26 Novembre 2021

“Le sang, la merde et le sexe”: apoteosi di Roland Topor

La sua trimurti, l’altare dei lari e dei penati, penosi, i soli numi, era questa: Le sang, la merde et le sexe. Che altro è l’uomo, d’altronde, se non questo incestuoso impasto di Sangue-Merda-Sesso, incunabolo di lordure, sfera di fetori, icona dell’ignominia, rubrica del lubrico? Roland Topor aveva la faccia da bandito, pareva pericoloso. Era questo a eccitarlo: dire, del mondo, il pericolante, l’indicibile, l’obbrobrio, con la penna azzurra del favoliere. Obliquo incrocio tra Nosferatu – peraltro, nel Nosferatu di Herzog fa la parte di Renfield, al fianco di Klaus Kinski e di Isabelle Adjani – e Harpo Marx, recludere Topor nella didascalia “artista” è come mettergli la museruola, castrarlo, conficcargli una coda di coniglio nel didietro. Topor, dell’arte, è stato il caos redivivo, il Dioniso col sigaro, il trickster, il jolly sadico, il funambolo che riduce il Giudizio Universale a una pernacchia, l’universo a una morgana. “Topor realizza incubi”, ha “la grazia nel terrore”, disse di lui Federico Fellini: lo aveva voluto come disegnatore per il Casanova. Insieme a René Laloux aveva creato alcuni piccoli capolavori, da Les Temps morts a La Planète sauvage, premio speciale della giuria a Cannes, nel 1973; per Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Ōshima s’impegnò per un manifesto di impressionante potenza: sopra il monte Fuji si spalancano le gambe di una donna, nuda, immane, il suo sesso è un cono rovesciato, rosso, la fiammata di un vulcano, passione che tutto corrode, corrompe.

Roland Topor è lui

Roland Topor sapeva recitare, cantare, scriveva canzoni – alcune per Megumi Satsu, nippofrancese dal fascino ambiguo, amica di Jacques Prévert e di Jean Baudrillard –, faceva teatro; in Rataplan, di Maurizio Nichetti, è “il boss”. Promuoveva, Topor, una libertà inaccettabile; s’insinuava, con perversione da fata Turchina, nei meandri indegni, nel lato fecale dell’uomo. Guardatele, le sue indimenticabili illustrazioni, dove Dada si fonde a Pinocchio (magistralmente illustrato dal mefistofelico Topor): il viso di un tizio, perplesso, legato con le corde ai propri escrementi in spirale; il tipo, braghe calate, che defeca se stesso; l’altro, di bellezza apollinea, dotato di una verga gigantesca che gli perfora mento e cranio; la donna dal cranio scoperchiato, e quella che vola, quasi nuda, su una nuvola, mentre un angelo scava una vasca nella sua schiena. Ovunque, il corpo è smontato, segato, spartito, smobilitato, sparito, in un’atmosfera da festa, da festino, tra cannibale e innocenza.

“Faccio in modo che la mia esistenza/ sia un’offesa suprema”, scrive Topor, nella lirica testamentaria che apre Un beau soir, je suis né en face de l’abattoir, l’album edito da Denoël nel 2000. Topor, spiritato, disperatamente felice, “anarchico, indisciplinato, balzano, infiammabile, incontenibile. Felice di giocare il ruolo del brutto sporco e cattivo. Gentilissimo. Un orco per finta” (così Irene Bignardi), era morto tre anni prima, il 16 aprile del 1997, a Parigi. Mangiafuoco dell’arte, supremo iconoclasta, esteta disfattista, a Parigi era nato, il 7 gennaio del 1938, da Abram Topor, pittore polacco di ascendenze ebraiche, trasferitosi in Francia per studiare, insieme alla moglie, Zlata Binsztok. “Appena nato sono fuggito/ coi poliziotti alle calcagna/ tedeschi nazisti SS/ cugini dei francesi”: Topor passò l’infanzia in Savoia, durante il regno di Vichy, imparando l’arte della tana; nel 1955 entra all’accademia di belle arti di Parigi, nel 1962, insieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky fonda il Movimento Panico. La sua blasfemia era corroborante, l’ipotesi che il mondo potesse essere il suo contrario era un credo gnostico frugale, convincente, “mi disgusta la folla, mi disgustano i guru, gli universi ristretti degli stalinisti, dei buddisti, dei musulmani fondamentalisti; quelli il cui ideale nega la mia natura animale per cibarsi di idiozie”, diceva, questo Epicuro antropofago.

