In seconde nozze, nel 1934, aveva sposato Maria Cuvilier, russa di madre svizzera, già consorte del conte Koudačev; compiva 68 anni. Ispirato dalla consorte, infiammato dai propri ideali, invitato da Maksim Gor’kij, l’anno dopo Romain Rolland è a Mosca, al cospetto di Stalin. La foto di rito li ritrae insieme: vicini ma, così pare, a distanza d’abisso; Iosif, come sempre, con quel viso chiuso, scaltro, che di tutto sospetta; l’altro spettrale, esangue, un ventaglio di fumo. Guardano, i due, in direzioni diverse, opposte; nessuno fissa la camera.
L’intervista a Stalin realizzata da Rolland uscì il 28 giugno del 1935, fu uno scoop, come si dice; di fatto lo scrittore francese, infatuato – come altri, a quel tempo – delle sorti progressive dell’Urss, tende a mostrare la grandezza avveniristica dello Stato socialista. L’intervista – un vero e proprio dialogo, a dire il vero, in cui Rolland mostra doti d’indagine –, al di là delle malizie di Stalin – “Sono onorato di parlare con il più grande scrittore del mondo” –, è istruttiva. Stalin, in sintesi, racconta la sua visione della politica europea (“In Europa e nel mondo capitalista sono sorti due sistemi statali: quello fascista, che sopprime la vita con mezzi meccanici; dove la classe operaia e il suo pensiero sono sottomessi dalle macchine; dove non si respira – e quello democratico borghese, residuo dei vecchi tempi. Anche questo sistema soffoca il movimento operaio, ma con altri mezzi: il Parlamento, la stampa, i partiti…”), la necessità della lotta armata (“Noi bolscevichi eravamo contro la guerra, ma non abbiamo mai rifiutato le armi… quando la guerra è diventata inevitabile, abbiamo imparato a sparare e a voltare le armi contri i nemici di classe”), la cautela nell’intromettersi nei fatti d’Occidente: “Lei ritiene che dovremmo guidare i nostri amici occidentali. Abbiamo timore di assumere un compito del genere. Ogni Paese ha le sue condizioni e dirigerle da Mosca sarebbe pretenzioso. Ci limitiamo a dare consigli”. Infine, Stalin proclama la buona novella comunista: “Il nostro scopo è liberare gli uomini dallo sfruttamento e dall’oppressione, rendere libero l’individuo. Il capitalismo, che avvolge gli uomini nelle reti della coercizione, priva l’individuo della libertà basilare. Solo chi è ricco è davvero libero in un sistema capitalista. Spezzando le catene dello sfruttamento, libereremo l’uomo, riaccendendo in lui l’amore per il lavoro”. L’anno dopo, Gor’kij, fautore del ‘realismo socialista’, sarebbe morto in circostanze mai chiarite; soprattutto, l’era delle “Grandi purghe”, delle deportazioni di massa, delle accuse di ‘attività controrivoluzionaria’, dei Gulag, sollecitata dal terrore, avrebbe raggiunto l’acme, accelerazione spietata, la fase più accesa.
Pacifista integrale, vent’anni prima della visita a Mosca, Rolland aveva ricevuto il Nobel per la letteratura: dalla Svizzera, durante la Prima guerra, continuò a scrivere contro i guerrafondai, contro la macelleria della Storia. Nell’agosto del ’14, sul suo diario, lo scrittore appunta, “Sono sopraffatto. Desidero la morte. Orribile la vita in mezzo a questa umanità demente, assistere, inerme, al fallimento della civiltà”. Cercò di essere equidistante, di indossare un’aurea, rabbiosa nobiltà: dai francesi fu accusato di tradimento, dai tedeschi fu semplicemente ignorato. Alcuni suoi testi – Au-dessus de la mêlée, ad esempio – sono classici del pacifismo: in calce a questo articolo si pubblica parte di un saggio scritto nel 1916, Aux peuples assassinés.
Nato a Clamency alla fine del gennaio 1866, Rolland si è dedicato, primariamente, alla musica: specializzatosi a Roma – dove entra in confidenza con Malwida von Meysenbug, amica di Nietzsche e di Wagner – insegna storia dell’arte e della musica alla Sorbona (che abbandona, comunque, ostile alle museruole accademiche, nel 1912). Benché sia Jean-Christophe, romanzo fluviale, pubblicato tra il 1904 e il 1912, autentico, come si dice, ‘ritratto di un’epoca’, a dargli fama, in Italia è conosciuto, ormai, per lo più per le autobiografie, genere in cui eccelleva: Vita di Michelangelo, Vita di Beethoven, Haendel, sono dei piccoli classici. Nel 1911 pubblica una Vita di Tolstoj; “Lotta tragica e gloriosa, in cui hanno preso parte tutte le forze della vita, tutti i vizi, tutte le virtù”: così riassume l’esistenza del sommo romanziere russo, di cui fu amico. In particolare, in appendice, accenna ai rapporti tra Tolstoj e Gandhi: entrambi costituiscono i cardini del pensiero non violento di Rolland. Nel 1924 dedicherà un’autobiografia – fondamentale, per l’epoca – proprio a Gandhi: una manciata di fotografie testimoniano gli incontri tra lo scrittore francese e il guru indiano, la reciproca stima.
