Tra i più prolifici e versatili scrittori italiani contemporanei, tradotto in ventisei lingue, con più di trenta pubblicazioni all’attivo tra sillogi e romanzi e vincitore di premi letterari tra i più importanti, Roberto Pazzi è, al di là dei numeri, testimonianza vivente di un’intera esistenza dedicata alla scrittura. Poeta devoto alla classicità ma moderno in modo sorprendente e romanziere di rara inventiva, nelle storie quanto nello stile, è tra i pochi a esercitare con esiti altrettanto felici poesia e prosa. L’abbiamo incontrato, per parlare di letteratura, di cosa è stata e di cosa, forse, è oggi.
Prof. Pazzi, di scrittura con lei si potrebbe parlare per giorni interi senza stancarsi, la prima domanda però, devo fargliela su un altro tema: di questi tempi, è un prezzo da pagare cui non si sfugge. Come ha vissuto il lockdown? Questa situazione anomala è stata favorevole o castrante per la sua ispirazione? Sui social abbiamo assistito ad una vera e propria “narrativa” del fenomeno, sono usciti instant book, e numerosi manoscritti sul tema stanno invadendo le scrivanie degli editori. Scriverà anche lei una storia ispirata al coronavirus e alla quarantena? Cosa pensa della scrittura che si ispira in modo così diretto e immediato all’attualità?
Per carità, non se ne può più delle alte illuminate intuizioni degli scrittori donate loro dalla serrata, mi lasci usare la mia bella lingua e non l’inglese. Ci hanno inondato da tutti i giornali le ricche espettorazioni dei nostrani scrittori, i Veronesi, i Covacich, i Giordano, i Carofiglio, tanto per fare qualche nome. In quei giorni ho scritto delle poesie, sì, certo, almeno sette in due mesi, ma le avrei scritte con lo stesso ritmo anche se non ci fosse stata quella condizione, perché ne scrivo sempre, qualsiasi temperatura ci sia nel mio Paese, da 53 anni. Ma chi di attualità ferisce di attualità perisce, fra qualche mese dubito che quelle pagine possano interessare qualcuno. Il giornalismo si nutre di attualità ma la letteratura muore di attualità, di contingenza, di mode, di rumori che fa il Nulla, perché il Tutto della prima pagina precipita nel Nulla del giorno dopo. Bisognerebbe saper tenere la penna ferma, il dito immobile sulla tastiera. E muovere il pensiero, non rincorrere subito la visibilità per paura di non essere fra i primi posti della vetrina. Abbiamo o non abbiamo diritto all’oblio? Abbiamo o non abbiamo la suprema libertà che sola cercava Emily Dickinson, il bello di poter essere nessuno e non dover gracidare nello stagno fra i ranocchi gareggiando a chi bercia più forte?
È appena uscita per La Nave di Teseo la raccolta di poesie Un giorno senza sera, un compendio di tutta la sua produzione poetica. Si tratta di componimenti mirabili per il linguaggio alto e lirico eppure moderno, comprensibile, oltre che per i temi ben vincolati alla realtà, ricchi di originalità e acutezza psicologica. A detta di tutti però, pubblicare e vendere poesia è sempre più difficile. Eppure i nostri tempi, che vogliono brevità e potenza, parrebbero i più adatti a vederne un grande ritorno. “La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”, diceva Italo Calvino. Chi sono i suoi poeti di riferimento? E crede sia possibile immaginare oggi una nuova poesia popolare di qualità?
