Qualche tempo fa, un amico capace di implacabili solitudini – a proposito, chissà dove sarà ora: mi parlava di ulivi a Creta e di viaggi in Amazzonia… – mi ha scannerizzato un libro bellissimo. L’ho stampato, sottolineato, conservato con l’acume del segreto, cosa che può sparire, proprio ora, polverizzarsi.
Il libro s’intitola Il silenzio di Rimbaud, l’autore si chiama Gabriel Bounoure: tradotto da Riccardo Corsi, è arrivato in Italia nel 2013, grazie a Portatori d’acqua, piccolo editore d’altissimo pregio. Il libro pare “esaurito”.
Nel vasto, vago repertorio di testi agiografici, sperimentali, filologici, angioplastici su Rimbaud, questo è il più profondo, il più bello, il più elusivo. Di Rimbaud hanno scritto tutti, di tutto, tanto da poter dire che esista un Rimbaud autentico, Jean Nicolas Arthur, nato a Charleville il 20 ottobre del 1854 da Marie Catherine Vitalie Cuif, mater cattolicissima, e da Frédéric, capitano dell’esercito con un passato in Algeria e Crimea, e l’altro, quello ad uso dei letterati, il fantomatico angelo dagli occhi azzurri. Il secondo, il Rimbaud letterario, dopo aver vampirizzato la letteratura francese e la poesia europea, ha ucciso il Rimbaud autentico. Così, benché del Rimbaud autentico sappiamo ogni cosa, ne possiamo minutamente anatomizzare l’esistenza, nulla conquistiamo, perché dietro la grata di ogni data, circostanza, svolta, alligna l’altro, il Rimbaud mitico, che ha ormai del tutto sostituito il Rimbaud autentico, ormai nulla più che un mero alter ego, un burattino.
Non è raro vedere il Rimbaud leggendario, creato su carta, spavaldo e beat, azzannare l’altro, spaventato, l’eterno bimbo dagli antenati gallici, fino a staccargli il palato, smobiliare i denti, fare esplodere come fuochi d’artificio le arterie.
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Benché il saggio di Gabriel Bounoure sia – così l’intenzionale sottotitolo – un “piccolo contributo al mito”, a me pare che Il silenzio di Rimbaud contribuisca a dissipare il mito: tocca il cuore stellato del poeta, il prato del suo petto.
Chiunque abbia scritto di Rimbaud – da Gide a René Char, da Julien Gracq a Bonnefoy – si mette nelle sue tracce con ego idolatra. Chiunque, d’altronde, pure io, ha bisogno del mito-Rimbaud, e porre dei verbi floreali intorno alla sua intoccabile salma e usarlo come medaglia o amuleto. Diverso – come sempre – Benjamin Fondane, che nel suo studio più noto, Rimbaud le voyou, fa l’iconoclasta, con intransigenza salva Rimbaud da se stesso: lo uccide. In Rimbaud le fils, Pierre Michon fa ancora qualcos’altro: imbeve il mito nel miele letterario, sfida Rimbaud sul suo terreno, lo concretizza in aggettivi aggettanti.
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Chi mi dà del fanfarone e dell’intellettuale, forse, ha ragione. Non sopporto i vezzi intellettuali, non dispongo di intelletto, malsopporto le fanfaronate – ma mi piace il pagliaccio in piazza, l’improvvisata del trickster, il giocoliere spaesato, fuori paese –, ma resto quello che sono: il figlio di un suicida, uno cresciuto ai margini, benedetto da una nobile povertà, in cerca di approvazioni, magari di sudditi. Così, alterno la vita all’anti-vita, la contemplazione alla spudoratezza, e resto sempre a metà strada, mentre il vento sgombera le grondaie, che sbracciano, senza chiedere nulla.
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Uno, credo fosse un primario, mi ferma per strada – sopra i pini la luce conserva uno sguardo infantile, ha la fionda in mano. “Lei ha scritto di Alessandro Spina: sono andato in libreria, l’ho chiesto, ma non c’è”. Già. “Perché continua a scrivere di autori che non si trovano in libreria?, uno ci rimane male…”. Sennò che gusto c’è, gli dico. Vada in biblioteca, suggerisco. Anzi, scriva all’editore che lo pubblicava, Spina, chieda il libro, pretenda un motivo per questo eccidio.
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Per questo, amo le figure lontane, in controluce. Uomo dai tratti sfuggenti, Gabriel Bounoure (1886-1969) è stato discepolo di André Suarès e amico di René Char, Pierre Jean Jouve, Louis Massignon. Ha lavorato per lo più in Libano – dove fonda l’École supérieure des lettres –, in Siria, in Egitto e in Marocco. Appoggiò, durante la Seconda guerra, gli appelli di de Gaulle; fu critico nei riguardi della politica francese in Tunisia e in Egitto. Scrivendo di lui, il suo allievo Salah Stétie, definisce “la scienza critica di questo poderoso critico” con una didascalia luminosa: “carezza sovrana”. Scrive che “una parte della sua opera è stata pubblicata spesso contro il suo volere”, che “la parte più importante rimane inedita”. Si incorre sempre in questa reticenza quando ci si confronta con un grande maestro. La maestria non va divulgata – non ha pubblico.
