29 Luglio 2023

Ucciso da una rosa. Rilke incontra Nimet Eloui Bey, la ragazza fatale

Nei primi giorni del settembre 1926, Rilke incontrò Nimet Eloui Bey, giovane e ricca egiziana, di straordinaria bellezza e spiritualità – come si intuisce dai ritratti di Man Ray e Lee Miller.

Edmond Jaloux, scrittore e critico letterario, amico di Rilke, fu testimone diretto, e anzi artefice, del loro incontro all’Hotel Savoy di Losanna[1]. Qui, lei gli parlò in modo commovente dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, soffermandosi sul passo in cui l’autore, da bambino, vede una mano pallida che gli viene incontro sotto un tavolo, sulla strana figura di Abelone, sulla parabola del Figliol Prodigo. Non sapeva nulla dell’autore, di cui conosceva solo il nome, senza sapere se fosse vivo o morto, nulla. E poi, tutto accadde velocemente, racconta Jaloux:

“Giratevi”, le dissi allora, “e guardate quell’uomo con i baffi cadenti che legge a pochi passi da noi, da solo, sotto quell’albero”.Ebbene?”. “È Rainer Maria Rilke”.

Un fulmine o l’apparizione di un grande poeta, morto da qualche secolo, non l’avrebbero sconvolta così tanto.

“Ma lo incontro tutti i giorni in albergo! E leggevo con ammirazione i suoi Quaderni, come l’opera di qualcuno che per me sarebbe sempre stato invisibile! Voi lo conoscete di persona? Potete presentarmelo?”. Glielo promisi”[2].

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Immaginatevi una donna di ventitré anni[3] – coetanea di Anita Forrer, a cui Rilke scrisse lunghe e indimenticabili lettere tra il 1920 e il 1923[4] – alta, naturalmente elegante, la voce vibrante. La sua bellezza esotica non passava di certo inosservata all’hotel Savoy:

“Il suo profilo era quello che si vede nelle figure faraoniche delle statue regali d’Egitto: le palpebre brune e cadenti, allungate verso le tempie, sprigionavano uno sguardo intenso e gentile dal fondo dei suoi occhi dorati molto scuri, quasi una pentola magica; il labbro inferiore sporgeva molto leggermente, alla maniera orientale […]”[5].

Suo padre, Achmed-Khaïri Pacha, era stato primo ciambellano del sultano d’Egitto Hussein Kamal. Sposata ad un facoltoso uomo d’affari egiziano, Nimet frequentava la buona società cosmopolita e si spostava tra le città svizzere su una lussuosa decapottabile.

Nimet Eloui Bey fotografata da Lee Miller nel 1930

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Per mantenere fede alla parola data a Nimet, Jaloux interruppe dunque la lettura solitaria di Rilke e gli parlò della giovane egiziana che leggeva con ammirazione il suo Malte. A quel punto, Rilke le fece recapitare un libro o forse solo una lettera, a cui Nimet rispose immediatamente con questo primo biglietto, dalla singolare inflessione straniera (bisogna considerare che la sua lingua madre era l’arabo).

“Losanna, 11 settembre 1926
Signore, l’omaggio che mi avete inviato oggi mi ha incantato. Ma la mia riconoscenza vi è accordata da lungo tempo, giacché M. L. Brigge ha saputo offrirci con chiarezza la sottilissima affermazione della nostra inquietudine diffusa, impersonale e intangibile, e ha saputo parlarci in alto, nell’aria rarefatta, in cui si avventurano, ma solo per tacere o balbettare, tutti i suoi vicini.
Vi sia reso grazie per aver fatto sì che un singolo esempio irradiasse una multipla giustificazione.
Vogliate accettare, Signore, la mia più grande ammirazione, la mia gratitudine e il mio vivo desiderio di conoscervi[6].

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È sorprendente vedere l’influenza che Rilke era riuscito ad esercitare in poco tempo su Nimet attraverso la lettura del Malte: nei suoi brevi giri di parole si coglie appieno la sua comprensione (o meglio, appropriazione) dell’inquietudine mistica che attraversa lo spirito dei Quaderni. Bisogna dire che Nimet era abitata da un profondo senso del mistero, come ci riferisce Jaloux a più riprese: Rilke dovette quindi apparirle come una sorta di taumaturgo, in grado di penetrare la sua sete d’infinito.

