“Io esigo la restituzione della libertà al nostro popolo tedesco. Noi non vogliamo trascorrere la nostra breve vita incatenati come schiavi, fossero anche le catene dorate del benessere materiale”.
Queste parole furono scritte dal musicologo, filosofo e psicologo Kurt Huber nel carcere di Monaco nell’aprile del 1943, parole poi lette di fronte ad una corte dalle toghe scarlatte, tra interruzioni e insulti da parte dell’infame nazista (per questo non merita nominarlo) che la presiedeva. Queste parole figurano sulla quarta di copertina di un libro raro, La Rosa Bianca, scritto da Paolo Ghezzi da Trento, che conosce e si è dedicato a ripercorrere la storia degli studenti di Monaco (Sophie Scholl, suo fratello Hans Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf) e del professor Kurt Huber come pochi, riuscendo a rendercela forse come nessuno, come se essi fossero ancora vivi, in questa vita. E in fondo è veramente come se i morti potessero parlarci.
Nel libro si intrecciano le loro biografie, le loro storie, uniche e irripetibili, come il percorso di vita di ciascuno; e inoltre i buoni libri di cui nutrirono, i valori autenticamente cristiani, i controveleni più efficaci contro “il flagello della svastica” (Lord Russell), la martellante propaganda del regime. Ciò sino al patibolo che tutti affrontarono con tale animo da impressionare persino i carcerieri e il boia, pur abituati a vederne morire. Soprattutto Sophie Scholl.
Un libro ricco di testimonianze, storicamente rigoroso eppure pieno di pathos. Così fu scritto, oltre vent’anni fa, così si legge, d’un fiato, nella nuova edizione San Paolo, riveduta e corretta dall’autore e, nelle conclusioni, attualizzata in relazione all’ultima tragedia europea, la guerra in Ucraina (di questo scriverò tra un momento, poiché dissento dall’idea che Paolo Ghezzi si è fatto sulle cause e le responsabilità di questa guerra, anche se lo so in buona fede). Sono parole, quelle di Kurt Huber, valide per ogni tempo, per ogni popolo, per ogni coscienza degna del più gran dono che l’umanità abbia ricevuto, più prezioso del fuoco di Prometeo, ovvero il dono della libertà, persino la libertà di credere o non credere all’esistenza del Creatore.
Le parole di Kurt Huber me ne hanno evocate altre, quelle che nella Commedia Virgilio rivolge a Catone Uticense, il guardiano del Purgatorio, il quale ha scambiato lui e Dante per evasi dal sottosuolo. Così Virgilio lo rassicura, anteponendo Dante a se stesso:
“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu ’l sai ché non ti fu per lei amara in Utica la morte…”
Certo, questa è una finzione poetica ambientata in Purgatorio (anche in laude di un martire pagano, il suicida Catone), mentre le parole di Kurt Huber sono le parole di un prigioniero in un tangibile inferno terrestre, parole scritte all’ombra della ghigliottina. Però, queste e quelle, sono soprattutto parole che nascono dall’amore per la libertà, così da scegliere il martirio o il suicidio (esiti preferibili, per certi rari spiriti), se il prezzo da pagare alla sopravvivenza è la menzogna. Inoltre, a dirla tutta, guardando il mondo che gira, di “catene dorate del benessere materiale” se ne vedono sempre meno. Più che altro si vedono catene di vile metallo, vile come l’epoca in cui viviamo “la nostra breve vita incatenati come schiavi”.
Dovremmo tutti esigere la restituzione della libertà alla nostra famiglia umana. E qui mi ritornano alla mente le parole che mi disse Franco Fortini, molti anni fa, in una prigione, commentando amaramente la solita “bravata” degli americani che avevano dispiegato la loro “geometrica potenza” nel Golfo della Sirte disintegrando una nave militare libica:
“Che orrore anche i titoli entusiastici di certi giornali e telegiornali. Possibile che a nessuno sia venuto in mente che in quel momento stavano bruciando degli appartenenti alla famiglia umana? Comunque la si pensi”.
E, dal momento che da ricordo nasce ricordo, mi ritorna alla mente l’osceno orgasmo in diretta televisiva di Emilio Fede allo scoccare della seconda guerra del Golfo, col bombardamento di Bagdad: “Hanno attaccato! Hanno attaccato!”. Rivendicava così il suo primato informativo, dimenticando che, sotto le bombe che stavano portando la democrazia in Irak, morivano degli appartenenti alla famiglia umana. Sappiamo com’è finita, con la distruzione di una nazione e la fine della carriera di Emilio Fede, sempre per motivi osceni.
I buoni libri si distinguono dalla carta sprecata che ingombra le librerie non solo e non soprattutto per “il bello stilo”, ma per i ragionamenti e i sentimenti che suscitano, talvolta contraddittori. Del libro di Paolo Ghezzi, come ho già accennato, non accetto l’accostamento finale tra la Germania del 1943 all’Ucraina del 2022. Semmai la situazione attuale potrebbe ricordarci il 1914 e le caricature bestiali con cui i diversi nazionalismi si ritraevano l’un l’altro. Lo zar era rappresentato come un orso o una piovra. Ora, Putin non è lo zar, tantomeno Hitler. Putin è quello che è, cioè l’espressione e il punto di equilibrio di un sistema di potere che anche l’Occidente ha contribuito grandemente a generare, con l’intento strategico di smembrare, disgregare la concorrenza, nell’esclusivo interesse di una sola grande potenza egemone. Insomma, penso che la guerra in Ucraina sia fondamentalmente un conflitto tra le grandi potenze combattuto sulla pelle della gente, come sempre. L’Ucraina, cioè “Terra di confine”, o “Piccola Russia”, com’era chiamata in età zarista, è quasi sempre stata una terra ad alto rischio sismico, di contese sanguinose, tra cosacchi e polacchi, una terra di confine multietnica. Avrebbe potuto vivere in pace e prosperare. Invece la si è voluta scientemente trasformare in una polveriera, sapendo perfettamente che poi sarebbe bastata una scintilla a farla saltare in aria. Come accadde a Sarajevo, nel 1914 e anche nell’ultima guerra balcanica. Col risultato che il pericolo di una guerra totale – che poi sarebbe l’ultima – è più incombente in questo momento di quanto lo fosse ai tempi della guerra fredda. A questo punto però mi rendo conto di essere forse uscito un po’ dal tema principale (mi succedeva anche a scuola), per cui concludo. Nessuno può sapere con certezza con quali occhi “i ragazzi di Monaco” e il professor Kurt Huber vedrebbero la tragedia attuale. Certamente cercherebbero uno scorcio di verità, fra tante e spesse cortine fumogene, in buona fede. Il che, tuttavia, non sarebbe così semplice. Però non credo che sentirebbero profumo di libertà tra i neonazisti del battaglione Azov incorporati nell’esercito ucraino, i cui nonni o bisnonni magari erano tra i guardiani di Auschwitz. A colpi di propaganda, tra un po’ ci racconteranno che Auschwitz non fu liberata dell’Armata Rossa, ma dall’Armata Nera.