I miei poeti di riferimento sono morti. Ma sono più vivi di molti poeti che occupano i primi posti delle istituzioni. Ho sempre, con quei morti che non muoiono mai, un vivace colloquio mentale, anche perché qualcuno ho avuto la sorte di conoscerlo bene da vivo e di ascoltarlo quando mi dava dei consigli su chi leggere e chi non leggere. Per primo Vittorio Sereni, che quando avevo 23 anni garantì con una sua nota la mia prima pubblicazione in versi, il poeta di cui ho amato il sofferto equilibrio fra immagini e pensiero, fra adesione alla stagione presente e viva e necessità di estraniarsene, fra impegno e devianza. E poi, conosciuto anche per 34 lettere che aveva scritto a Sereni, Umberto Saba, amato per quella sua trasparenza della parola che lo rende un classico, dal coraggio “di scrivere la poesia onesta” come scrisse su La Voce nel 1911. Niente retorica, niente intellettualismo, niente ermetiche oscurità, ma canto, in diretta con la “calda vita” di tutti. E poi Montale, tanto diverso, ma così alto nella cifra della sua poesia di pensiero negativo eppure così legata alla vita, lontana dalla retorica dannunziana, fedele alla razionalità eppure aperta alla metafisica. E Penna, con la grazia del suo sguardo pagano, la sua splendida incapacità di crescere e diventare adulto, di negarsi ai miti eroici che metastatizzano da noi subito in fascismo. E Luciano Erba, altro amico conosciuto di persona, così schivo e così parco, sempre attento a scrivere in stato di necessità, cattolico sì, ma della razza dei gran lombardi, alla Manzoni, che sanno coniugare virtù civili e fughe nel sacro. E Clemente Rebora, di cui so a memoria dei versi… “Se Dio cresce il diavolo aumenta/ vetta che al cielo più riesce/ scavando una voragine tremenda”, un poeta che mi ha insegnato che anche in età moderna si può essere dei mistici, che non esiste un’età più adatta delle altre per scrivere una poesia come fosse una preghiera. Là dove lo Spirito soffia è l’età giusta. Ma ho poi amato tanti stranieri, come Pedro Salinas e più in alto di tutti Rilke la cui scoperta a 33 anni, mentre leggevo Michelstaedter, il Nietzsche italiano, insieme a quella di Proust, è stata fondamentale. E i russi, come dimenticarli? Mandel’stam, Cvetaeva, Pasternak. E tornando indietro nel tempo, i classici greci e latini, da Saffo a Catullo, attraversando Lucrezio, Orazio e Virgilio. E Kavafis, un greco moderno che scrive come epigono di quelli antichi e ci indica la nostra condizione epigonica. E il sommo Leopardi. Come si fa, da queste altezze, a tornare a casa, dai poeti di oggi?
Nel corso di ormai cinquant’anni di scrittura lei è venuto in contatto con tutti i principali editori, oltre a numerosi colleghi scrittori. Chissà quanti aneddoti sorprendenti, inquietanti o esilaranti ha da raccontare! Vuole donarcene almeno qualcuno?
Giulio Einaudi, che giunto a Buenos Aires, sulla scaletta dell’aereo, accecato dalla luce dell’estate argentina, dice che era l’effetto Borges… così mi è stato raccontato, ma è come l’avessi sentito con le mie orecchie, perché da ragazzo l’ho incrociato a Bocca di Magra, a casa di Sereni. E lo snobismo di Giulio Einaudi vibrava nella sua conversazione sempre. Da ragazzo, a Bocca di Magra, mi capitò di avere bisogno di aiuto per spingere il mio gozzo in mare; si fece avanti a aiutarmi a spingerla un bell’uomo alto e simpatico, era Elio Vittorini. Eugenio Montale, conosciuto ancora a casa di Sereni, richiesto da questi di precisare se la Casa dei Doganieri fosse la casa della Sanità, in fondo a Bocca di Magra, si schermò nella smemoratezza, di un “non ricordo” che pareva il verdetto di un dio. E Brodskij che a Ferrara ebbe a dire, nel rimpianto del paganesimo che allenava la mente ad associare il divino alle varie forme della natura, che del Sacro sarebbe bene poter avere fruizione come della buona musica, in stereofonico e mai in mono. Pensando alle tre religioni monoteistiche così intolleranti delle verità altrui. Di Calvino ricordo le tre regole del vivere: ogni tanto risolvere un’equazione di secondo grado, ogni tanto ripetersi una poesia imparata a memoria da bambini, e almeno una volta al giorno pensare che potremmo sparire da un attimo all’altro. Omaggi alla matematica, alla poesia e alla filosofia insomma. E il mitico Livio Garzanti, editore dei miei primi cinque romanzi, che accennando alla mancanza di senso epico di una narrativa italiana languente nella morta gora del microautobiografismo, ebbe a dire un giorno “È troppo tempo che non piove”… volendo alludere alla Seconda Guerra mondiale che aveva rifondato anche la letteratura oltre che alla democrazia.
