07 Ottobre 2017

Ritratto di Donnelly, l'uomo che scoprì Atlantide

Il tipo era brillante – e non era certo un pazzo. Ignatius Donnelly, nato a Philadelphia, il 3 novembre del 1831 da un cattolico irlandese immigrato, è noto per due cose e mezza. Partiamo dalla mezza. Ignatius Donnelly, che a 25 anni si ritira a Nininger, Minnesota, una delle tante comunità utopiche che sorgevano – e spiravano – come funghi a metà Ottocento negli Usa – beni in comune, lavoro comune, figli in comune, copula in comune – quando mette la testa a posto compie una onesta carriera politica. Repubblicano, fu governatore del Minnesota dal 1860 al 1863 e senatore dal 1874 al 1878 e dal 1891 al 1894. Tra l’altro, viene ricordato per essere stato uno dei promotori del suffragio femminile, per allargare il voto politico a tutte le donne. Ma queste, come dire, sono sciocchezze. Ignatius Donnelly è noto per una proposta filologica e per una tesi archeologica (anzi, fantascientifica). La prima fu registrata in The Great Cryptogram, tomo edito nel 1888: Donnelly, prove alla mano, era convinto che Shakespeare fosse il nome fittizio di Francis Bacon, il filosofo del Novum Organum. A dire dell’eccentrico politico, Bacone con una mano perfezionava il ‘metodo’ scientifico e con l’altra scriveva Amleto. La tesi – più spettacolare che fondata – ebbe un certo successo: d’altronde, ancora oggi ci pare uno scherzo del destino che il più grande artista occidentale, Shakespeare, abbia avuto una vita tanto ritirata e modesta. Il libro che donò imperitura fama a Donnelly, però, è un altro. Pubblicato da Harper & Brothers – che ora è il potentissimo HarperCollins – a New York, nel 1882, Atlantis: The Antediluvian World shakera tutto quello che sappiamo dell’ancestrale Atlantide, rilanciandone la terrena, terrestre, patente autenticità. Il genio di Donnelly è pienamente ‘politico’: che significa, non ciurla nel manico. L’introduzione è una lista di 13 tesi che “l’autore intende dimostrare nel corso del lavoro”. Cosa dicono queste fatidiche tesi? Intanto ribadire che “è esistita, nell’Oceano Atlantico, di fronte al Mar Mediterraneo, una vasta isola conosciuta nel mondo antico come Atlantide”. Quindi “che la descrizione che di questa isola ci ha dato Platone non è favolosa, ma reale”, e che “Atlantide è il luogo in cui l’uomo si è evoluto per la prima volta dalla barbarie alla civiltà”. Donnelly è convinto, perciò, che “Atlantide è la sede della famiglia degli Ariani o Indo-Europei”, che “l’alfabeto dei Fenici, il genitore di tutti gli alfabeti europei, è un derivato da un alfabeto di Atlantide” e che “la colonia più antica degli abitanti di Atlantide era in Egitto”. Da Atlantide, infatti, partirono un mucchio di vascelli alla scoperta del mondo: alcuni attraccarono “nel Golfo del Messico, altri nel Mississippi, nel Rio delle Amazzoni, sulla costa europea, in Africa, nel Baltico, nel Mar Nero e nel Mar Caspio”. Dove gli Atlantidei sbarcano portano la civiltà, per questo “gli dèi e le dee dell’antica Grecia, dei Fenici, degli indù e degli scandivano non sono che i re, le regine e gli eroi di Atlantide”. Come si sa, infine, Atlantide svanì, “affondando nell’oceano con tutti i suoi abitanti”. Per un riassunto della fiction, basta ascoltare la canzone di Franco Battiato, Atlantide (raccolta nel disco Caffè de la Paix, 1993). Il resto del libro, con dovizia di spericolati dati, giustifica le asserzioni di Donnelly. Esito: Atlantis fu un successo clamoroso. Te credo, si legge meglio di un libro di Dan Brown. Galvanizzato dal successo, l’anno dopo Donnelly pubblica Ragnarok: The Age of Fire and Gravel, un libro in cui racconta come una terribile cometa, 12mila anni fa, abbia annientato una raffinatissima civiltà: da allora gli uomini, ridotti a vivere nelle caverne, sono quello che siamo, brutti&cattivi. Passato all’altro mondo il primo gennaio del 1901, ora Donnelly è oggetto di una bella riscoperta (qui). Come mai? Perché il mito di Atlantide, in un’epoca di insicurezze ambientali e di catastrofi geopolitiche, ci consola.

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