08 Luglio 2020

Ritratto di Rainer Maria Rilke in forma di gatto e di tartaruga

Un secolo fa, Rainer Maria Rilke era a Venezia, all’Hotel Europe; luglio replicava la laguna, aveva sintomi di palude. Il poeta era in compagnia della solita Marie Taxis, il mese prima dialogava con Hugo von Hofmannsthal, il vuoto lo penetrava, perpetuando l’indigenza. Per carità: abbozzi infiniti, versi tronchi, sonetti stroncati, tumefatti, sfiniti. Lì, forse, nelle macerie liriche che precedono le Elegie si scopre Rilke, l’uomo che svetta. Scriveva lettere, lunghissime – aveva paura. Appena rinunci a tutto per la poesia, lei si sottrae – non ti è dato scegliere, è lei che sceglie.

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Mentre l’estate sfiorisce, Rilke si ferma a Berna – quella quiete gli piace perché non lo appaga. Bisogna svuotarsi perché qualcosa risuoni, tintinni: si dice, preparare la giungla per l’avvenimento della tigre. “Baladine Klossowska lo raggiunge per qualche giorno. Il loro amore conosce un’epoca particolarmente intensa e felice” (Andreina Lavagetto). Balthasar, il figlio di Baladine, gioca con Rilke, ha 12 anni, pratica la pittura, con abbacinante candore. Rilke ne è ammirato – in quello, forse, vuole arretrare. Per lui, un secolo fa, scrive una prosa di ferma bellezza, che introduce Mitsou, quaderno di disegni del bimbo. L’oggetto – Mitsou – è un gatto. “Guardate i cani: il loro avvicinamento confidenziale e ammirato è tale che alcuni di essi sembrano avere rinunciato alle più antiche tradizioni canine per adorare le nostre abitudini e persino i nostri errori. Appunto questo li rende tragici e sublimi… I gatti sono dei gatti, semplicemente, e il loro mondo è il mondo dei gatti, da un capo all’altro. Voi dite che vi guardano? Ma si è mai saputo se veramente si degnino di ammettere per un istante la nostra futile immagine nel fondo della loro retina?”. Nell’ambigua indifferenza dei gatti, Rilke sembra descrivere se stesso – il poeta è per tutti, a tutti confidente, non appartiene a nessuno. Il piccolo pittore, il figlio di Baladine, è ribattezzato Baltusz, è Balthus.

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Il gatto, genericamente destinato a più vite, capace, per leggiadria, di attraversare i mondi, oziosa icona di una divinità egizia, per natura esoterica sparisce. “La perdita, per crudele che sia, non può nulla contro il possesso: lo completa, se volete, lo afferma: non è, in fondo, che una seconda acquisizione – questa volta tutta interiore – e altrettanto intensa”. Tanto sagace, il gatto, che si dubita della sua esistenza: “State tranquilli: io sono. Baltusz esiste. Il nostro mondo è ben solido. Non esistono gatti”. Rilke, felpato, scrive una pagina memorabile che s’insinua nella speciale bibliografia felina, che conta, tra i tanti, Thomas S. Eliot, Jun’ichiro Tanizaki, Colette.

