per questo esistono le scuole: non per insegnare le risposte, ma per insegnare le domande». «Educare è mostrare la vita a chi ancora non l’ha vista. L’educatore dice: Guarda! E così dicendo mostra. L’alunno guarda nella direzione indicata e vede ciò che non aveva mai visto ancora. Il suo mondo si espande e lui diventa più ricco interiormente, e diventando più ricco interiormente, può provare più gioia e dare più gioia, che sono le ragioni per le quali viviamo. Il miracolo dell’educazione avviene quando vediamo un mondo che non si era mai visto».

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I suoi libri, in Italia pochi e introvabili, sono pietre preziose, miliari, monili di gemme brillanti, rubini di Rubem che riguardano soprattutto la religione, trattata in modo moderno, rivalutata nella gioia e nel corpo, nel gioco e nell’arte, dall’etica all’estetica, piena di guerrieri teneri (lotta meglio chi ha bei sogni) che combattono con le armi della speranza per liberare finalmente l’uomo che non avanza. Congratulazioni a Marco dal Corso, che lo ha portato in Italia facendoci così conoscere questo cristiano brasiliano che non è cattolico ma protestante, che si presenta al consiglio ecumenico della Chiesa a Ginevra raccontando storie per bambini (l’ostrica felice non produce perle e il gallo che cantava per far nascere il sole sono le due più belle); che invitato a tenere una conferenza per persone della terza età esordisce così: signore e signori, siete arrivati finalmente a quell’età meravigliosa in cui potete concedervi il lusso di essere totalmente inutili. Tutti iniziarono a mormorare, ma lui voleva soltanto intendere che fossero messi nello stesso baule dove c’erano i giochi, ben sapendo che qualunque paradiso diventa inferno quando un adulto vi entra. In un poema di Alberto Caeiro all’entrata dell’Eden non c’è san Pietro con il libro contabile di Dio, ma una bambina che apre un baule enorme, dove sono custoditi tutti i giochi inventati e da inventare, e chiede svelta: scegli, vuoi giocare? Entra solo chi sta al gioco e diventa felice. Ma molti si arrabbiano, portano valige di opere buone da presentare a un superiore, sono persone serie, sono andati a scuola per imparare il mestiere di vivere. Mi dispiace, ma qui non sarete promossi, resterete fuori, tornate quando sarete ridiventati bambini e avrete imparato a giocare.

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Più scoprite Alves e più gli interrogativi aumentano, ben sapendo che la vita è la risposta che cerca la domanda. Dà sempre una bella risposta chi pone una domanda ancor più bella. Cummings. Offro solo risposte a domande che nessuno ha posto. Rosa. Rubem usa metafore e storie, poesia e magia, ragni e ragnatele, per parlarvi d’insegnamento e di apprendimento, va sempre a togliere, a levare, come volesse farvi disimparare. Insegnare deve essere un atto di allegria, un dovere fatto di passione ad arte. Si è come dei pagliacci che salgono sul palco tutti i giorni con la stessa missione e con la stessa parte: divertire gli altri, distrarli dalle loro vite per inoculargli la loro vocazione. Rubem è un grande affabulatore, come tutti i sudamericani, infatti si allaccia spesso a Garcia Marquez e Guimarães Rosa, adatta il Vangelo ai giorni nostri, nutrendolo di nuovi significati. Ma come può un uomo che tra le sue fonti cita Marx e Nietsche portarci alla radice di Dio? Infatti fonda la teopoesia: Dio è un poeta. Se potessi fare una nuova traduzione del testo di Giovanni “e il verbo si fece carne” metterei “e un poema si fece carne”. Mi piacerebbe che la teologia fosse fatta di parole che rendono visibili i sogni e che, quando sono pronunciate, trasformassero la valle di ossa disseccate in una moltitudine di bambini. Fuori dalla bellezza non c’è salvezza. Rubem Alves, guerriero poeta profeta, amico di Mario Quintana, poeta bambino, venerato in patria, sconosciuto qui vicino, che ha come epitaffio sulla tomba “io non sono qui”, e che gli scrive così: tutti quelli che stanno ad ingombrare il mio cammino, essi passeranno, io passerò; amico di Cecilia Meireles, stessa identica sorte del precedente, che cita nuovamente: rimango a meditare se dopo molto navigare si approdi infine in qualche luogo, forse ancora più triste, ne’ barche, ne’ gabbiani, appena sovrumane compagnie, da lontano intravedo l’orizzonte, molto prossimo e senza possibilità, che pena che la vita sia solo questa. Lettore di Valery: che sarebbe di noi senza l’aiuto di quello che non esiste; di Pessoa: Dio vuole. L’uomo sogna. L’opera nasce. Se potessi vivere la mia vita nuovamente cercherei di commettere più errori, correrei maggiori rischi, viaggerei di più, contemplerei di più i tramonti, ma io sono dove sono perché tutti miei piani non hanno funzionato. Sembra una cosa triste quando invece c’è da piangere di gioia. A un certo punto parlando di poesia cita suor Juana Ines de la Cruz: Facciamo silenzio non perché non abbiamo niente da dire, ma perché non sappiamo come dire tutto quello che ci piacerebbe dire. Milton Nascimento dalla radio ha proprio ragione: La terra va in calore, essa ci desidera. Solo diventando dei giardinieri potremmo riappropriarci e gustarci il giardino dell’Eden. Tornando al nostro Alves, in un suo libro ci imbattiamo in un verso di Rilke: chi mai ci deformò, chi ci stravolse così, che sempre ripetiamo il gesto di prender congedo? Contagio? Resto aggrappato al vaccino di Rubem, salvezza in Alves, e alla grande fortuna e occasione di aver conosciuto in questo periodo sfiduciato e sfidato, di amore e psicosi, questo enorme uomo delle amazzoni che ci parla di Dio dal trespolo di un giullare e non ha paura di dichiarare che Descartes si sbagliava, l’essenza dell’uomo è il desiderio. La fantasia crea la Ragione. Lascia che la Bellezza, senza parole e neppure catechismo, evangelizzi il mondo. Dio è bellezza.

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Grazie Rubem per avermi ammalato con cura, con devozione e premura, pazienza che non dura. Questa guerra invisibile, fatta da nemici anemici, ci insegnerà l’incertezza, l’imprevedibilità, la serendipità, e il distacco ci farà mancare le persone care… Non siamo preparati alla guerra fisica, pensa un po’ a quella interiore. I politici e i medici danno l’impressione di brancolare nel buio come capi tribù e stregoni voodoo, di dire tutto e il contrario di tutto come chi deve imbonire un pubblico pagante e non dovuto, venendo a patti col diavolo, tentatore e divisore. Perché la verità (che non va confusa con la realtà) è essenzialmente poetica. “La verità dei poeti – ha scritto Marina Cvetaeva – è la più invincibile, la più inafferrabile, la più indimostrabile e insieme convincente (…) Una verità irresponsabile e priva di conseguenze, una verità che –  Dio ce ne scampi! – non bisogna neanche cercare di inseguire (…) La verità del poeta è un sentiero su cui le tracce vengono subito nascoste dall’erba (…) Non è una tra le innumerevoli verità, ma uno degli innumerevoli aspetti della verità (…) Gli aspetti ogni volta diversi e irripetibili della verità. Semplicemente – una puntura al cuore. Trafittura dell’eterno”.

Di Rubem, in Italia, c’è troppo poco. Punto.

Luca Gaviani

Gruppo MAGOG