Dopo quel primo biglietto, vi furono alcuni incontri e giri in decapottabile, ma i dettagli della loro breve amicizia sono consegnati alla – sacra – sfera dell’ignoto. Ci restano una decina di lettere di Rilke, attraverso le quali siamo trasportati in un altro scrigno della sua monumentale corrispondenza. Fortunatamente Rilke aveva “l’orribile abitudine di conservare le lettere” come ebbe a dire Catherine Pozzi: attraverso questi preziosi frammenti epistolari possiamo così accostarci al grande poeta che si offre limpidamente ad una sollecitazione sincera, alla prospettiva di un contatto congeniale.

Con Nimet è l’Egitto che ritorna a Rilke proprio ai confini della sua vita: un segno di quella vita dello spirito che aveva percepito presso la Sfinge sul Nilo nel 1911 e che verrà rievocata nella Decima Elegia Duinese?[7] Di certo quell’incontro assunse dei contorni mistici per entrambi: quello che vedremo accadere in seguito lo conferma.

Rilke e Nimet si videro per qualche giorno, poi Rilke tornò alla torre di Muzot.

Alla fine di settembre 1926, da Losanna, Nimet andò a trovarlo nella sua torre. Lui raccolse delle rose dal suo giardino per donargliele e si graffiò con una spina[8]. L’infezione alle mani causò un improvviso peggioramento del suo stato di salute, che lui cercò di ignorare finché, il 30 novembre, in preda a dolori atroci, si trovò costretto ad entrare nella clinica di Val-Mont presso il dottor Haemmerli che già lo seguiva da tempo.

Il verdetto arriverà di lì a poco: le spine delle rose, con il loro graffio, svelano l’inesorabilità della malattia che lo aggredisce da tempo: la leucemia è ormai irreversibile.

È singolare ed emblematico che Rilke, nel gesto di omaggiare Nimet con un simbolo di meraviglia, sia graffiato da una spina delle sue stesse rose: i fiori che più amò su questa terra, a cui dedicò un intero ciclo di poesie francesi e che volle scolpiti sulla sua tomba; i fiori che meglio esprimono il doppio volto della natura. Una miracolosa e fugace bellezza – che raggiunge l’apice quando il bocciolo, ancora turgido, si schiude appena – si unisce alla spina, veicolo di morbo e di insidie nascoste; di lì a poco il suo aprirsi pienamente ne preconizza la parabola discendente – eppure l’acuminata guardiana è protezione, per la rosa, a ricordare che contemplare è diverso dal toccare e modificare… Una potente metafora del poeta che tenta di utilizzare la bellezza per rappresentare i suoi pensieri a Nimet e, facendolo, affretta il commiato. Così, il graffio – veicolo di morte – accorcia la percezione del tempo, trasforma il desiderio in urgenza; e pare che la rosa, con la sua spina, chiuda un misterioso cerchio intorno a Rilke.

Come non pensare alla sua lapide nel cimitero di Raron? Qui, ancora oggi, possiamo leggere questa epigrafe – una delle più celebri nella storia della letteratura – scritta sul finire del 1925, con le sue volontà testamentarie: “Rosa/ contraddizione pura, voglia/ di essere il sonno di nessuno/ sotto tante palpebre”[9]. Sempre e di nuovo la rosa; sempre e di nuovo, vita e morte nell’universale interazione del tutto.

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Tra Rilke e Nimet intercorsero messaggi esiziali: a Val-Mont, lei gli inviò dei fiori accompagnati da queste parole: “Con il mio pensiero dove si dispiegano innumerevoli azioni ferventi per voi”. Non poteva certo immaginare che Rilke stava morendo… ma di certo comprese la gravità del suo stato quando ricevette quest’ultima lettera:

“Signora, sì, miseramente, orribilmente e dolorosamente malato, in una misura che non ho mai osato immaginare. È questa sofferenza già anonima, che i medici battezzano, ma dove, lei, si accontenta di insegnarci tre o quattro grida dove la nostra voce non si riconosce più. Lei che era educata alle sfumature!

Niente fiori, Signora, vi prego, la loro presenza eccita i demoni che riempiono la stanza. Ma quello che mi è arrivato con i fiori si aggiungerà alla grazia dell’invisibile. Oh grazie!

(mercoledì)”[10]

*

La vigilia di Natale, a cinque giorni dalla morte di Rilke, Nimet gli scrisse ancora:

“Giovedì, 24 dicembre 1926

Le vostre parole mi hanno riportato il mio Angelo errante; il mio Angelo dal gesto raro, ma saggio, appreso da non so quali fonti di vita. E ricevo in me il segno sicuro di un gesto benefico.