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Il testo sui Gatti, che non esistono, è la perla di un libro eccentrico pubblicato da Adelphi che raccoglie Del paesaggio e altri scritti di Rilke. Partite da quello che dà il titolo al tomo (pagina 29), del 1902. Rilke s’è mollato con Lou Salomé, ha sposato la scultrice Clara Westhoff, proprio quell’anno va a Parigi per studiare l’opera di Rodin e capire il punto d’intersezione tra arte figurativa e lirica. In sei pagine, Rilke abbozza una storia metafisica dell’arte: la “pittura degli antichi” si concentra nel raffigurare il corpo (“l’uomo, sebbene al mondo da secoli, era ancora troppo nuovo a sé stesso, troppo entusiasta di sé per guardare oltre il suo corpo o distogliere lo sguardo”), l’arte cristiana si confina nell’altro mondo (“gli uomini si erano fatti esili e trasparenti – ma era proprio di quell’arte sentire il paesaggio come una cosa effimera, come una fila di tombe rivestite di verde sotto le quali è l’inferno, mentre sopra il cielo si apre nella sua immensità l’unica, profonda realtà voluta da ogni essere”), con Leonardo il mondo trova dignità pittorica, eppure, “si cominciò a capire la natura quando non la si capì più: quando si capì che essa era l’altra parte, indifferente, incapace di accoglierci – si era già fuori di essa, solitari, usciti da un mondo solitario”. Ancora una volta: la perdita è desiderio raddoppiato.

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Nella nota al libro – la cura è di Giorgio Zampa – Marco Rispoli ci ricorda il giudizio di Robert Musil sull’opera di Rilke (“è il più grande poeta lirico che abbiano avuto i tedeschi”) di cui va letta anche la prosa, perché “quasi nessuna riga, nessuna parola scade rispetto al resto”. Così, anche il testo passeggero su Le Cour innombrable, raccolta di versi della principessa Bibesco Bassaraba de Brancovan, nota come Anna de Noailles, pubblicato postumo, contiene luci: “Quest’anima prende tutto su di sé… È una candida anima eolia che non ha vergogna ad abitare là dove i sensi si incrociano, e che non prova bisogno di nulla, perché questi sensi spiegati formano un cerchio senza soluzioni: ed essa soggiorna nella coscienza di un mondo ininterrotto. Ignara di invisibili o diverse esistenze, essa è in ogni luogo della bella figura, con cui sa di essere una cosa unica; e in nessun altro luogo potrebbe essere più beata e intangibile”.

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Nel momento d’estasi – febbraio 1922 – mentre Rilke termina le Elegie duinesi, poema decennale, e attacca i Sonetti a Orfeo, accade anche La lettera del giovane lavoratore, anch’essa postuma, ricavata da un quaderno, come se il poeta scrivesse, incurante, in disarmata gratuità, senza risparmio. La lettera, fittizia, reclama il lavoro come carisma, come chiamata, reagisce a quelli che “hanno fatto un mestiere del cristianesimo, un’occupazione borghese, sur place, uno stagno che con moto alterno si vuota e si riempie”. Il lavoro integra la liturgia, è opera che coopera con Dio; il corpo è l’equatore del rapporto tra uomo e Dio. “Perché il nostro sesso è stato esiliato, invece di trasferire in esso la festa della nostra sudditanza? Bene, voglio ammetterlo, tutto questo non deve riguardarci: ché non siamo in grado di rispondere e di dominare una beatitudine così inesauribile. Ma perché non apparteniamo a Dio a partire da quel punto?”.

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L’appendice del libro raccoglie le Lettere a un giovane pittore, inviate da Rilke a Balthus, dal 1920 al 1926. “Per quanto mi riguarda, caro B., ho voglia solo di non affermare nulla. Se lei potesse immaginare che un malvagio mago mi ha trasformato in una tartaruga, sarebbe vicinissimo alla realtà: ho indosso un forte e solido guscio di indifferenza che sfida ogni prova”. Rilke si tramuta in gatto, in tartaruga; comunque indifferente agli umani. La sua disciplina non attua pietà: il rapporto con il figlio di Baladine lo accontenta, prima della muta. Dal 1919 il poeta sceglie di non vedere più la figlia Ruth, nata nel dicembre del 1901. Nel 1923 Rilke diventa nonno, la nipote si chiama Christine – il poeta, malato, dimagrisce fino a pesare 48 chili. Ruth, che morirà nel 1972, a settant’anni, avrà tre figli. Rilke non conoscerà nessuno di loro, altro alla spirale della vita. Non si presentò neppure al matrimonio della figlia. (d.b.)

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