15 Maggio 2023

Rainer Maria Rilke: il poeta che ha scritto la morte per celebrare la vita

Scrivere la morte. La morte che ognuno custodisce dentro di sé, la morte che sopraggiunge dalla sua segreta dimora, il frutto avvelenato che impariamo ad assaporare giorno per giorno, l’ordine supremo, la maschera, sibillina, che ci storpia in paura e lamento.

Rilke ha scritto e vissuto la morte ogni giorno in cui è stato vivo, convinto della contiguità dei due regni, poiché la vita, come la luna, ha un volto in perpetua invisibilità, che non si pone in contrasto con l’altro, il manifesto, ma ne completa l’esperienza, in quella costellazione perfettamente intatta che è l’Essere (lettera a Margot Sizzo-Noris-Crouy, 6 gennaio 1923, in Sa vie est passée dans la vôtre – Lettres sur le deuil, Rainer Maria Rilke, 2022, ed. Les Belles Lettres).

La morte, dunque, per il poeta praghese, è volto in filigrana, figura compiuta dell’invisibile. In questo senso – che ai più sfugge per consuetudine al terrore della perdita – Rilke, nel corso della sua folgorante vita, rincorre il regno del crepuscolo, cerca di codificarne e delinearne le sembianze, banditi sentimentalismi ed etichette religiose.

Un anno prima di morire dilaniato dalla leucemia, dietro invito del suo traduttore polacco, Witold von Hulewicz, il poeta s’inerpica in una speculazione sulle Elegie e sui Sonetti, coagulando gli assunti attorno al solo senso traducibile: il destino delle creature umane si compie lungo il processo di metamorfosi del visibile nell’invisibile; e il compimento avviene quando il tempo cade e ci si ritrova nell’Uno, dopo essersi lasciati imprimere dalla terra, da ogni sua cosa, nella tristezza e nella gioia, con passione e dolore, per farla risorgere in noi, rinnovato corpo impercettibile (lettera del 13 novembre 1925, in Poesie e Prose, Rainer Maria Rilke, 1992, Le Lettere).

Cosa sappiamo, d’altronde, della vibrazione della materia nell’universo?, si domanda Rilke in questa lettera che contiene, in definitiva, tutta la sua poetica. Cosa, di questo vivere in contiguità con costellazioni e nebulose, e cosa, delle interazioni energetiche? Anticipando in punta di spirito l’ormai nota equazione di Dirac, il poeta sente che la risposta dimora nel tutto, ossia nell’Uno: noi esseri umani non possiamo che attenerci al nostro destino di interazione creatrice, di compartecipazione all’invisibile, compito che si traduce nella salvaguardia di ogni bene, che è orrore e luce, e attinge tanto alla propria essenza, quanto all’al di là. In questo contesto, colui che muore, ciò che muore, subisce una metamorfosi che è ipso facto creazione, integrazione del passato nel presente.

Nell’evocazione metafisica di un universo latente e incorporale, Rilke non rimanda alla visione cristiana di al di là e di morte; da essa, anzi, come confessa nella menzionata lettera a von Hulewicz, si allontana sempre di più, per il rischio che, al cospetto della perdita dell’essere amato, quest’ultimo finisca per occupare un posto inafferrabile, e venga percepito come meno concreto di quanto non sia in verità, risultando, in ultima analisi, pressoché inaccessibile. Per il poeta, in effetti, il concetto cattolico di al di là ingenera un desiderio che allontana dall’hic et nunc, dalla terrestrità, alla quale, invece, dobbiamo restare ancorati sino a quando ci è dato di esser qui, vivi, e apparentati a ogni cosa.

Dunque, per affrontare la morte dobbiamo vivere e farlo autenticamente, nominando le cose nella loro interezza, includendo nel nostro cammino ogni esperienza in tutta la sua densità, poiché la pura esistenza nell’hic et nunc è parte di quell’universo più vasto che il poeta definisce l’Invisibile, l’Aperto. E se l’invisibile altro non è che un grado superiore della realtà, allora è possibile rivendicare chi abbiamo perso come facente ancora parte di noi, accettare una sofferenza che si faccia attiva, innescando il processo di trasformazione dal manifesto all’incorporale.

