
Il politicamente corretto ha imposto il suo dogma, l’Uomo Residuo ne è il profeta
Società
Clery Celeste
“Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino” diceva il fotografo di guerra Robert Capa.
E questa frase è di una verità assoluta, specialmente ora, nell’era digitale, dove ogni fotografia può essere migliorata in quello che si chiama post processing; una parolina dal suono gustoso ma che in realtà nasconde la falsificazione della vita. La fotografia diventa buona fotografia solo quando ti concede la vicinanza, quando permette a chi guarda lo scatto di sentirsi prossimo a quelle luci e a quelle forme. Quando quindi si crea quella magia dell’intimità, e questa la sanno realizzare solo certi fotografi.
Non è una questione di proporzioni, di chiaro-scuri e di altri tecnicismi, almeno non è solo questo. Si tratta della capacità di entrare dentro la vita degli altri, di stare sulla soglia di vite che non sono la tua, sbirciare senza l’occhio porcino dei guardoni ma con la grazia e la delicatezza di chi chiede ospitalità, di chi chiede “permesso” per varcare la soglia. A Villa Mussolini a Riccione fino ad aprile troverete la mostra “Robert Capa. Retrospettiva”, splendida, una vera chicca. Il nome di Capa è assai noto, non si tratta di un fotografo sconosciuto alla cronaca, ha prodotto le prime fotografie dello sbarco in Normandia ma non solo. La mostra inizia al piano terra con una storia d’amore dall’esito tragico; troverete una prima foto che è un bellissimo ritratto in primo piano di Capa poi entrerete in una saletta e lì sarete completamente immobilizzati da una foto al centro della parete: Capa e Gerda Taro che sorridono seduti a un tavolo, si guardano. I più romantici direbbero che è dallo sguardo dei due che emerge il loro amore, direbbero anche che nel profondo – se riescono ad ammetterlo – desidererebbero essere guardati come i due si guardano reciprocamente nella foto. Ma non è questo a smuovervi davvero le viscere. Il fatto è che la fotografia blocca in un’immagine il destino di un uomo; non a caso nei primi anni dell’introduzione della fotografia molti erano scettici, avevano paura che rubasse l’anima, che venisse trattenuto qualcosa. Questo infatti – dal punto di vista esoterico – non è una credenza ridicola, ma ci sono ragioni specifiche per cui le foto rubano qualcosa di chi viene fotografato, ma facciamo prima un po’ di ordine.
Quella che chiamano anima non è che il risultante di più parti concatenate e legate tra loro che sono (sarò riduttiva, mi perdonino gli addetti ai lavori) corpo astrale e corpo eterico, o doppio eterico. In particolare, quello che viene coinvolto nel processo della fotografia è il corpo eterico, ovvero quella parte strettamente connessa al corpo fisico – quello che tocchiamo con le manine, per intenderci – che è collegato alla facoltà del pensiero, al pensare ordinario di come una persona si pensa in quanto esistente; tu ti pensi come essere autonomo grazie al corpo eterico, ovvero l’autocoscienza di se stessi come individuo. Non tutte le credenze del passato sono frutto di ignoranza, a volte certe usanze, certe ritrosie come capita ancora in alcune popolazioni e tribù indigene del Sud America che non vogliono che qualcuno scatti loro fotografie, contengono un fondo di verità. Ecco che quindi la paura che l’anima venga rubata o trattenuta nelle fotografie non è una totale assurdità; quello che accade infatti è che durante l’atto dello scattare la foto, il fotografo con il suo sguardo e la sua intenzione crea un ponte di connessione mentale tra l’oggetto fotografato e l’occhio del fotografo, questo ponte che si crea fa in modo che nella pellicola venga impresso e fermato il corpo eterico del soggetto.
Le fotografie non sono un atto innocente, un puro divertimento estetico, ed è qui che sta il significato della veridicità di alcune foto, della loro intensità rispetto ad altre fotografie magari artisticamente più interessanti o con un migliore bilanciamento delle proporzioni o dei chiaro-scuri. La fotografia imprime e blocca, trattiene in qualche misura il corpo eterico e questo è un importante elemento di connessione che abbiamo tra gli esseri umani. Avete presente quando vi trovate di spalle e prima ancora che vi chiamino sentite, percepite, la persona che arriva alle vostre spalle – anche se in totale silenzio – un paio di metri prima? Oppure ancora quando qualcuno vi sta osservando e all’improvviso vi girate e scoprite il vostro “cecchino”? Ecco, qui interviene il corpo eterico che vi consente il contatto con l’altro, anche a distanza, anche senza tocco.
