Nel cerchio vedevo un concetto marziale, una esecuzione, in tutti i sensi. Ho conosciuto Roberto Floreani alcuni anni fa – già da anni era “il migliore astrattista italiano della sua generazione” (Beatrice Buscaroli) –, intorno al 2005, a Milano, nei dintorni di una monografica, s’intitolava “81”, come il numero di testi miliari che compongono il Tao Te Ching. Nei cerchi che costituiscono l’orma di Floreani, dico, non vedevo alcuna risoluzione; semmai la risolutezza. Il cerchio aperto, cioè, apriva alla lotta: nulla è sferico, qui, ma sferzante, piuttosto. Nel segno che cerca di cogliere l’imprevisto, dando natura ferrea alla voracità del vento, si tiene tutto: la trama concentrica dell’acqua, che si spalanca sotto un mignolo di pietra, la trafittura di una spada, l’impronta digitale di un dio che sigilla il creato, cauto a distruggerlo (tutto è bello perché mortale). Floreani, per altro, ha sempre congiunto la coerenza artistica (che potete guardare qui) a una ricerca teorica altrettanto lucida. Dalle prime esposizioni negli anni Ottanta alla presenza alla Biennale di Venezia (nel 2009) in qua, ha sempre ribadito “la centralità dell’opera come portatrice di un messaggio di natura spirituale”. Insomma, è un uomo consolidato dalla scelta: tra i suoi studi ricordo Futurismo antineutrale (2010), I Futuristi e la Grande Guerra (2015) e il lavoro su Boccioni, Umberto Boccioni. Arte-Vita (2017), artista congenito a Floreani – Pietrangelo Buttafuoco lo ha dichiarato, “l’erede naturale di Umberto Boccioni”. Alcuni cerchi dilagano verso l’infinito, altri ritornano a riva, per rinnovarsi: di recente ho avuto il privilegio di leggere l’ultimo lavoro di Floreani. Il titolo provvisorio di questo lungo studio – che è, sempre, anche, una dichiarazione di poetica, il richiamo a una disciplina imposta, la permanenza in un compito – è “Astrazione come Resistenza”. Ne discutiamo – amo chi dedica la vita a qualcosa di chiaro, di infiammato e ne fa destino, devozione, radicalità. Chiedo all’artista di rendere pubblico il dialogo. Ci accompagnerà per un po’. (d.b.)
L’Arte contemporanea rivendica “la nullità, l’insignificanza… la superficialità” (cito Baudrillard che usi come grimaldello); l’Astrazione, al contrario, è una ricerca “spirituale”, a tal punto scardinata dal “mondo”, dal “mondano” (ma forse non dall’immondo), che tu hai titolato il tuo libro, con energia provocatoria “Astrazione come Resistenza”. Mi spieghi a cosa “resiste” – oggi, ieri, per tradizione – l’Astrazione?
Il saggio di Jean Baudrillard Il complotto dell’arte che, come ben dici, ho usato come grimaldello e a cui dedico una parte significativa del primo capitolo del saggio, contiene un passaggio centrale che s’identifica perfettamente con la mia ricerca nell’ambito dell’Astrazione: L’astrazione è diventata la grande avventura dell’arte moderna […] l’astrazione fa’ ancora parte di una storia eroica della pittura, di una decostruzione della rappresentazione, di una frammentazione dell’oggetto. Alla ricerca astratta, autentica novità espressiva del Novecento, cui viene riconosciuta una storia eroica ormai pluricentenaria, si contrappone, inevitabilmente, una sorta di deriva espressiva che approda, in quest’ultimo trentennio, a quella che definisco una Post-Arte governata da altri meccanismi, mutuati dal mercato e della finanza. Non è quindi determinante decidere se sia arte o meno: lo è, e, di fatto, nel sistema dell’arte ha un ruolo dominante, in cui si è instaurata la priorità del prezzo sul valore, dopo aver svuotato di senso l’opera. Maurizio Cattelan, uno delle indiscusse artistar di quell’ambito, a livello mondiale, dichiara, parlando delle ragioni della sua ricerca: Parto sempre dall’immagine e non dal significato. Affermazione che segna un autentico crinale, una scelta di campo fondativa, una chiamata cui l’artista che si cimenti nell’impresa creativa deve rispondere, scegliendo quindi se la ricerca nasca da dentro o da fuori. Per l’astrattista la scelta si rivela automatica: la sua storia chiama interiorità, ascolto, introspezione, attingendo alla spiritualità, alla Teosofia, all’Antroposofia. È la biografica stessa degli astrattisti che reclama l’interiorità: dalla militanza teosofica d’inizio Novecento dell’antesignana Hilma af Klint, alle influenze antroposofiche di Balla e Prampolini, dall’abusato