In tal modo, il poeta cerca non già una consolazione dinanzi alla perdita – consolazione che si rivelerebbe effimera diversione – ma nella morte prova a ritrovare la vita, nella sua forma più compiuta e reale, presenza ipostatizzata dei due regni. Egli riesce a scrivere, sulla morte, parole di vita, quando rivolge lettere di condoglianze ad amici in pena, alcune delle quali raccolte nelle citate Lettres sur le deuil. Lettere luminose, nient’affatto consolatorie, eppure partecipate, colme di affetto, di consapevolezza, semi di coraggio deposti con amore in grembo a chi sta soffrendo. Rilke stesso, d’altronde, teme la perdita di chi ama e, come confessa alla contessa Sizzo-Noris-Crouy, da piccino, paventava in particolare la morte del padre, al punto che gli pareva di svenire quando se ne raffigurava l’evenienza. Tuttavia, questo timore non gli ha impedito di accogliere e realizzare il prodigio del proprio destino: indagare la morte come esigente alleata del compimento dell’Essere, e divenire egli stesso l’Orfeo che nei Sonetti incitaa penetrare e a sgorgare dalla metamorfosi.

Ecco come, con parole soppesate, Rilke si accosta a un’amica in lutto (lettera a Margot Sizzo-Noris-Crouy, 6 gennaio 1923, in op. cit.):

“Non dovremmo temere di non essere abbastanza forti per sopportare l’esperienza della morte, persino la più intima, la più terribile. La morte non è al di là delle nostre forze, essa resta il più profondo dei tagli incisi sul fianco del vascello. Siamo colmi ogni volta che a essa perveniamo ed essere colmi significa (per noi) comprendere che sarà gravosa da sopportare… è tutto. – Non voglio dire che dobbiamo amare la morte. Dobbiamo, anzi, generosmente amare la vita, senza far calcoli o scelte, senza escludere la morte (questa metà a noi invisibile della vita). È persino concepibile che essa ci sia infinitamente più prossima della vita stessa… Cosa sappiamo in fondo d’essa?! [omissis…] …il nostro sforzo, credo, può avere un fine soltanto: farci accettare e assumere l’unità della vita e della morte, e soprattutto, convincercene”.

Arduo, dunque, è esistere accanto alla morte; il poeta non lo nega nelle lettere, lo verifica, anzi, nella vita, e con ardore ne fa apogeo nelle Elegie e nei Sonetti. Egli si sente addirittura investito della missione di riabilitare la dipartita dai pregiudizi che su di essa pesano e che ci inducono a distogliere lo sguardo. Guardare la morte con coscienza significa afferrarne la vita, come fa l’Angelo di cui il poeta afferma la presenza, l’Angelo che dice sì e offre un viso radioso alla morte (lettera a Catherine Pozzi, 21 agosto 1924, op. cit.). Invero, se il trapasso è per noi il fardello di una condanna sospesa, dramma di un’evenienza che rapisce chi amiamo, così non è per gli Angeli, indifferenti alla dicotomia fra vita e morte, e per questo tremendi, per questo da Rilke tragicamente invocati e poi respiti, e poi ancora abbracciati. Nondimeno, il poeta si rivela presto predestinata figura serafica, e comprende quanto la morte sia profondamente ancorata all’amore, a condizione che se ne conosca la vera essenza, epurata dai sospetti. Infatti, soltanto se alimentiamo avidamente il nostro mondo interiore, l’assenza volge in luce, perde i tratti crudi e feroci, per lasciar spazio alla tenerezza dell’amore. Quell’amore che ha un corpo solo, infrangibile poiché intriso del nitore di un Essere completo. E non occorre, come fanno le religioni, agghindare la morte in mussola, impiastrarne il volto di belletti, poiché in tal modo si impedisce all’uomo di accedere all’esperienza di profonda tenerezza creatrice che può compiersi nel solo luogo in cui tutte le polarità si annullano: il nostro cuore, limpido e nudo, esposto all’infinito.