Mi addolora non poter portare a vostra conoscenza certi significati vaghi, ma così felici che mi vengono da una misteriosa convinzione. Non mi stanco di venire a voi con il pensiero di sedurre i demoni con la tranquilla umiltà di cui è piena la mia convinzione.

Non interrompete il vostro riposo per scrivermi. Il vostro silenzio non vi rende meno presente, ve lo assicuro”[11].

Purtroppo, il silenzio divenne definitivo il 29 dicembre 1926: forse nevicava a Val-Mont quando Rilke si spense alle prime ore del mattino… e Nimet fu raggiunta dall’inesorabile, tragica notizia. La morte di Rilke le procurò un grande e profondo dolore – ci riferisce Jaloux – era come se le fosse stata tolta una parte essenziale della sua vita, continuava a parlare di lui: le era necessario farlo.

*

Il dialogo di cui siamo testimoni è quello tra uno dei massimi poeti dell’invisibile al tramonto della sua vita, trasfigurato dal dolore del trapasso che sopravanza, e una giovane donna spontanea, che si affaccia all’esistenza, così coinvolta dal poeta e dal suo messaggio da svilupparne una dipendenza.

Le immagini che li ritraggono concedono una conferma visiva del loro punto d’intersezione. Pare di sentirli vivere ancora, animarsi dagli scatti bicolore e portarci fin qui, inalterato, il vissuto del loro contatto. Cosa vediamo? Lo sguardo di Rilke che l’attraversa, nel tempo in cui lui non è più (vivo) e quello di Nimet, sconsolata, le palpebre cadenti, l’occhio sfuggente, volto altrove, a ricercare il messaggio mistico che Rilke le aveva donato.

*

Si animano in noi mefistofeliche immagini ed esoteriche visioni quando la malattia stringe le mani intorno a Rilke e lui – ormai fusione tra lucidità del genio e folle tremito del corpo che sprofonda nell’abisso – descrive le premonizioni della fine: “Dove lei [la sofferenza anonima che prelude alla morte] si accontenta di insegnarci tre o quattro grida dove la nostra voce non si riconosce più […] Niente fiori, Signora, vi prego, la loro presenza eccita i demoni che riempiono la stanza”.

È poesia dello stato di morte. Quella stessa poesia che, verso la metà di dicembre, sfinito dalla sofferenza fisica, Rilke scrisse sul suo taccuino – il suo ultimo poema – Val Mont:

“Vieni tu, tu ultimo ravvisato,
Tu, insanabile dolore, intramato
ora nel corpo. Un tempo nello spirito,
ecco, in te, sono io ora calcinato;
il legno a lungo s’è opposto
della fiamma ad essere alleato,
che in te avvivi, ma ora
in te io brucio, ti sono a lato.
La mia dolcezza nel tuo furore
si fa furore non di qui, d’inferno.
Salii, nudo, puro, né progetti,
né futuro, sull’intrico
del rogo del dolore.
Certo di non poter comprare
scheggia di futuro per questo cuore,
che d’ogni provvista vuoto
qui si è fatto muto.
Sono ancora io, io che brucio
Ormai qui inconoscibile?
Non vi trascino ricordi.
O vita, vita. Esser-fuori.
E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”[12].

È un corpo a corpo con la propria morte, con l’atto stesso del morire, quasi a materializzare la grande morte maturata nell’intimità, come aveva scritto nel Libro d’Ore, nel Malte e in tanti altri frammenti dell’opera – quella morte indagata e cantata lungo tutta l’opera[13].

In perfetta coerenza con la sua vita di poeta, Rilke dà voce alla morte descrivendo l’atto, in luogo dell’evento: pur di fronte all’abisso, si fa voce dell’atto di vita (meglio: di morte) che si sta compiendo in lui. Siamo arrivati ai confini della vita ma – fino alla fine – Rilke rimane poeta “nelle fenditure di un linguaggio che sembra implodere su se stesso e che però continua a esprimere anche l’inesprimibile[14]. Ora, da quella regione del mondo che congiunge i vivi ai morti, egli saprà che la sua voce – eco delle nostre letture – non si contraddisse neppure lì, in quello stato annebbiato del trapasso: saprà che la sua voce fu limpida e riconoscibile anche quando scrisse la sua ultima poesia, anche quando lanciò quelle “tre o quattro grida” e le descrisse a Nimet.