Spirituale nell’arte di Kandinskij, al pittore-medium Kupka, a Piet Mondrian, Jean Arp, fino ai contemporanei Sean Scully e Peter Halley. Nell’intervista rilasciata da Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound, autrice del testo relativo alla mia personale Memoria, al Refettorio delle Stelline di Milano, nel 1999: parla di: opere che evocano il silenzio e simmetricamente l’ascolto. La Post-Arte di oggi non è che l’applicazione in arte di una tendenza consolidata di natura sociale votata al disimpegno, sintetizzato dalla moda, prima, nonchè dal sistema artistico-mercantile, poi. A questo argomento si è dedicata forse la parte più rilevante del pensiero contemporaneo, a partire dagli anni Ottanta: da Baudrillard, appunto, al suo sodale Jean Paul Virilio, che scriverà testi ancor più corrosivi come La sparizione dell’arte (1988), o Discorsi sull’orrore dell’arte (2017), con prefazione di Enrico Baj, il filosofo cattolico Giovanni Reale, Hans-Georg Gadamer, Gottfried Boehm, Gilles Lipovetsky, Guy Debord e molti altri. Giovanni Reale, forse il meno conosciuto tra questi, è l’autore de Il fallimento dell’arte contemporanea, che riconduce giustamente al deterioramento progressivo dei valori che stanno a monte della scelta artistica, in un periodo storico dove lo stesso impiego del vocabolo “valore” è stato bandito dalla terminologia corrente. Reale coinvolge nella disamina sul contemporaneo anche grandi pensatori come Nicolàs Gòmes Dàvila: Questo secolo sprofonda lentamente in un pantano di sperma e di merda. Per maneggiare gli avvenimenti attuali gli storici futuri dovranno mettersi i guanti, analizzando anche il relativo riverbero sull’arte contemporanea che: […] non è un capriccio, come pensa l’ignorante, ma una tragedia. […] Tragedia che consiste nell’oblio dei valori che hanno le cose e soprattutto l’uomo.
Se a questi si aggiunge un’armata d’illustri storici dell’arte e scrittori di tutto il mondo, da Jean Clair, a Vargs Llosa, da Robert Hughes a Pasolini, si può verificare come, in realtà, tutto il pensiero contemporaneo ritenga svilente e depressiva questa deriva mercantile alimentata dal capitale e dalla comunicazione, silenziato opportunamente da quelli che Baudrillard, senza sconti, definisce: Gli insider […] i mistificatori di nullità […] che prostituiscono il Nulla al valore, che prostituiscono il Male a fini utili, perché: Vi è una forma iniziatica del Nulla, o una forma iniziatica del Male. La critica anche feroce, se non l’aperta e incondizionata condanna, sono quindi divenute un sentire comune, scritto in lungo e in largo, da autori a tutte le latitudini, pur silenziata.
L’Astrazione quindi oggi resiste, per sua stessa natura, a questa mercificazione, contrapponendovi l’interiorizzazione e il rigore della ricerca e, in questo, rivendicando anche la sua attualità: infatti, nel corso della sua storia, si è ritrovata a svolgere ruoli “resistenti” del tutto differenti tra loro. Nel secondo dopoguerra assumerà infatti caratteristiche militanti, in contrapposizione alla violenza dell’omologazione al realismo socialista capitanata da Guttuso, a sua volta finanziato direttamente dal Partito Comunista Italiano, contando nelle sue fila anche giovani comunisti come Dorazio, Turcato, Consagra, del tutto dissenzienti da quel clima vessatorio. Lotta anche di piazza, dove gli artisti astratti e realisti si prenderanno a calci e ceffoni, dove verranno divelte targhe d’inaugurazioni, dove, alle mostre sarà: vietato l’ingresso ai cani e ai critici e diverranno sistematiche le stroncature partite direttamente dagli organi di partito, quali “Rinascita”, dove Togliatti in prima persona si prenderà la briga di annichilire gli astrattisti come autentici, ingenui perditempo. La rivendicazione stessa dei valori eroici di una memoria storica, l’attualità della lezione anche teorica di quegli artisti, il voler attingere da un’interiorità complessa composta da individuale – nelle intenzioni creative – e oggettivo, rispondendo a delle modalità formali ed espressive d’ambito astratto, segnano la via che contrasta l’impersonalità, il nichilismo, l’assenza di memoria, il cinismo del prezzo, la dorata, schizofrenica impersonalità della moda, che sono l’autentica dannazione di generazioni cresciute con il mito della tecnocrazia. Ma la scienza non conosce l’uomo.