Ma come fare per affrontare il precipizio dell’eterna scomparsa di chi amiamo? Rilke non suggerisce soluzioni, ci invita semmai a riscoprire la relazione con la natura, il solo nucleo solido ed essenziale al quale possiamo ancorarci senza scivolare, ci invita a dirigere lo sguardo lontano, verso l’ignoto; poiché così facendo, saremo in grado di agire, tramutandolo, sull’istante presente e su quello a venire, e potremo, in ultima analisi, riadattare e reintegrare in noi il passato (lettera a Adelheid Franziska von der Marwitz, 11 settembre 1919, op. cit.). Dopo tutto, i nostri sensi sono il dono che ci permette di maneggiare il reale, il nostro corpo è concepito per lasciarsi trasmutare da ogni interazione col mondo sensibile, con le emozioni che da esso scaturiscono, lancinanti o estatiche che siano. Non possiamo escludere il potere vitale della sofferenza che si dissolve nel sangue quando perdiamo chi amiamo, poiché tale sofferenza ci spinge a ridosso del versante più profondo della vita: la vita nonostante la morte, la vita che circola nel corpo in guisa di dolore, martirio di palingenesi.

Occorre, insomma, esplorare il buio, il fondiglio oscuro sul quale riposa lo Spirito, che si risveglia e ci sommerge ogni volta che il limite dell’hic et nunc viene sorpassato, quando ci sentiamo, allo stesso tempo, vivi e morti (lettera a Adelheid Franziska von der Marwitz cit.). Occorre, in definitiva, avere fede nell’orribile, affondarvi senza il timore di esserne invasi, poiché, prima o dopo, esso ci rivelerà qualcosa, rendendoci protagonisti di una sorta di iniziazione; il trapasso, del resto, “non è che lo strumento implacabile che ci permette di familiarizzare con la parte sconosciuta della nostra esistenza e di farci entrare nella sua intimità”(lettera alla contessa Alexandrine Elise Klara Antonia von Schwein, 16 giugno 1922, op. cit.). Al contrario, proscrivere la morte, allontanarsene, bandirla dai pensieri e dall’estetica del vivere significa rassegnarsi ad averla accanto come presenza sconosciuta, informe nel buio dell’incoscienza, e, dunque, spaventosa. La morte secondo il poeta è irrinunciabile opportunità, dolore che non va dissipato, ma sfruttato, fatto proprio, mischiato al sangue, per sconfinare nel compimento cui siamo per destino vocati (lettera a Mimi Romanelli, 8 dicembre 1907, op. cit.). 

Imparare a morire, ogni giorno, senza timore, presuppone che si viva l’hic et nunc senza remore, in costante tensione verso l’Aperto, con la consapevolezza della sua ineffabilità, eppure dischiusi allo spazio interiore del mondo (Weltinnenraum), in cui l’intimità di ogni cosa fluisce in un inarrestabile, libero scambio, non già tendente alla fusione, ma all’affermazione della pura forza dell’indeterminato (Maurice Blanchot, Lo spazio letterario).

“Qui tra color che passano, sii, nel regno del declino
un cristallo che suona e che nel suono già s’infranse. 
Sii – e sappi anche la condizione del Non-Essere”

(Sonetto XIII, parte II, traduzione di Franco Rella, in I sonetti a Orfeo, Feltrinelli)

È, infine, nella caducità, nella consapevolezza che di essa possediamo, e nel suo intrecciarsi con la vita, che si spalanca il regno del possibile (già invocato da Hölderlin), un regno nel quale la solitudine ingenerata dalla perdita può convivere in totale armonia con altre infinite solitudini, facendo così acquistare alla vita una nuova dimensione, quella dell’ammaraggio nel sentimento più puro dell’unità. Ecco, Rilke declina la morte di chi amiamo come vita che passa in un’altra vita, affinché quest’ultima compia il più nobile destino della prima ormai scomparsa, un destino che è amore, l’amore non più soggiogato dal fraintendimento dell’immanenza, ma dimorante in noi, candido e sorgivo, repellente al malinteso, inamovibile e immutabile, in definitiva, assoluto, come lo spazio infinito della vita.

Maura Baldini

Gruppo MAGOG