Roger Caillois nacque nel 1913, a Reims, dove s’incoronavano i re di Francia. Studiò a Parigi, allievo di Dumézil, Kojève, Marcel Mauss. Insieme a Georges Bataille e a Michel Leiris, nel 1937 fondò il “Collège de sociologie”, d’impianto sottilmente esoterico. Fecondo fu il sodalizio con Victoria Ocampo: visse in Argentina durante la Seconda guerra. Caillois fondò riviste, scrisse libri importanti (“Il mito e l’uomo”, “L’uomo e il sacro”), fu eletto all’Académie française nel 1971: “lei è una delle menti più curiose del nostro tempo, la più autonoma, la più refrattaria ad accodarsi alle mode”, così lo presentarono. Nel 1957 sulla NRF (n.58, ottobre) pubblicò “La Masque”, saggio di cui traduciamo alcuni stralci. Nello stesso numero appaiono articoli di Tommaso Landolfi (“La Femme de Gogol”), Marcel Jouhandeau (“Carnet de l’Écrivain”), Maurice Blanchot, Philippe Jaccottet. Nel 1980 Marguerite Yourcenar, che occupò il suo seggio, il numero 3, nell’aula dell’illustre Académie, onorò Callois, secondo il canone, con un vasto discorso: “Non molto tempo fa, in uno dei miei libri, un imperatore che presiedeva l’apoteosi del suo predecessore diceva che la lode si addice solo ai morti. Da vivi, la controversia e la contraddizione ci inseguono; così le critiche e le lodi, giuste o ingiuste; ma i morti hanno diritto a questa specie di intronizzazione nella tomba: nei nostri tempi fragili nessuno è certo della gloria, abbiamo tutti la garanzia di millenni di oblio. Nessuno meglio di Roger Callois, la personalità che celebriamo oggi, avrebbe senza dubbio approvato questa allusione agli strati geologici del tempo, le particelle innumerevoli che fluiscono come sabbia su di noi, quando noi non ci siamo più. Tra i rari privilegi che mi sono stati donati, non ne conosco uno superiore a quello di lodare un grande spirito come il suo”. Il critico-saggista-sociologo-poeta era morto qualche giorno prima del Natale del 1978; la sua sbizzarrita competenza in più discipline oggi apparirebbe pura bizzarria. Ossessionato dai dizionari, annientato dalla modestia, si racconta che Caillois, “questo spirito anticonformista, per rovinare la monotonia di un dibattito pronunciasse una parola inaudita, inesistente, inventando lì per lì la sua etimologia, insistendo in speculazioni che finivano per convincere gli astanti della sua autenticità”. Così geniale da provare noia per il genio.
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L’importanza della maschera
Tutta l’umanità indossa o ha indossato una maschera. Questo accessorio enigmatico e senza utile destinazione è più comune della leva, dell’arco, dell’arpione, dell’aratro. Interi popoli hanno ignorato le potenzialità degli utensili, i più umili come i più preziosi. Eppure, conoscevano la maschera. Alcune civiltà, a mio parere tra le più importanti, sono fiorite senza avere idea della ruota, o, ancora peggio, senza saperla usare. Le maschere, tuttavia, erano loro familiari. L’uomo in generale, l’uomo astratto e le ipotetiche prime età della cultura possono giustamente esibire ciascuna la propria maschera. Nessuno strumento, nessuna invenzione, nessuna fede, costume, istituzione unisce l’umanità nella stessa misura della maschera, indossata, creata, manifesta.
C’è dunque un mistero della maschera, che riguarda la ragione per cui gli uomini hanno sentito la necessità di coprirsi il viso con un secondo viso, strumento di estasi e di metamorfosi, di possessione divina, di intimidazione da parte del potere politico. L’etnografia è piena di maschere, e dunque di vertigini, di trance, di ipnosi, del panico che ne è l’inevitabile conseguenza. Questa verità è tale che potremmo dire che i popoli accedono alla storia, alla civilizzazione, nel momento in cui rigettano la maschera, la ripudiano come veicolo di panico intimo o collettivo, la destituiscono dal proprio ruolo istituzionale.
