Sia lode a Sainte-Beuve, un antidoto all’odierno impero del politicamente corretto
Cultura generale
Alessio Magaddino
Nel giugno del 1919, Rainer Maria Rilke lascia la Germania per recarsi in Svizzera, a Zurigo, dove sono programmate alcune letture pubbliche della sua opera che lo porteranno anche a Saint-Gall. Qui, il 7 novembre 1919, presenta una serie di testi, tra cui, La Pantera e Il Carosello. Ed è qui che una giovane donna, ascoltando i suoi versi, rimane folgorata. Qualche settimana dopo, il 2 gennaio 1920, impugna la penna e gli esprime la sua ammirazione. Si chiama Anita Forrer, ha diciott’anni, e appartiene ad una famiglia benestante della buona borghesia svizzera. Suo padre, l’avvocato Robert Forrer, è un politico in vista di Saint-Gall, nonché consigliere d’amministrazione di varie società locali.
Colpito dal tono semplice e sincero della giovane svizzera, Rilke le risponde qualche giorno dopo e la ringrazia affettuosamente. Ha così inizio un epistolario commovente nel quale Rilke non esita ad assumere il ruolo di “maestro” che Anita gli attribuisce e va incontro ai tormenti di questa giovane donna severamente educata, ma dotata di un’intelligenza vivace e ricca di sensibilità.
Il dialogo con Anita pare quasi il prolungamento delle dieci lettere a Franz Xaver Kappus, allievo dell’accademia militare di Wiener-Neustadt, che scriveva poesie e gli chiedeva consigli, universalmente note come Lettere ad un giovane poeta, che Rilke scrisse tra il 1903 e il 1908 – tra i ventotto e i trentatré anni. Molti sono i parallelismi che emergono in filigrana tra i due scambi epistolari, ma il tono didascalico, con Anita, è ancora più toccante, tenendo conto che la giovane, all’epoca del carteggio, aveva la stessa età di Ruth, la figlia di Rilke. Anche il contesto è diverso: nel 1920, Rilke non è più quel poeta di trent’anni che additava a Kappus la montagna dell’arte, è ormai un artista conosciuto e ammirato per la sua opera; ha quarantacinque anni, è profondamente segnato dal prolungato silenzio inflittogli dai terribili anni della Prima guerra mondiale, ma è determinato a trovare le condizioni per poter realizzare la sua opera maggiore, quella che supererà tutte le precedenti. È alla ricerca di un rifugio che gli conceda la beatitudine del raccoglimento interiore. Alla fine lo troverà tra le mura del castello di Muzot, piccola torre medievale vicino a Sierre, in Svizzera, nel canton Vallese, dove sgorgheranno d’assalto, in soli venti giorni, le Elegie duinesi e I sonetti a Orfeo e dove Anita gli invierà molte delle sue lettere.
La settantina di missive di cui si compone l’epistolario con Anita Forrer [1] non conobbe tuttavia lo straordinario successo toccato alle lettere a Kappus: fu pubblicata da Insel solo nel 1982 per la cura di Magda Kerényi. L’edizione tedesca conobbe una sola ristampa, poi caduta inspiegabilmente nell’oblio. Non si può che esserne sorpresi: siamo di fronte a pagine illuminate e illuminanti dove il Rilke della maturità cerca di orientare la giovane Anita e a liberarla dalla dipendenza alle convenzioni sociali che la opprimono, per esortarla a prendere in mano il proprio destino. Risponde con infinita sensibilità alle sue domande più intime; esprime un parere critico ed autorevole sulle correnti intellettuali e spirituali dell’epoca, come la teosofia; orienta le sue letture verso grandi opere letterarie, come I fiori del male di Baudelaire e la Corrispondenza di Goethe con una bambina di Bettina von Arnim; la esorta a coltivare la gioia e ad aprirsi alle potenzialità dell’esistenza.
Tra le righe – con il suo udito finissimo – Rilke comprende la sua attrazione per le donne [2] e sente tutta la sua sofferenza: il 2 febbraio 1920 le rivolge una lettera che è un capolavoro di empatia, nella quale annovera l’amore omosessuale tra le forme naturali di attrazione tra due esseri umani, testimonianza di una sensibilità superiore, vigile e lucida, di un’anima che non perde il contatto con se stessa, con il dolore e con il grande compito dell’amore. Mai.
*
Locarno (Ticino)
Pensione Villa Muralto,
2 febbraio 1920
Ascolti, Anita, si liberi di questo fardello dall’oggi al domani, subito, non c’è nulla di più semplice di questo, perché non c’è il minimo peso di colpa né di oscenità in ciò che (lei) porta con sé: ciò che è pesante sta molto di più in questo qualcosa che nessuno ancora ha superato, e non creda: nessuno, neppure il migliore e più sicuro degli uomini, quando non si protegge con scrupoli morali (che certamente non hanno alcuna applicazione nel cuore più intimo della vita), può evitare simili tormenti su questa terra (in particolare durante gli anni di transizione). Ora, questo è ciò che conta per questi tormenti: ciò che resta determinante per tutte le trasformazioni da essere umano ad essere umano è che non si deve mai guardare e valutare una relazione nelle sue peculiarità dall’esterno: ciò che due persone hanno desiderato donarsi ed accordarsi l’uno all’altro nella loro profonda sincerità rimane sempre un segreto della loro intima fiducia, quella fiducia che è unica e indescrivibile per ogni relazione. Se i due pensassero ad un certo punto di poter, in un modo o nell’altro, colmarsi ancora più teneramente, potrebbe essere un errore, se così facendo non fossero al servizio della loro felicità, ma piuttosto del loro desiderio, allora potrebbero inocularsi nel sangue delle inquietudini che, a posteriori, verrebbero ad opprimerli – forse, ma chi decide questo? Forse era anche giusto il loro abbandono così indescrivibilmente innocente, come tutto ciò che, nell’amore, nasce dal puro bisogno e dall’impossibilità di fare altrimenti – nessuno dovrebbe azzardarsi a giudicare dall’esterno ciò che è accaduto lì; un tale stupore e una tale gioia, così vasti, possono far emergere un momento di pura trasformazione spirituale, e mentre si credeva di fare una nuova esperienza nel cuore di ciò che si chiama sensualità, forse si era già completamente nel progresso dell’anima, che così forse si deliziava.