Certo, peccava in astrazioni, probabilmente, Rolland; il suo pacifismo pareva, più che altro, un proposito, un’idea cristallina, un castello in aria; la potenza retorica dello scrittore, però, è indubbia. Su “L’Humanité”, il 26 giugno del 1919, all’alba di Versailles, Rolland scrive la fatidica Déclaration de l’indépendance de l’Esprit. Al netto degli intenti teorici, vaghi, convince, ancora, la critica serrata all’intellettuale di Stato, servo dei potenti, dei propri bassi istinti, della fama: “La maggior parte degli intellettuali ha messo il proprio talento al servizio dei governi. Conosciamo la debolezza del singolo, la forza elementare, brutale, delle correnti collettive, di massa… Pensatori e artisti, hanno aggiunto al flagello che rode l’Europa nelle sue carni più profonde una somma incalcolabile di odio: hanno lavorato per distruggere, degradando il genio di cui erano rappresentanti. Si sono fatti strumento degli interessi egoistici di un clan politico, di uno Stato, di una patria, di una classe… Ma lo Spirito non è servo dello Stato, non è schiavo di nessuno. E noi siamo servitori dello Spirito. Non abbiamo altro padrone. Dobbiamo difendere la luce e stringerci intorno agli uomini perduti; stella polare e punto fermo nel turbine delle passioni, nella notte”. Non furono in molti a firmare la dichiarazione di Rolland: tra questi figurano Albert Einstein e Bertrand Russell, Heinrich Mann, Henri Barbousse, Hermann Hesse. Per l’Italia, figurano Roberto Bracco e Benedetto Croce.
Povero Rolland: credeva che la Rivoluzione sovietica fosse l’anticamera della pace universale. Si ricredette. I processi di epurazione iniziati nel ’36 e il patto tra il Reich tedesco e l’Urss del ’39 convinsero Rolland che la via russa portava alla coercizione, che la Storia, ovunque, è gabbia, ghigliottina, massacro. I suoi ultimi libri – Rolland muore l’ultimo giorno del 1944 –, Péguy, ad esempio, tradiscono uno sconsolato scetticismo; ma mai la sconfitta. Stefan Zweig, che aveva firmato la sua Déclaration, fu amico autentico: gli dedicò una partecipe biografia. Dal 1923, Rolland stringe un sodalizio intellettuale con Sigmund Freud, con cui discute del cosiddetto “sentimento oceanico”, “un senso come di qualcosa di illimitato, di sconfinato”, che sarebbe proprio di ogni anima. A Rolland, a ragione di questo scambio, Freud dedica Il disagio della civiltà. Pare essere ostaggio, per così dire, dell’affetto dei suoi conoscenti, Rolland, uomo – prima che scrittore – dal carisma che appaga. Chiunque abbia sfogliato Siddharta ricorda, ad esempio, che la prima parte del libro è dedicata “a Romain Rolland con rispettosa amicizia”: il rapporto tra Hermann Hesse e Rolland è sancito dalla nutrita corrispondenza, edita da Albin Michel nel 2012 come D’une rive à l’autre. Era stato Rolland, nel 1914, a cercare Hesse, da poco tornato dal viaggio a Ceylon e in Malaysia, di cui percepiva una certa affinità. Hesse fu onorato di tanta attenzione da parte di un “maestro”: vide in lui, “lo spirito di uno che combatte contro l’insensata ragione degli intellettuali del nostro tempo” e che ritiene la politica un grumo “di buone intenzioni che si rivelano sempre un maleficio, qualcosa di ostile”. Ah, Rolland, la sua incrollabile fiducia nell’uomo…
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Ai popoli assassinati
Nella disgustosa zuppa della politica europea, l’unico collante sono i soldi. Il nodo che lega il corpo sociale è Pluto. Pluto e la sua banda. È lui il vero padrone, il vero capo di Stato; è lui che trasforma gli stati in società commerciali, in aziende corrotte. Non che i soli responsabili dei mali che soffriamo siano solo quel gruppo o quell’altro o quel singolo individuo. No, non siamo così ingenui: non esistono capri espiatori, sarebbe troppo conveniente. Non basta neanche individuare chi approfitta spudoratamente della guerra come il solo responsabile. Che ci sia la guerra o la pace, tutto è buono per i servi di Pluto.
