12 Dicembre 2020

Barthes è nel pianto, “La mia tristezza è inesprimibile”. Appunti spudorati intorno al diario di Roland Barthes

Il dolore magari non finisce più l’inchiostro per dirlo però sì. La madre di Roland Barthes muore il 25 ottobre 1977, la prima pagina del diario di Roland è datata 26 ottobre 1977, l’ultimo frammento ha la data: 15 settembre 1979. Controllo se il diario sia stato interrotto per sopravvenuta morta del diarista. Roland Barthes muore il 25 marzo 1980. Il diario viene pubblicato in Francia nel 2009. Viene tradotto da Valerio Magrelli in Italia per Einaudi con il titolo Dove lei non è, nel 2010. E con il pudore? Chi ha scritto il diario è riuscito a vincerlo, chi lo legge lo deve vincere a sua volta per rispettare chi l’ha scritto e non s’è accontentato di dire: non-ci-sono-parole. La sola garanzia per non averne di falsi è il non farsene? Ognuno deve scoprire il suo pudore, inventarlo dentro di sé, arrivare alle spalle della sua reticenza non per pugnalarla, piuttosto per fargliele sentire più protette. La lezione è di Beckett: bisogna continuare, non posso continuare e io continuo.

Dalla pagina dell’1 agosto 1978: “La mia tristezza è inesprimibile, e tuttavia dicibile”. Bisogna arrossire? La morte della madre è il crollo del centro del mondo di suo figlio. Oh, ce ne si può fare una ghiottoneria per psicanalitici: il rapporto-con-la-madre. Barthes è il maestro del metalinguaggio ma il paravento del metalinguaggio non tiene. Un figlio ha perso sua madre e le scrive i frammenti di un discorso amoroso mai verbalizzato. Cerca di trattenere qualcosa di quel che non c’è più e perciò non può essere trattenuto. Togliere alla morte il pungiglione dell’ultima parola. La parola scritta come tentativo di prolungamento della madre morta in una forma estranea alle categorie vita/morte.

Dal diario di Barthes non è possibile risalire alla vita di Barthes, non sono neanche dell’idea che esistesse un Barthes autentico, trapiantato fuori dall’esistenza a causa del lutto e confessato nel diario del suo dolore, e un Barthes di supporto che teneva i corsi, viaggiava, incontrava gli altri, un secondo Barthes biologicamente attivo adoperato per i doveri di rappresentanza. Di fronte a un’opera non esiste più chi ha messo a frutto la sua esistenza per scriverla, esiste l’opera soltanto e in Dove lei non è c’è una voce sottile, sempre più risicata, che sente il proprio ridicolo ma non gli si arrende. Dalla pagina del 21 novembre 1978: “(…) la scrittura al suo massimo, quindi, è comunque soltanto derisoria”.

L’intelligente Barthes deve cavare dell’intelligenza dall’evento della morte di sua madre: cosa ne può diventare pensiero, cosa scrittura? Il mondo umano non può resistere a nessun crollo se non lo si puntella con la struttura della Letteratura. Barthes è nel pianto e si chiede che opera ne può venire dalla morte di sua madre. Non ha che belle e poche parole per sua madre. Niente lunghi elogi, niente digressioni nel ricordo. Nessuna conversazione. La madre è un tutto di cui c’è veramente poco da dire perché la madre non era un dire, era un fare sollecito, era un anticipare qualunque forma di riflessione. La madre era fuori dalle parole e ora le parole non possono pretendere di poter riformarne la figura. Barthes lascia che sua madre vinca la sua scrittura, rendendo in questo modo la scrittura sottilissima, rimbombante.

Verranno per lui le lettere e la rilettura di alcuni passi di Proust: Proust l’ha saputo, l’ha scritto. Niente si riesce a trattenere, neppure il dolore: c’è l’amore, c’è il dolore per l’amore perduto, poi non c’è più niente, non è solo l’amore a non appartenerci, neppure il dolore. Se qualcosa resta semmai è il feticcio, la banalizzazione, l’abitudine: siccome il mio amore è stato vero il mio dolore sarà vero per sempre, se smetto di soffrire significherà che in verità non ho mai amato, perciò che nessuno osi dire che il mio dolore non è fresco oggi come il primo giorno, che si è deteriorato, che qualcosa è andato perso, che la salma ha perso calore! Dal frammento del primo settembre 1979: “inoltre le tombe di questo cimitero, pure decisamente rurale, sono così brutte…”. Barthes a Urt va in visita alla tomba di sua madre, arrivato sulla tomba avverte l’inadeguatezza: “(…) non so che fare. Pregare? Cosa significa?”. È come potessi sentire il rumore delle suole mentre cercando di non guardarle guarda le altre tombe del cimitero rurale e tutto gli sembra così vacuo da rasentare lo spregio. Preferisce poggiare un fiore sul tavolino di casa, sotto la foto di sua madre, sull’altare domestico, al riparo dalla stupidità del dolore officiato all’aria aperta. R. si vergogna sia di soffrire sia di non soffrire.

