“Ogni nome è trasparente”. Lettera a Mattia Tarantino su poesia e salvezza
Libri
Vincenzo Gambardella
L’avvicinamento compiuto alla scrittura di Paul Celan avviene allo scoccare dei miei quarant’anni, ovvero nell’anno dell’Età della conoscenza (1996): i miei quaranta di allora per i cinquanta di oggi. Tre volte venti.
Sono entrato allora in una Camera Astratta, manipolandone il chiavistello, come percorrendone scientemente il crinale tagliente: con un filo, ma senza nome. Eppure, o forse proprio per questo, Celan è frequentato dagli artisti, anzi dall’Artista, quell’Anselm Kiefer che gli dedica opere monumentali da interrare nella sua tenuta-studio di Barjac, in attesa che la Storia conferisca loro un significato. Storia crudele che nega a Celan la possibilità stessa di una vita-con-i-viventi, di un’espressione compiuta, salvifica, per lenire il dolore della perdita. Spazi angusti, dove ogni testo occupa un piccolo spazio della Camera, dove siedono – accovacciati – l’angelo, la madre, la donna, la nutrice e dove il verbo è cristallizzato, geometrico, imploso nell’impossibilità di manifestarsi sul versante della luce, dominante la tenebra di lumi accesi nella Notte dei Cristalli e la chiusura della parola senza suono. Il respiro è pneuma di Osip – primo testo dei quattordici – dove l’incedere del verso sottrae anziché aggiungere, dove il racconto tace assorto nella strage e la condivisione si sottrae, in controcanto:
autonegandosi nello stesso momento in cui si crea.
Rievocazione dolente, sviluppo inverso, lettura ultima, ma senza nome. Di soglia in soglia – Von Schwelle zu Schwelle, il telaio è composto, la tela tirata, la materia distesa: Sette Sigilli per Sette trombe Celesti, bianco su nero. Avrei voluto attingere alla storia, sapere, scriverti, capire le parole, apprendere i versi, accogliere Inge, prima del volo, con oro nelle tasche per accelerare la caduta.
Storia strana, la storia del nostro mondo:
non tutta del mondo, non tutta nostra, non tutta storia; non tutta così strana.
E seguo ancora i canali invisibili di oggi, carichi di mondo, nel vuoto visibile di questa data sul calendario, la data della perdita, della distanza, del destino compiuto, memoria che conduce altrove: malaticcio del genetliaco della tua ombra.
NERA.
Era primavera, e gli alberi volarono ai loro uccelli.
18 aprile 2020, ore 3.01