Il poeta è sempre inedito – per inaudita inadeguatezza.
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Gabriel Bounoure accetta di pubblicare un unico libro, Marelles sur le Parvis, nel 1958, per Plon, nella collana “Cheminements” curata da Cioran. Si tratta di un “leggendario libro”, che raduna diversi saggi, tra cui quelli su Rimbaud. Del tutto assente in Italia – per evanescenza dal meraviglioso – l’opera di Bounoure, spezzettata in singoli testi – su Henri Michaux, René Char, Pierre Jean Jouve – gravita nelle belle Éditions Fata Morgana. Alcuni brani da Il silenzio di Rimbaud, barlumi divinatori, selci in argento, devono essere ricalcati:
“Regale assenza”;
“Pronuncia delle parole che nessuno comprende… si direbbe che articoli quelle parole per il loro rovescio di silenzio”;
“Poesia che aspirava a una favolosa distruzione”;
“Ho cominciato a credere a un tradimento della poesia, mentre era una immolazione”;
“Niente è così essenziale per la poesia come questa sconfessione della poesia”;
“Ancora un apprendistato!”;
“Un vero poeta e un uomo di lettere, nonostante le apparenze, sono diagonalmente contrapposti, in modo tale che ciascuno dei due contiene, irriducibile e esplosiva, la negazione dell’altro”;
“Rimbaud ha cercato i paesi più aridi per consacrare loro la sua stessa aridità, per diventare una vana fiamma di quel fuoco. Si direbbe che tra Baudelaire e Nietzsche, il solo modo di seppellire l’albero del Bene e del Male, l’unico modo di ‘risalire a un cielo’ sia di acconsentire all’immolazione”;
“Un bisogno di scomparire – di rompere con il discorso”;
“Deve ad ogni costo andarsene dalla sua opera verso uno spaesamento assoluto”;
“La bellezza contiene una chiamata di morte”;
“Un testo è una fine. L’ultimo atto del viaggiatore d’Etiopia ha soltanto l’apparenza di una negazione. Afferma invece che non c’è una fine”;
“Il silenzio di Rimbaud è più vivo di tutto quello che ha scritto”.
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Con naturalezza, si va per una bestiale ascesi – più di Rimbaud, sfacciato, perdiamo le tracce, più ci inoltriamo in una trappa, nella vita senza trattative. Ad ogni modo: consolazione per i nostri fallimenti.
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Alcuni libri vanno passati da uno all’altro, di mano in mano, nella primizia di un’occasione, fragili per pericolosità, incoscienti, libri con i capelli al vento, che non hanno nulla da vantare.
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Che il gelo giunga con le sue legioni dalla collina: il suo compito è bombardare le mura, costringerci al cappotto, in primavera, a lasciare la sindone nella sciarpa. Ci scopre nel pulpito del pallore, questo gelo che porta un bimbo di vetro in mano: di ogni cosa scopre il fuoco bianco, la lebbra, la disonesta prova.
Oggi cerco un legame tra i “trecento denari” che Giuda Iscariota avrebbe voluto ottenere dai “trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso” con cui Maria, nel Vangelo di Giovanni, cosparge i piedi di Gesù, e le “trenta monete d’argento” (Mt 26,15) che Giuda riceve per consegnare il Nazareno ai “capi dei sacerdoti”. Il numero trenta ricorre nel Testo – “trenta sicli d’argento” dice il Signore a Zaccaria, “questa la grandiosa somma con cui sono stato valutato!” – come il numero trecento – l’arca di Noè, prototipo dell’alleanza, “avrà trecento cubiti di lunghezza” –: tutto è cifrato e nel computo si compongono le scale celesti. “Era un ladro”, dice Giovanni di Giuda; “Verrò come un ladro”, dice Dio nell’Apocalisse.
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Traduco, vagheggiando estremismi, Bounoure:
“La poesia trascina gli inconciliabili e li riconcilia; avanza continuamente sulla riva dell’impossibile. Scopre nell’immaginario la manifestazione dell’essere; si perde nella dialettica di eros, a volte gonfia di orgogliose sfide, a volte cedendo a estasi di umiltà. Mediazione sempre sperata, che sempre sfugge. Si avvia alla scoperta del reale assoluto e non giunge che a un abbaglio istantaneo. A volte sogna e cavalca il turbine delle apparenze, a volte ci riempie di pienezza. Tonante natura, innaturale, quella del poema! Mescola l’accidia e la follia erotica al genio severo del lavoro, la ritrattazione che separa le cose e l’impeto a fondersi con le cose, attività e passività, sogno e calcolo, assenza e presenza, gusto per la vita selvaggia ed estrema raffinatezza. La poesia rivela la fecondità della via negativa, la vita spirituale che sorge dalla morte. Ogni grande poema è testimonianza totale dell’uomo: il luogo in cui le energie dell’universo montano verso il linguaggio… All’apice della nostra cultura, la poesia pone tutti i problemi – senza altra soluzione che la poesia stessa”.
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Levatrice di tutti i nomi, ne munge il silenzio – sussurra al tuo orecchio di libellula. Che se ne vada, ora. Più che liberare, libra.