Le fotografie di Capa rispettano questo criterio: come diceva lui stesso, è lo stare abbastanza vicino al soggetto che rende buona la fotografia. Questa prossimità all’altro, al dolore della vita e al terrore della morte, rende possibile quel ponte di collegamento tra campi eterici che ci permette ancora oggi di emozionarci davanti ai suoi scatti. Le foto famosissime, per esempio, dello sbarco in Normandia (che a livello tecnico vennero danneggiate dall’assistente allo sviluppo per un errore di dose di acidi da camera oscura) sono artisticamente poco rilevanti, sfocate e mosse, con un non ottimale bilanciamento dei contrasti. Scattate in condizioni estreme, le foto non sono di eccelsa qualità estetica, ma sfido chiunque a non emozionarsi davanti a quelle immagini, a non provare terrore ed euforia contemporaneamente. Mentre guardate quei frame siete voi stessi Robert Capa, vi sentite immersi nel freddo mare, bagnati fino alla cintola, con una macchina fotografica in mano disperatamente impegnati a salvarvi la vita e salvare i rullini pieni di scatti.
Robert Capa era un fotoreporter di guerra, specializzato nel sostare sul limite, nel continuo confine della guerra che ti pone davanti alla vita e alla morte. Non ci fai mai l’abitudine, per quanto lo stare sulla soglia diventi una specie di droga, per quanto tu sia portato a poter sopportare quel tipo di tensioni, la guerra non è una abitudine. È proprio questa sua capacità di meravigliarsi continuamente, di vivere la vita in tutte le sue sfumature, che dalle fotografie emerge potentissima. Dal suo diario di reporter:
“Scattavo foto di guerra e di sangue fin da quando ero stato in Spagna, ma in sette anni il mio stomaco non si era ancora abituato alla vista della carne viva e del sangue fresco. Sistemai il sacco a pelo nell’angolo più distante, vicino a due enormi botti di vino”.
Le foto di Robert Capa non sono solo testimonianze di momenti cruciali della storia dell’uomo: sono dei varchi aperti verso l’umano, dei portali astrali verso dimensioni di dolore e di vita, dimensioni che ancora risiedono da qualche parte annidati nel corpo dell’uomo, come una memoria muscolare. Quello che si attiva guardando queste sue immagini è una memoria cardiaca; stretto nel diaframma esiste il ricordo del confine sottilissimo tra vita e morte, tra miseria e benessere. Basta un pulsante a far variare l’algoritmo, ora più che mai, ma tendiamo a pensare che tutto questo sia altrove, che non ci riguardi.
Le foto sono dei potenti portali verso mondi ancora urlanti, verso dolori antichi eppure ricorrenti. Il viso deformato delle madri di Napoli nella fotografia scattata da Capa al funerale dei bambini partigiani è qualcosa che difficilmente scorderete, quei visi rigati, quella disperazione è la disperazione di tutti i genitori che vedono seppellire i propri figli. Quella atrocità è il mio squarcio del cuore, mi appartiene come donna, come essere umano. Ecco che questa mostra a Riccione diventa l’occasione per farsi strada in un varco temporale che non si è mai chiuso, che la fotografia con il suo potenziale di raccogliere le memorie del campo eterico concede un passaggio a chi si vuole permettere ancora di restare umano. La vera fotografia resiste in queste esposizioni, dove nessuna macchina informatica, dove nessun post processing può alterare e abbellire ciò che viene restituito dall’occhio del fotografo. Gli scatti di Capa, ogni singolo scatto, è la testimonianza di un minuto in più di vita concessa dal fato a questo reporter. Fato che si è compiuto negli anni Cinquanta quando durante una missione saltò in aria a causa di una mina anti-uomo. Capa non si è mai risparmiato, è stato nelle linee di attacco insieme ai soldati, da civile partecipò come paracadutista insieme ai suoi compagni militari molto meglio addestrati. Ogni foto che abbiamo è un segno del destino di questo uomo che doveva compiersi finché il fato non ha posto il taglio del filo.
Avrebbe potuto morire milioni di volte per scattare delle foto. Una volta un colonnello gli disse “Un uomo che non sa amare, non sa neanche combattere”. Capa amava la fotografia come amava rischiare tutto per essa, come ha fatto fino al suo ultimo giorno concesso. Come fece esattamente il suo grande amore Gerda Taro, morta a 26 anni nella guerra civile spagnola mentre scattava come reporter.
Clery Celeste