La filiera della scrittura oggi è in crisi, a partire dagli editori, fino agli scrittori e ai librai. L’offerta è sempre più ampia, e si stanno aggiungendo varie forme di autopubblicazione, mentre i lettori sembrano sempre meno. Lei è uno dei pochi che ce l’ha fatta, e questo le garantisce il lusso di poter parlare liberamente, senza il timore di essere additato come “rosicone”, che è quel che capita ormai a chiunque osi criticare l’ambiente letterario. Ma a suo parere, cosa è primario oggi per diventare scrittori? È ancora al centro la qualità della scrittura, o piuttosto l’essere “personaggio”, magari famoso per altro, o la facile adattabilità alla tv o al cinema, oppure l’appartenenza a conventicole?
Per diventare scrittori bisogna nascere scrittori, scrittori non si diventa, così come si nasce re, o folle o genio o sordomuto o autistico o portato per il Male alla Genet… È uno stato di grazia che non si merita. Non si merita la faccia di Greta Garbo, si nasce con quel volto. Non si impara il genio di Mozart, si nasce con quell’armonia in testa. La condizione della scrittura è monarchica, non repubblicana, elettiva non meritocratica. Una favola comincerà sempre c’era una volta un re, mai c’era una volta un presidente della repubblica. Il dono della scrittura è un carisma, che non si può meritare. E per questo è ingiusto, perché ha a che fare con l’esclusione e non con la cooptazione. Ne sapeva qualcosa Proust col tormento dello snobismo, che lo escludeva dagli ambienti del Faubourg Saint Germain. Il privilegio è la metafora della felicità di stato di quella condizione. Troppi oggi sono scrittori di statuto e non di stato, grazie alla tv. Diciamo che hanno sostituito “la grandezza dell’effetto all’effetto della grandezza” come scriveva Musil, così ingiustamente tenuto in ombra dalla fama di Thomas Mann, un altro genio sospetto di essere stato costruito. Ho tenuto corsi di scrittura in giro per l’Italia e a Ferrara, ma un poco mentivo sempre, perché il nucleo della invenzione è di genesi oscura, come l’arte di ballare o di cantare. E non si insegna. Si può insegnare a leggere, molto meno a scrivere. Vero è che in Italia prevale lo scrittore “personaggio”, costruito in tv e nei media. Come Erri De Luca la cui sconfortante banalità scambiata per oracolarità è pari solo all’illusione di credersi colti, dei suoi lettori. Faccio mia l’affermazione dell’amico Massimo Onofri, “la sinistra nel Sud America ha partorito García Márquez, in Italia Erri De Luca”.
Continuando il discorso, la scrittura appare sempre di più non come un mestiere, ma come un hobby, spesso anche costoso. Un esordiente si troverà sempre più a investire in scuole di scrittura, valutazioni ed editing a pagamento, trovando grandi difficoltà per emergere e pensare di vivere della propria scrittura. Come fu per lei l’inizio? Era molto diverso, allora?
Sì, forse oggi è come dice lei, ma come poeta e narratore sono venuto su in un mondo editoriale degli anni Ottanta in cui non era ancora così, anche se non era per nulla facile superare il muro del suono dell’anonimato, da parte di chi esordiva nemmeno allora. Il mio Cercando l’Imperatore, romanzo di esordio, fu rifiutato da 5 editori prima di trovare Marietti che lo pubblicò vincendo il premio Selezione Campiello, e ottenendo ben 14 traduzioni, le due ultime, in arabo e in coreano, nel 2015 e nel 2017.