*

Rainer Maria Rilke visse e morì da poeta e l’incontro con Nimet Eloui Bey pare consegnare la sua fine alla leggenda: l’Egitto e le rose a chiusura di un misterioso cerchio mistico. Nel ripetere silenziosamente le brevi frasi delle ultime lettere di Nimet si intravedono l’equilibrio della logica di Avicenna e la cantilena del muezzin che, dall’alto del minareto, scandisce un verso del Corano all’ora della preghiera serale.

Infinita dolcezza, premura, saggezza e pazienza sgorgano da queste parole: “Non mi stanco di venire a voi con il pensiero di sedurre i demoni con la tranquilla umiltà di cui è piena la mia convinzione. […] Il vostro silenzio non vi rende meno presente, ve lo assicuro”.

È poesia dello stato di vita – in sintonia con lo stato di morte.

*

Avremmo mai potuto trovare parole migliori di quelle usate da Nimet?

Rilke tenta di gridare, scacciare, allontanare, respingere; lei sussurra, accarezza, accompagna: ne scaturisce un istante d’arte assoluta: una poesia dello stato di morte e di vita, che parla a chiunque. Alla sofferenza di chi fronteggia il più tragico degli eventi, l’unica replica possibile è quella che coniuga accoglienza, accettazione e rassicurazione. La divaricazione tra i due momenti interiori è evidente e irrimediabile, ma non inconciliabile: vi è infatti piena consapevolezza della reciproca presenza. Nimet e Rilke sono la creatura vitale e quella morente che si riconoscono l’una nell’altra: la prima intuisce il suo seguito; la seconda ricongiunge la visione della morte (durante la vita) nella morte stessa.  

Il registro espressivo assai distante è parte integrante di questo incontro che si consuma in uno stato di totale comunione. I contenuti e le forme sono così estremi da divenire del tutto complementari. Nella piena vita e nella piena morte la distanza si accorcia: l’urlo diviene voce, il respingimento si fa sfogo, le visioni (dei demoni) sono tumulti e terrore; sulla sponda opposta replicano la rassicurazione dello stato di vita che continua e testimonia del vissuto. L’accettazione del ciclo che si chiude non appartiene pienamente né all’una né all’altro, ma aleggia intorno al capezzale e può essere afferrato da entrambi. La creatura vitale la sfiora osservando la morte e portando il peso dell’assenza; quella morente vi si integra completamente, nello stato incosciente del morire.

*

La morte di Rilke genera in Nimet un vuoto incolmabile, una condizione di profonda solitudine interiore: il suo dolore riecheggia inconsolabile nelle due lettere che scrisse a Nanny Wunderly-Volkart, la più cara amica svizzera di Rilke, la sola che lui volle accanto a sé nel trapasso, quando si rifiutò di vedere chiunque, anche gli affetti più cari.

Il Cairo, 17 marzo 1927

Signora, ho lasciato Losanna senza potervi scrivere per ringraziarvi. Permettetemi di dirvi in ritardo quanto la vostra lettera mi abbia commosso, quanto sia ancora felice di rileggerla e come continui a pensarvi – voi che non conosco, ma che mi sembrate così buona – nella mia tristezza che nulla interrompe.

Se solo sapeste quanto è preziosa la vostra promessa di mandarmi – se potete – una foto del nostro Amico! Non dimenticatela, Signora, ve ne prego; nessuna parola può dirvi il bene che mi fareste. Non posso parlarvi della mia tristezza, che si aggrava col tempo. Mi sembra di non potermi più interessare a nessun essere vivente e che la mia solitudine (questa solitudine essenziale) aumenterà irrimediabilmente per tutta la vita, ora che lui non c’è più.

Come dovete soffrire, voi che avete avuto la felicità di conoscerlo meglio! Signora, se mai fossi in grado di farvi del bene, credete che lo farò con tutto il mio cuore […][15].

 *

“Dok-ki Gizeh, 18 dicembre 1927

 Signora, come dovete pensar male di me, e come posso spiegarle le tante ragioni che mi hanno fatto rimandare per tanti mesi il piacere e il dovere di scrivervi e ringraziarvi! […] Farò tesoro delle due foto che mi sono giunte da voi e vi chiederei di aggiungerne altre! Sono sicura che lo fareste, se sapeste il bene che mi farebbero.

Toccherò sempre, con mani pie, l’immagine che mi avete mandato. Non passa giorno, Signora, in cui non pensi a lungo a lui, per adorare il suo luminoso ricordo e per soffrire della sua assenza definitiva, questa assenza dove nulla mi consola […][16].

*

Le parole di Nimet sono eloquenti: “Mi sembra di non potermi più interessare a nessun essere vivente […] ora che lui non c’è più”, “un’assenza dove nulla mi consola”.