Che ruolo “sociale” può avere un’arte votata all’individuo, alla sparizione più che alla “spartizione”…
Il ruolo sociale dell’Astrazione non è certo una sua priorità dichiarata: forse per questo tacciata di distacco, se non di altezzosa superiorità. Nella realtà, per qualsiasi altra forma d’arte che non scada nella cronaca o nella mercificazione, ogni artista crea, nel migliore dei casi, innanzitutto per se stesso, ovvero non accettando facili compromessi con gli esiti che darà o meno la sua ricerca. Se così non fosse, l’arte avrebbe avuto la capacità di cambiare il corso della storia e la società: pretesa sempre rivelatasi ambiziosa, ma del tutto velleitaria, anche in presenza di autentici artisti-agitatori come i Futuristi, sia in Italia e, forse ancor più, nella Russia rivoluzionaria del monumentale Majakovskij, normalizzato e “suicidato” nell’esatto momento in cui avrebbe potuto raccogliere i frutti del suo instancabile prodigarsi, risultato di un’emancipazione sociale guidata dall’arte. Il supposto cambiamento della società grazie a forme artistiche legate alla stretta attualità, che riguardi ecologia e parità di genere, o che prenda come bersaglio il Trump di turno, si rivela conforme alla stretta cronaca e alla pubblicità, utilissime per la costruzione di teoremi e proclami politicamente corretti, ma di nessun effetto sociale. Prova ne siano l’assoluta inutilità, se non addirittura in senso inverso, delle mobilitazioni artistiche e musicali a favore del fenomeno di servizio.
Rilievo diverso, invece, può assumere l’arte nel momento in cui viene interiorizzata come prezioso momento di crescita individuale, contribuendo sensibilmente al consolidamento dell’autostima e della capacità di analisi introspettiva. Un’utilità che si riverbera quindi dal personale al collettivo, assumendo quindi anche una funzione che riguarda la socialità. L’Astrazione può assumere quindi anche rilevanza sociale, analizzando i presupposti e le conseguenze della sua natura votata all’ascolto e alimentata, il più delle volte, da suggestioni interne legate alla testimonianza, al ricordo elettivo, alla comunicazione cromatica sul versante emotivo, che conducono dal Caos al Cosmo, secondo modelli di natura spirituale e teosofica. Spiritualità, Teosofia e Antroposofia molto presenti nel percorso di molti tra i protagonisti dell’Astrazione, fin dai suoi inizi. L’Astrazione, è naturalmente alimentata dai contrari che contiene al suo interno: da un lato dall’autoritarismo che impone il rigore della chiamata dentro o fuori e, dall’altro, dalla pazienza egualitaria nell’accettazione dell’eventuale rifiuto da parte dei suoi fruitori, perché assorbiti dalla schiavitù dello svago o dei social-media, per disattenzione o ignoranza specifica o, semplicemente, per pigrizia. Contrariamente al sentire diffuso, cimentarsi nell’ascolto e nella lettura di un’opera astratta, può significare attingere alla propria parte più profonda, anche se raramente si rivelerà la più agevole e quella che rende soddisfazioni immediate.
Mi affascinano i tuoi modelli, consoni, a volte contradditori. Cominci con Carmelo Bene come epigrafe, citi Majakovskij e Jünger, parli di Emilio Villa, studi Mishima. Hai ciò, un rapporto costante, consolidato, con la parola letteraria: come mai? Da dove arriva? Che uso ne fai?
