
“Come di fronte a un sacrilegio”. Dialogo con Aurelio Picca, lo scrittore più antico d’Italia
Dialoghi
Francesco Subiaco
Rainer Maria Rilke a Muzot, nel castello che diventa osservatorio astronomico sui millenni, eremo delle apocalissi. Si sbaglia a pensare al poeta, lì, come a un monaco. Rilke non lo è: non rinuncia, ma si eleva. Non fugge, si conficca. È l’esatto, smagrito, specchio dell’epoca: le Elegie ti vincono come una spirale, sono il canto della caduta, senza rinascita. Il poeta dagli occhi diafani, adorato dai principi, incontestabile padrone del verbo dettato tra Parigi, Monaco, Praga, eremita e dandy, di sorridente ferocia, è nato per mettere la parola fine, non certo per scrivere la vita.
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Romano Guardini abita dentro Rainer Maria Rilke per oltre un decennio: nel 1953 pubblica il suo grande studio su “Le Elegie duinesi come interpretazione dell’esistenza”, recentemente ristampato da Morcelliana. Il libro non va letto come compendio per capire Rilke dallo sguardo di un critico letterario; non è filosofia munta e desunta dalla lirica (l’atteggiamento, per dire di un genio, con cui Martin Heidegger attraversa Hölderlin, Stefan George, Georg Trakl, lo stesso Rilke). Guardini interpreta Rilke come “il poeta tedesco più singolare dell’età moderna al tramonto” e le Elegie come “esperienza esistenziale”. Meglio ancora: “Rilke ha proclamato in chiare sillabe la pretesa di avere come le Elegie espresso cose nuove e profonde, un messaggio metafisico, più esattamente religioso, il quale esige chiarificazioni molto accurate”. Per Guardini il poeta è una sonda, il pioniere del futuro, padrone del fuoco, pietra incisa e scagliata tra le zanne della Storia. Al poeta, cioè, Guardini assegna una specie di preveggenza, di presenza. Guardini legge il poeta come un profeta, come fosse Isaia. Al di là di questo – le parole, in poesia, sono botole che danno accesso ad altro, tutt’altro – la poesia è orpello, fiocco, gioco inutile. Materia accademica. Ambito di discussione.
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“In che cosa consiste la risposta alla domanda circa la sorte dell’uomo? In forma di vera risposta non si dà affatto. Il significato dell’uomo rimane oscillante fra la ‘vergogna forse’ e una ‘speranza inesprimibile’. Non è possibile dire dove l’uomo stia, dove vada a finire ciò ch’è suo e che cosa egli significhi per l’universo”. Guardini legge Rilke con ammirazione, come il poeta più grande, ma il problema ‘formale’ è sempre questione che riguarda la forma che prende l’esistere. Rilke è poeta della crisi, non della risposta, dell’individualismo, non dell’individuo; la sua scelta esistenziale, radicale – dalla primavera del 1919 decide di non vedere più la figlia Ruth, ad esempio –, è radicata all’ambito estetico, non estatico. Ciò che dice dell’epoca il poeta è l’abbandono, l’amnistia.
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“Rilke è uno degli individualisti più conseguenti dell’età moderna al suo finire. L’intera sua vita lo dimostra. Mai egli ha potuto legarsi a qualcuno o a qualcosa in quel modo definitivo che deriva da un’autentica decisione. Si è riservato ogni volta altre nuove possibilità. La sua vita non fu che una peregrinazione continua. Le sue relazioni umane furono tanto numerose quanto in ultima analisi non definitive. A dispetto dei molti fili che legano la sua lingua al passato e al futuro, questa sua lingua è molto singolare. Per chiunque subisce la sua scuola è funesta. Solo in Rilke si sopporta il modo come egli tratta la grammatica e la sintassi, il modo come estrae le parole dall’uso corrente e le inserisce in rapporti nuovi… Si tratta in buona parte di fenomeni di combustione linguistica, i quali senza dubbio arrivano a illuminare certe segrete cose, a liberare certe vibrazioni, a suscitare certi echi, ma dove pure va bruciato qualcosa che appartiene alla struttura portante, quasi diremmo all’onore della lingua. Chiunque voglia imparare a fare poesia deve guardarsi da Rilke”.
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Tanto intenso da risultare sfuggente, il viso di Rilke riguarda la sua poesia. Qualcosa di impenetrabile, di incerto, la celebra: leggere come camminare su un filo. Oltre alla vertigine puoi trarre il tintinnio del vento, che scuote la corda.
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Le parole di Guardini sono dure, rivolte però a ciò che ama. Certo, Guardini crede che la via, la verità e la vita siano rivelate da Cristo, ed è da questo che discende la sua lunga critica a Rilke. Mi verrebbe da dire che Rilke è indiscutibile, ma cadrei nell’eresia opposta. Rilke è il poeta che accenna, che della luce indaga l’ombra, che relega nel sospiro le regole della lotta e dell’obbedienza, che è rapito senza rapire. È un fuoco azzurro. La poesia lo consuma, ma il poeta non è martire: questa vita è poco più che una fuga, l’altra è cenere. C’è una gioia sottile, cardata in tenebra, nell’ammirare ciò che si consuma, esegeti del tramonto, della promessa mancata.
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“D’ora in poi l’uomo ha da essere la istanza assolutamente decisiva: e in modo così totale che egli sarà capace e si impegnerà non solo a scoprire le norme e i valori, ma a crearli. Tutto ciò era falso: era la falsità esistenziale. Il fatto che lo fosse lo si è visto ben chiaro quando fu chiaro in quale catastrofico modo l’autonomia come atto e come atteggiamento sottopongano l’uomo a una tensione che lo soverchia. Non solo gradualmente ma qualitativamente, in senso assoluto. Essa gli conferisce un diritto che non gli spetta, per sua natura. Lo carica di pretese che non è in grado di soddisfare, se fa conto sulla sua natura… L’uomo che si era dichiarato signore di se stesso e, come tale, signore dell’esistenza tutta, è stanco di tanta pretesa. Ma egli non rientra nel suo carattere autentico, bensì di butta via. Dopo aver respinto l’autorità divina e quella umana che si fondava sulla divina, egli si getta in balia del totalitarismo politico”. Tra la Storia, la sua stortura, e l’uomo, Rilke sceglie il vuoto, la vita estetica. Distingue la febbre del tempo, orla in ceramica l’urlo. Oltre all’assoluto, sembra dire Guardini, c’è l’assalto. (d.b.)