Nella loro semplicità, le sue lettere parlano di un profondo attaccamento fiorito con la lettura dell’opera, consolidato con l’incontro personale e sprofondato in un sordo silenzio in seguito alla scomparsa del poeta. Un colpo letale, per lei, la morte di Rilke; non si riprese mai del tutto, dice Jaloux. Non si muoveva senza portare con sé le sue lettere, in una piccola borsa di stoffa, dalla quale non si separava mai. I Quaderni di Malte Laurids Brigge erano sempre con lei. Voleva essere informata su tutte le pubblicazioni di Rilke, per leggerle subito.

Rilke la illuminò nelle ore gravi della sua vita “E tutto mi permette di supporre”, conclude Jaloux, “che nei tragici momenti della sua morte [avvenuta nel 1943] non l’abbia mai abbandonata”[17].

Riccardo Peratoner e Marilena Garis


[1] Edmond Jaloux, La Dernière Amitié de Rainer Maria Rilke, suivi des lettres à Nimet Eloui Bey et Les derniers mois de Rilke, par Genia Tchernosvitow, Arfuyen, 2023, riedizione dell’omonimo testo di Jaloux pubblicato da Laffont nel 1949, inedito in italiano

[2] Ibidem, p. 48

[3] Catherine Sauvat, Rilke. Une existence vagabonde, Fayard, 2016, pp.7-8

[4] Rainer Maria Rilke, Anita Forrer, Briefwechsel, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1982

[5] Edmond Jaloux, La Dernière Amitié de Rainer Maria Rilke, cit., p. 44

[6] Ibidem, p. 49

[7]Quando l’anziana lamentazione accompagna il giovane morto per l’Ade: “Ma quando cala la notte più sommessi camminano, e presto/ si leva la luna, il mausoleo che veglia/ su tutto. Fratello all’altro sul Nilo,/ la Sfinge sublime –: del segreto ipogeo/ il volto./ Ed essi stupiscono del capo regale, silente/ che ha posto per sempre il viso dell’uomo/ sulla libra che è delle stelle”. Rainer Maria Rilke, Poesie 1907- 1926, a cura di Andreina Lavagetto, Einaudi, Torino, 2000, pp. 329, 331. L’interesse di Rilke per la cultura dell’antico Egitto durò tutta la vita: studiò a fondo i simboli del mondo egiziano e nelle sue ricerche consultò egittologi di valore. Della civiltà egizia lo affascinava il fatto che fosse del tutto incentrata sull’al di là, di casa nella grande unità delle due dimensioni: visibile e invisibile, umano e sublime. 

[8] Catherine Sauvat, Rilke. Une existence vagabonde, cit., p. 8

[9] Dal tedesco “Rose, oh reiner Widerspruch,/Lust /Niemandes Schlaf zu sein/ unter soviel Lidern”. “Lidern” significa “palpebre” e si pronuncia quasi quasi come “Lieder” che significa invece “versi, canti”. Rainer Maria Rilke, Le rose, traduzione di Sabrina Mori Carmignani,Passigli, Bagno a Ripoli (Fi), 2010, p. 7

[10] Edmond Jaloux, La Dernière Amitié de Rainer Maria Rilke, cit., p. 89

[11] Ibidem, p. 51

[12] Rainer Maria Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, a cura di Franco Rella, De Piante, Milano, 2022, p. 94

[13] L’abbraccio con il dolore e con la morte, intesa come l’altro lato della vita, è uno dei cardini del suo pensiero, cardine posto alla base delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo: “Affermazione della vita e della morte sono mia sola cosa nelle «Elegie». Ammettere l’una senza l’altra è […] una limitazione che esclude definitivamente tutto l’infinito. La morte è il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi: noi dobbiamo tentare di attuare la più grande coscienza della nostra esistenza, che è di casa nei due regni indelimitati, nutrita inesauribilmente da tutti e due… La vera figura della vita si stende attraverso i due regni, traverso ambedue muove il sangue del più grande circolo: non c’è un aldiquà né un aldilà, ma la grande unità, in cui dimorano gli esseri che ci superano, gli «angeli». Lettera del 13 novembre 1925 indirizzata a Witold von Hulewicz in Rainer Maria Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile, cit., pp. 78-79

[14] Ibidem, p. 120

[15] Edmond Jaloux, La Dernière Amitié de Rainer Maria Rilke, cit., p. 52-53

[16] Ibidem, p. 53-54

[17] Ibidem, p. 55 

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