In un libro di rara bellezza, La cousine cannibale, Topor illustra come si cucina la mamma: “Baciarla su entrambe le guance, per poi tagliarla a metà; gettare acqua bollente; mozzare la testa che sorride con gentilezza – rovinerebbe l’appetito –, levare colonna vertebrale e ossa ingombranti. A parte, preparare patate lesse, tagliate a rondelle, e insalata. Mescolare i pezzi di mamma con l’insalata, condire con olio d’oliva poco prima di servire. Non dimenticherei petali di rosa bianca sul piatto, a guarnire: erano quelli che a mamma piacevano tanto…”. Sepolto a Montparnasse, “Topor n’est pas mort”, ricorda, con miliare esattezza, una mostra parigina; “Dopo tutto, era Topor”, attaccava il ‘coccodrillo’ pubblicato su “Libération”, quasi che Topor non fosse un mero nome, ma la cifra arcana per accedere a un altro mondo. “La realtà in sé è orribile, mi dà l’asma. La realtà è insopportabile senza gioco”, diceva lui.

Scriveva come disegnava, con disinibita violenza. Pubblicò il primo libro – il più bello – a 26 anni: Le Locataire chimérique, romanzo irrequieto fino all’improbabile, che diventò celebre dopo il film di Roman Polanski, L’inquilino del terzo piano. Reso così, il titolo corrode la stregoneria dell’originale, che disloca la vicenda nel chimerico, nell’arguzia della scrittura come sommo esercizio di illusionismo. Vi si racconta, infine, di tale Trelkovsky, “un uomo di una trentina d’anni, onesto, educato, che odiava litigare con la gente”, che trova casa in un appartamento – “due stanze, buie, senza cucina” – da dove una tipa, tale “mademoiselle Choule”, ha cercato di farsi fuori, volando dalla finestra. La vicenda passa dalla scrittura goliarda al noir: Topor pare un Simenon surreale (non surrealista, dacché gli -ismi, il mesmerico Roland, se li è mangiati tutti a colazione).

Tutti i temi artistici di Topor trovano natura grammaticale nell’Inquilino del terzo piano (riproposto da Bompiani, nella traduzione di Giovanni Gandini e con la nota di Gilberto Finzi): sangue, merda, sesso; il corpo sovrano (“I suoi seni zampillarono fuori del reggipetto, dolci e morbidi. Lui li impastò con foga”), la vita sfinita allo sfintere (“Si divertì come un bambino a scoreggiare a ogni passo”), la morte, il gioco delle parti, l’enigma inequivocabile, la perdita delle identità (“Andò allo specchio e si guardò. Non si riconosceva più!”). L’appartamento è nello stesso tempo l’occhio del ciclope e quello del ciclone, il trono del voyeur (“Per lunghe ore rimaneva seduto davanti alla finestra, con le luci tutte spente per vedere senza essere visto”) e il cappello del prestigiatore, dove si è altro da sé, e neppure si è. L’uomo svanisce nella propria spericolata capriola in aria, nell’urlo, e così il libro: in una riscrittura di Alice nel Paese delle Meraviglie (pubblicata da Stampa Alternativa come Alice nel Paese delle Lettere), Topor immagina un romanzo da cui “le lettere se n’erano andate”. In quella latitanza è il principio della creazione.

In quarta superiore il prof di arte – basso, anarcoide, baffi ottocenteschi e l’unghia del mignolo accuratamente lunga; crudele, infine – ci portò a Torino: il Museo dell’Automobile ospitava un’imponente retrospettiva su Topor, morto pochi mesi prima. Ne fui dilaniato. Dunque si può anche questo, pensai. Topor fa razzia delle convenzioni; fa l’effetto di uno scorpione nel fegato, un Pan in gola. Ti sfinisce. Insegna che puoi essere tutto. Dunque, fatti nulla.

*L’articolo è stato pubblicato in origine sul “Venerdì di Repubblica”

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