Pur in disuso, divenuta un semplice accessorio da ostentare a carnevale o durante una festa mondana, la maschera inquieta e affascina. Il suo potere di seduzione è ormai tenue, ma non è sparito. Il problema della maschera, questo voglio dire, non è episodico né locale: appartiene alla specie, nella sua interezza.
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Uomini e insetti
Vengo a un’altra delle mie ipotesi folli (che scrivo per allontanarle da me, cioè per prendere campo nei loro confronti): la parentela tra insetti e uomini. Una volta ho provato a dimostrare come i comportamenti degli uni corrispondano alle mitologie degli altri. Intendo anche comportamenti e finzioni di istinti e fantasie. Intendo il problema della società che coinvolge le caste, quello della guerra, della colonizzazione, della schiavitù, il problema del linguaggio e della geometria (per le api), delle droghe, dell’intossicazione volontaria, degli istinti funesti, dei ‘vizi’ (per le formiche). C’è sempre la stessa opposizione tra automatismo e liberta, norma, ripetizione immutabile, invenzione, fluidità della storia. Da una parte, l’inscrizione di corpi validi lungo migliaia di secoli, cioè l’esattezza degli organi, le antenne, le pupille, gli occhi sfaccettati, per non dire dell’infallibilità quasi sonnambulica dell’istinto. Dall’altro la capacità di creare strumenti grossolani e armi, abiti insufficienti, minimi (che non sono parte del corpo, come corazze o pellicce), poi macchinari per fabbricare armi, attrezzi, vestiti, infine macchine complesse che costruiscono macchine più semplici. Questa facoltà, propria di uno sviluppo infinito, coinvolge tentativi, errori, rettifiche. Inaugura una libertà decisiva. Presuppone un linguaggio ambiguo, che invita al fraintendimento, non un sistema di segnali univoci, come quello composto da un sistema limitato di codici, chiamato linguaggio delle api per errore, in virtù di una radicale ignoranza. La stessa disgrazia, sinistra o gloriosa, suppone società con lotte di classe e guerre di religione, odio, fanatismo, rivendicazioni, rivolte, rivoluzioni, non un ordine inalterabile, un’economia perfetta che corrobori il regime sociale. Suppone speculazioni matematiche, iperspazi, volumi astratti, inimmaginabili nella geometria esclusivamente esagonale della cella da miele.
Alcuni insetti, le Cyphonia, le Heteronotus, le Sphongophorus, crescono all’ombra di sovrastrutture dalla forma sconcertante. Queste appendici ramificate e ingombranti non hanno alcuna utilità apparente. Sono pure escrescenze ornamentali, aree che si biforcano all’improvviso, in modo assurdo, pur mantenendo un’evidente “preoccupazione” per l’equilibrio, la simmetria. Somigliano a mala pena alle esecuzioni miniate di Rabindranath Tagore, ai meandri sinuosi degli animali dell’arte scita. Ricordano, soprattutto, le impalcature che sormontano certe maschere cerimoniali delle civiltà dell’oceano, o americane. D’altra parte, le maschere degli stregoni, come quelle di alcuni scarabei, sono decorate con corna che si ramificano. […]
Alcuni insetti presentano cerchi, simulacri di occhi smisurati. In questo modo, affascinano la possibile vittima o il probabile predatore. La contemplazione imposta e prolungata di un cerchio provoca paralisi, ipnosi. A questi effetti ottici e ritmici sono egualmente sensibili uomini e animali. Da un lato gli insetti, con le loro ali superiori, nascondono, e scoprono, in un tremore spasmodico, cerchi enormi, dai colori sgargianti, che ne celano il corpo, o almeno lo rendono neutro, spiazzante. Dall’altra, gli uomini mascherati non sembrano più uomini, appaiono belve o demoni, spettri provenienti dall’altro mondo. Sono in trance. Si sentono posseduti da forze strane e sovrane. I loro gesti e le loro grida sono dettate dall’Essere che li possiede e in loro si incarna. Così trasformati, inseguono e terrorizzano un popolo ingannato che non li riconosce, che non ha più il potere di difendersi o reagire. Nel panico, nessuno riconosce l’ovvio della verità, la presenza dietro l’Apparizione.
Roger Caillois