Quando leggiamo – è un esempio tra mille – dei capitalisti tedeschi che hanno acquistato le miniere della Normandia, sono divenuti proprietari di un quinto del sottosuolo minerario francese, si sono sviluppati dal 1908 al 1913 e ora, per i loro interessi nell’industria metallurgica e della produzione del ferro, producono i cannoni che travolgono gli eserciti tedeschi, ci rendiamo conto quanto gli uomini dediti al denaro siano indifferenti a tutto tranne che al denaro stesso. Come l’arcano Mida, tutto ciò che toccano diventa metallo, di ogni conio… Ma su… non attribuire loro piani così oscuri. Mirano soltanto a sviluppare il veloce e il grande, il rapido e il titanico. In loro vince l’egoismo antisociale, la tara del tempo. Sono i puri rappresentanti di un’era sottomessa al denaro. Intellettuali, giornali, politici, perfino i capi di Stato, quei tragici manichini, sono diventati, lo vogliano o meno, i loro strumenti. E la stupidità dei popoli, la sottomissione fatalista, l’antico passato misto di mistica ferocia, consegna gli ingenui alle folate della menzogna e della follia che spinge all’assassinio reciproco.
Un motto iniquo e crudele afferma che i popoli hanno i governi che meritano. Fosse vero, sarebbe la disperazione dell’umanità: perché qual è il governante a cui un uomo onesto vorrebbe stringere la mano? I popoli che lavorano non riescono a controllare gli uomini che li governano; gli uomini che si sacrificano muoiono per un’idea, ma chi li sacrifica vive per i propri interessi. Dunque, gli interessi sovrastano le idee. Qualsiasi guerra prolungata, anche la più ideologica, quella viziata da grandi idee, si afferma sempre di più come guerra di affari, la “guerra per il gusto del denaro” di cui scriveva Flaubert. Già: uno scarso numero di speculatori, autocrati della finanza, appaltatori di eserciti, padroni d’industria, re senza titolo né responsabilità, nascosti dietro le quinte, circondati da una nube di parassiti, giocano, per i loro sordidi guadagni, sui cattivi istinti dell’umanità, sulla sua ambizione e il suo orgoglio, sui suoi rancori e la sua rabbia, sulle sue ideologie carnivore, sulla sua sete di sacrificio, sul suo eroismo, avido di versare sangue, sulla sua inesauribile fede…
Popoli sfortunati! Possiamo immaginare un destino più tragico del loro? Mai consultati, sempre sacrificati: costretti alla guerra, al delitto mai chiesto. Il primo millantatore venuto dal niente si arroga sfacciatamente il diritto di parlare in nome delle folle con retorica omicida, vile servo dei propri meschini interessi. Popoli eternamente ingannati, eternamente martirizzati, che pagano per le colpe degli altri… è sulle loro schiene calpestate e insanguinate che si combatte la battaglia delle idee insane: ma l’odio è soltanto nel cuore di chi li sacrifica. Popoli avvelenati dalla menzogna e dalla stampa. Popoli demoralizzati, che marciscono da vivi, che vanno a morire.
Abbiamo finalmente toccato il fondo? No, non credo. Dopo tante sofferenze temo il giorno fatale in cui i popoli, compresa la vanità dei loro sacrifici, arresi alla miseria, cercheranno, ciechi, la cosa contro cui avventarsi, vendicarsi. Anch’essi, allora, cadranno nell’ingiustizia, spogli perfino dell’alone funebre del loro sacrificio, e dall’alto al basso della catena, dal dolore all’errore, tutto sarà pareggiato…
Fermare la guerra, chi può? Chi è in grado di rinserrare la ferocia scatenata? Perfino i domatori saranno divorati dalla bestia. Il sangue versato, bisogna berlo. Ubriacarsi. Quando avrai tracannato il calice, tornata la pace su dieci milioni di cadaveri, saprai rimetterti in sesto? Hai il coraggio di vedere la tua faccia priva dalle bugie di cui ti drappeggi? Popoli, unitevi! Popoli di tutte le razze, colpevoli o meno colpevoli, tutti insanguinati e sofferenti, fratelli nel soffrire, siate tali nel perdono e nella cura. Dimentica il rancore in cui tutto muore. Condividi il lutto. Che il dolore, sancito da milioni di morti, sia il legante di una profonda unità. Se la guerra non diventa il privilegio di un rinnovamento sociale di tutte le nazioni, addio Europa, regina del pensiero, guida dell’umanità. Hai perso la via, hai imboccato il cimitero. Il tuo posto è lì. Dormi. Regna sul sonno. Lascia che altri guidino il mondo.
2 novembre 1916
Romain Rolland