Chi sono tra gli scrittori contemporanei, rigorosamente viventi, quelli che ama e quelli che non può soffrire, e perché?
Mi piacciono Giancarlo Pontiggia, Vincenzo Pardini, Umberto Piersanti, Renato Minore, Francesca Capossele, Romana Petri, Matteo Bianchi, Claudio Magris, Roberto Calasso, Franco Cardini, Massimo Onofri, Gerardo Passannante, Emanuele Pettener e Alberto Bertoni. Mi vanto di aver scritto, in tempi non sospetti, due prefazioni quando era vivo a due mirabili opere in versi di Alessandro Ricci, di cui oggi è di moda lodare la grandezza poetica postuma sulle orme di Kavafis e che mi piacerebbe aggiungere a questa lista, come se fosse ancora vivo. Non amo Gianrico Carofiglio, il cuginetto di Lilli Gruber, onnipresente televisivo, che fa sospettare di essere il primo a temere che la sua scrittura non vinca il Tempo, col suo inesauribile apparire in tanti talk show. Non amo il banal grande De Giovanni, Francesco Piccolo che oggi guarda dall’alto dell’empireo nannimorettesco dei cineasti i suoi poveri colleghi rimasti scrittori puri, Walter Siti strozzato da uno Strega vinto che l’ha consegnato al tormento di come poi risalire la china, Mazzantini-Castellitto la coppia più bella del mondo. Ma non amo nemmeno i cultori di Terzani, che paiono adepti di una setta mistica e mettono in sospetto sul loro mito, anche se non avendolo letto non posso dire nulla. La lista poi degli autori costruiti dai media sarebbe più lunga, ma perché amplificarla anche qui? Mi limiterò a fare un solo nome, Paolo di Paolo, di bulimica presenza in ogni sito e sede giornalistica.
Nella sua produzione narrativa ha spaziato in molti generi, storico, fantastico, psicologico, intimista, di formazione, ma non mi sembra, almeno a quanto ricordo, che abbia mai scritto un giallo o un thriller. C’è qualcosa che non apprezza o che non la ispira in questo genere, ormai tra i pochi ad avere un certo mercato, o magari lo affronterà in futuro?
Il giallo è un genere importante della letteratura ma oggi fa insospettire di essere così in voga per la facile riduzione televisiva o cinematografica. Ma non tutto il leggibile è visibile, ci sono libri altissimi renitenti alla trasposizione in schermo. Fra i miei 21 romanzi un giallo veramente l’avrei scritto io pure ed è stato tradotto in 18 lingue, Conclave, uscito nel 2001, oggi edito da Bompiani. Invece dell’assassino, vi si cerca il futuro papa, ma la suspense è la stessa. Di recente una grande casa musicale con sede a Londra e New York ha chiesto l’opzione sui diritti di trasposizione in un musical.
Nel suo ultimo romanzo, Verso Sant’Elena, Napoleone sogna tutta la vita che gli è mancata, una vita diversa, da uomo semplice, dedito all’amore e alla famiglia e non al potere. Ha anche lei in qualche modo una sua vita sognata e non vissuta, in cui magari non è scrittore? O la scrittura è del tutto compenetrata con il suo essere?
No, non avrei voluto un’altra vita diversa da quella dello scrittore. La rifarei quella vita. Ma non si sceglie, si è scelti, come dicevo, da un’oscura elezione del destino. Borges, ricevendo dalle mani del re di Spagna il premio Cervantes, ebbe un giorno a dire “Sono particolarmente felice di ricevere questo premio dalle mani di un re, ho sempre pensato che re e poeti adempiano un destino”.
Viviana Viviani
*In copertina: Roberto Pazzi, photo listonemag.it (l’immagine è tratta da qui)