La cosa più affascinante di questa domanda è che cita come potenzialmente contraddittori, accostamenti che per me sono viscerali, nati prima che io stesso li riconoscessi in me, penso elementi fondativi di una storia che mi precede e che, a ultima istanza, nemmeno mi riguarda direttamente, facendo parte nobile di una meccanica complessa che mi sovrasta in ampiezza. Una possibile appartenenza elettiva. È forse proprio questo aspetto quello dominante nelle mie aspirazioni: la monumentalità del pensiero e la sua ricaduta nel quotidiano, naturale come la sintesi corpo-mente-spirito di una traslazione misurata della mano, del taglio obliquo di uno sguardo che si posa sull’oggetto sottraendolo, per un attimo, allo scorrere nel corso del tempo, di un passo che affonda, consapevole del cambiamento di carico, conferendo un significato del tutto differente alla deambulazione, dell’avvicinamento alla tela bianca di cui, in quel preciso momento, prende senso solo nella faticosa perizia delle mani per intelarla e nell’insolita risposta sonora, frequenza inequivocabile della sua giusta tensione. Carmelo Bene è una sintesi perfetta d’imprevedibilità: marinettiano e decadente, antico e futuribile, anarchico e conservatore, innovatore e tradizionalista, un ossimoro vivente, che si rivela soprattutto per un corpo-voce di straordinaria fisicità. Ascoltare Majakovskij da Carmelo Bene significa, non casualmente, conoscere Majakovskij, fisicamente, attraverso l’impasto materico della sua voce. E di fisicità marziale si parla con Mishima che Coltiva il corpo come un orto, di Jünger che considera la guerra come esperienza interiore attraverso il dolore straziante di quattordici ferite in combattimento, inalando le nubi tossiche dei gas che gli consentiranno di diventare la sentinella ultracentenaria del Novecento. Fisicità sensibile di Emilio Villa, vibratile nella sua sofferenza inadeguata al confronto truce, eppure indomito nel suo moltiplicare le occasioni per essere incompreso e tuttavia imperterrito nel considerarsi immutabile nell’anima. E Umberto Boccioni, l’antigrazioso, che passeggia accompagnato da due rivoltelle, succube pazzo della Gran Madre, l’Arte, cui dedicare tutta la sua folle sofferenza del superamento di sé, che lo trascinerà dal baratro esistenziale dei Taccuini, al palco delle Serate Futuriste, indomito e sprezzante, nelle autentiche battaglie di Arte-Vita da cui uscirà schedato come agitatore abituale. Pronto a partire, volontario, al preciso rintocco con la sorte del 24 maggio 1915, nell’unico reparto paramilitare dell’Esercito Italiano: il Battaglione Lombardo Ciclisti Automobilisti, dove molti sarebbero forse partiti solo per la sua straordinaria titolazione. Boccioni l’antiromantico, che morirà cadendo da cavallo per amore, essendone stato privato nel corso di tutta la sua affannosa, travagliata vita. Il corpo, la ferita, la vita e la morte. L’Arte. L’Arte-Vita. L’Arte e la letteratura.
Alla fine della maturità, il risultato esemplare sembrava avermi spianato la strada verso la scrittura, con la pubblicazione di un libriccino di liriche con un pioniere del tempo: Rebellato di Cittadella. Ma che cosa aspettarsi da un mancino non corretto, unico ad approdare “sinistro” alle medie, pure a numero chiuso e ancor più selettive delle elementari? Ecco allora la scelta spaesante, il salto mortale, ovvero il corso di Laurea in Economia, sconosciuto, ma riconducibile al mio desiderio inesausto di compiuta comprensione del mondo reale. La scrittura del cuore è nella mano, pronta ad assumere il suo ruolo-guida con l’invito, nello stesso anno della laurea, a partecipare alla prima esposizione. I progetti espositivi nascono, fin d’allora, dalla loro collocazione letteraria: ad ogni autore una dedizione specifica e finalizzata: a Ezra Pound Memoria, a Emanuele Severino Ritorno all’Angelo, a Paul Celan Di soglia in soglia, La pietra e il Cerchio, a Martin Hiedegger La Casa e il Tempo, a Boccioni Ricordare Boccioni. Il testo quindi come scaturigine della pittura, come pretesto alto per accedere alla propria parte migliore, la più vibratile, attivata dalla magia ermetica della parola, dal suono celeste delle combinazioni, dallo straniamento della differenza tra il quotidiano e l’universale, pur solo avvertito, intravisto, percepito. Lo stesso principio elettivo che poi combina la propria anima sottile con le sensibilità di chi si segue con ammirazione, con rispetto, scoprendo che anche Anselm Kiefer, oggetto di un’attenzione profonda, considera fondativa la parola: Le poesie sono per me come […] boe in mare aperto. Nuoto da una all’altra e in mezzo all’acqua, senza di esse, sono perduto. Le poesie sono punti di ancoraggio, e proprio riferendosi ai medesimi autori, quali Velimir Chlebnikov, il poeta che teneva in suoi testi a tracolla, nella fodera di un cuscino, o del filosofo inattuale come Andrea Emo Capodilista, che considerava l’arte come esperienza metafisica. (continua)
*In copertina: Roberto Floreani in un ritratto fotografico di Ferdinando Cioffi