La letterina di Ricardo Franco Levi commissario della Fiera del libro di Francoforte del 2024, celere nell’invitarlo alla cerimonia d’apertura come nel ritirare l’invito, al fisico Carlo Rovelli e da lui resa pubblica tramite account social, è di quelle involontariamente utili per capire non tanto cosa dice chi poi in fiera non ci va ma cosa si deve peritare di non dire neanche distrattamente chi in fiera ci va e ci tiene ad andarci. Ricardo Franco Levi, fino al 2024, fa comodamente a tempo per continuare a invitare e poi a rifiutare l’invito a Rovelli, una gag esilarante tutt’ora in corso, ma quel che è stato scritto resta – anche durante la nostra epoca elettricamente volatile, in cui tutto è esperimento sociale, teso a capire lo stato di letargia del corpo pubblico: a questo giro, al colpo di pungolo, ancora s’è mosso, ha muggito un lamento. Bisognerà ritentare.
Se l’Italia, e l’Europa, eccetera eccetera, fossero paesi e continenti simpatici, orgogliosi il giusto per stare nel mercato della cultura con la schiena dritta di chi dovrebbe curvarla solo sulle sudate carte, si assisterebbe a un fioccare di letterine da parte di editori e autori che darebbero disdetta invitando i rispettivi commissari nazionali a farsela da soli la fiera, tanto date le premesse svelate sarebbe difficile farla riuscire meno beceramente strapaesana di così, e mica perché siano obbligati a solidarizzare con le posizioni di Rovelli: soltanto col suo banale diritto di esprimerle. Uno pensa sia un caposaldo della civiltà e invece è il solito privilegio accordato a chi sa negoziarlo prima ancora di esercitarlo. La mia aspettativa di codeste letterine è nulla poiché l’alibi a disposizione è di quelli ghiotti: con l’Ucraina contro la Russia!, e chi eccepisce è figlio di una matrioska.
La questione si risolverà con una richiesta di dimissioni del commissario, non date, e grazie alla formula passepartout tramite la quale è possibile dire una cosa e subito dopo il suo contrario, bypassando il principio di non contraddizione: sono-stato-frainteso, ovvero: Questa volta non ci sono riuscito, sarà per la prossima. Intanto che formulavo un verdetto di solidarietà alla mia libertà di opinione, esprimendola transitivamente a Rovelli a cui tutto sommato si libererebbe un buco nero su bianco in agenda nel 2024, capitavo su un canale televisivo privato come tutti dove un direttore di telegiornale e l’ospite in studio erano lì a fare la cronaca minuto per minuto di un evento che esisteva solo giornalisticamente, un po’ come l’incoronazione di quel principe inglese attempatello: a spegnere le telecamere, della visita ufficiale in Italia del presidente ucraino Zelensky restava quel niente di che a cui erano stati costretti a sottoporsi i partecipanti per dovere istituzionale.
D’altronde sembra l’indignazione generale sia reattiva verso un papa che non benedice un cane e molto meno di fronte a questioni meno scottanti quali la deportazione di bambini e l’ipotesi d’uso dell’arma nucleare tattica. Si sentiva grondare il desiderio non-detto del commentatore di poter annunciare in diretta: un piccolo attentato, una pistolettata anche a salve in Vaticano, una caduta per le scale di un premier quale che sia, un flash-mob di nostalgici filogovernativi o no che intonasse un coretto alle spalle dell’incontro a porte chiuse: Putin tu c’hai rubato il cuor! Uno scandalo nuovo, insomma, siccome la guerra fa in fretta a diventare un pettegolezzo tra i tanti. Più passa il tempo più dell’invasione russa all’Ucraina si sa meno, avanti la Verità di Coalizione e chissà in quali retrovie si sono impantanate le notizie. Come stanno gli ucraini? Come stanno i russi? La guerra è giusta finché le condizioni di pace sono ingiuste? Chi è interpellato per dire la sua su cosa rende giusta una pace o su quali siano i mezzi più efficaci per concordarne una? Sempre più marginali i cosiddetti cittadini tornano buoni per andare alle fiere a fare acquisti o per acquistare quello che alle fiere viene contrattualizzato tra i big player di settore, mica per andare in piazza o ovunque in giro perché si senta anche la loro voce.
Pagare la partecipazione alla fiera delle parole scritte al loro meglio facendo silenzio su quanto sarebbe sgradito agli organizzatori mi piace considerarlo una contraddizione in termini e non l’ennesima ustione con l’acqua calda. Cheppoi, questa fantomatica voce-del-popolo cosa chiederebbe? Meno armi e più accordi? Gli eserciti aggressori li vedo poco sensibili alle proteste democratiche dei paesi neppure confinanti. Sapremmo restare senza petrolio e senza grano? Comprare dall’invasore e vendere all’invaso, se non è un comportamento da invasati questo. Come invasato è lo stile della letterina diplomatica di Ricardo Franco Levi, che nessun dietrofront a favore di ritirata strategica potrà cancellare: non fosse elettronica viene facile immaginarsela vergata in inchiostro d’aspide. Di certo infrange la convenzione sulle armi chimiche: a leggerla due volte di seguito si può morirne sul colpo di voltastomaco.
antonio coda