Fortuna c’è la tristezza, che disgrazia sia discontinua. È il 26 novembre 1978, R. annota: “Mi spaventa terribilmente il carattere discontinuo del lutto”. Com’è inadeguato l’essere umano, com’è patetico malgrado sé stesso. Bisogna focalizzare la scena: R. è nato nel 1915, ha più di sessanta anni quando muore sua madre Henriette, non ha avuto vita facile sua madre Henriette, R. si ausculta: adesso soffro, anche adesso, adesso un po’ meno di prima, di nuovo meno, adesso un picco di dolore, un altro picco!, poi di nuovo niente, poi addirittura ho trascorso una serata piacevole con gli amici, dopodiché: per giorni e giorni una costante di sofferenza. Intanto sono passati mesi e mesi, decine e decine di pagine minime di un diario laconico. Più che un diario le sue bozze, i suoi spunti, la possibilità di un diario che non c’è. La tragedia è il discontinuo. La tragedia è che non ci sono punti di riferimento, fondi o apici. C’è l’esasperante linea dritta del tempo. Non te lo sai dire ma non vorresti soffrire, non vorresti soffrire più così, d’un tratto scopri che già non stai soffrendo, non come prima, e ti trovi di fronte a una nuova elaborazione della mancanza: ti manca qualcosa che non puoi essere certo di sapere cosa fosse, cosa sia stato. R. si sofferma, la osserva, vuole analizzarla, gli manca la motivazione, è triste, svogliato, non brilla niente, la scrittura, in tutta onestà, non ha voglia di mentire al posto suo. La scrittura, che è sempre finzione, finge bene di non volersi fingere diversa dal sentimento di chi la sta scrivendo.

È un diario di seta, di cristallo, no: di fumo; di nebbia. Può sparire mentre lo leggi al pari di chi lo scrisse, di chi, sparendo, diede l’impulso di scriverlo a chi è sparito poco dopo averlo scritto. Frammento del 2 marzo 1978: “La cosa che mi fa sopportare la morte di mam., somiglia a una specie di godimento della libertà”. Com’è menzognera questa specie-di-godimento. Nelle pagine del diario non tornerà più, c’è anzi il rifiuto a trarre qualunque vantaggio da questa morte. R. non si dà lo scampo per osare dire: Però adesso che mia madre non c’è posso fare quello che prima non facevo proprio perché c’era lei e non volevo darle questo dispiacere, questa preoccupazione. Se prima il rispetto era spontaneo adesso diventa tassativo: non la si sarebbe delusa prima, ancora meno la si può tradire adesso. Ma tradire chi? R. interroga il linguaggio, i suoi limiti, ma non varca gli altri limiti, non cede al metafisico, al lirico: dov’è chi non è più qui dove sono io che non sono ancora morto? R. davanti alla tomba di sua madre non sa che fare. Ricordo che ha appuntato: “Pregare? Cosa significa?”. Si guarda attorno a disagio, tra le brutte tombe del cimitero. Per inteso: per me la letteratura è questo, un uomo che non si lascia sedurre da una retorica digeribile, prevedibile, più facile da accomunare, neanche da sé stesso e nel privato di due righe su un foglietto. Tua madre è morta, tu sei a pezzi, la vita non ti dà sapore, lasci implicito il terrore di non esserti emancipato abbastanza, non hai neppure una nevrosi con cui consolarti, te ne stai da solo in un cimitero, tutto è pronto per le domandone, “E Dio? L’immortalità? Eppoi?”, ma no, non te lo permetti, non lo scrivi. R. soffre del suo stesso imbarazzo, torna al taccuino, scrive: cosa ci devo fare io sulla tomba di mia madre? Troppo poco anche per farne un’opera scritta, ecco su cosa riflette R. Una pacata, insanabile, irrisolvibile solitudine di fronte a una morte dimessa. Implosione nucleare.

Letteratura è R. che va in salsamenteria e compra una finanziera, è un piatto a base di interiora, il 5 novembre 1978 e la commessa servendo dice a un cliente “Ecco qua!”: sono le stesse parole che R. rivolgeva a sua madre quando le portava qualcosa, quando l’aveva in cura. R. è spazzato via dall’asimmetria.

Antonio Coda

Gruppo MAGOG