Tutte queste cose, Anita, sono così misteriosamente collegate, per questo dobbiamo affrontare queste forze con sola umiltà, ciò che vi resiste è l’innocenza stessa che rimane indistruttibile in noi, a condizione che non ci lasciamo convincere della nostra colpevolezza. Le confusioni e le incertezze su questo argomento hanno così terribilmente preso il sopravvento ai giorni nostri; in effetti, un giovane che si affaccia alla vita non ha quasi mai il consigliere e il protettore di cui avrebbe bisogno, non lo trova nemmeno nella propria madre (disorientata come tutti), e per questo è così importante orientarsi secondo la propria innocenza, rimanendo imperturbabili e fiduciosi. Persone ragionevoli stanno lavorando da tempo per dissipare gli sgradevoli sospetti che pesano sulle relazioni amorose all’interno dello stesso sesso e di cui le convenzioni le hanno gravate – ma anche questo lavoro e questa visione delle cose non mi sembrano essere quelli giusti. Isolano un processo che si dovrebbe prendere in considerazione solo in relazione alle sue molteplici dimensioni, trasformano una particolarità infinitamente singolare in qualcosa di generale, anzi di piuttosto banale, solo perché questo può accadere a tutti, alla fine ne considerano solo la componente fisica e dimenticano in quali eccelsi contesti irraggiungibili è impegnata questa cosa unica (che è definibile solo in apparenza). Non sappiamo cosa sia il centro di una relazione amorosa, il suo punto più estremo, insormontabile e felice: a volte questo centro sarà forse concesso nell’ultima e più dolce intimità dei corpi (ugualmente tra donne), e nessuno può esserne giudice, se non l’implicita responsabilità delle stesse persone che si amano e gioiscono. Non è questo modo di offrirsi l’un l’altro che rischierebbe di smarrirli, ma tutt’al più l’incertezza di sapere se stanno procedendo veramente verso una crescita continua, perché spingersi reciprocamente in quella direzione costituisce l’autentico piacere e desiderio dell’amore. Se invece dovesse nascere tra loro qualcosa che li rende reciprocamente più pesanti, più scontrosi, più opachi, allora sbaglierebbero ad avventurarsi in questi abbandoni, allora vi sarebbe il pericolo che rimangano in qualche modo impantanati in se stessi. Perché nessuna tenerezza d’amore ha il diritto di prendere potere sull’amore stesso, nessuna tenerezza ha il diritto di imporsi con la violenza della cieca ripetizione, un nuovo amore deve nascere incessantemente dalla natura inesauribile del sentimento.
La «colpa» (bisogna usare con parsimonia questa espressione) è tutt’al più dalla parte del medico che le ha spiegato queste cose, perché questo «chiarimento» non è altro che misurare l’innocenza alla luce della colpevolezza! Ora, propriamente parlando, questa non si rivolge che alla ragione e, suo tramite, alla coscienza: nessun «chiarimento» penetra nel vero alveo dell’innocenza, è lì che dimora una notte santa e oscura – rimanga lì, Anita, povera Anita, resti nell’innocenza. E che la sua determinazione sia tale: mai considerare un dettaglio o una manifestazione dell’amore al di fuori del sentimento da cui è emerso – questa è allo stesso tempo la protezione più efficace contro ogni sofferenza – questo è ciò che l’amore tutto intero insegna sempre a pensare e a compiere [3], in esso non c’è nulla che possa essere separato: in esso l’anima è il corpo, e il corpo è l’anima, e la sua beatitudine ha luoghi e strumenti infiniti, e nessuno domina l’altro.
Rainer [4]
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È sorprendente come un grande artista riesca ad estraniarsi dalle proprie ombre interiori per osservare quelle degli altri. Anzi: per comprenderle meglio delle proprie. C’è sempre una profonda attenzione e comprensione in quello che Rilke dice e scrive. Ogni suo frammento epistolare [5] trasuda fiducia e compassione.
Cosa rappresentò per Anita quella lettera del 2 febbraio? Un potentissimo raggio di sole l’avrà attraversata mentre leggeva quelle parole… Indescrivibile fu il suo sollievo, commovente la sua risposta.
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Dufourstrasse 79
[Saint-Gall]
4 febbraio 1920
Caro Rainer,
Per una volta vorrei saper fare qualcosa perfettamente: ringraziarla! Ringraziarla forse come non si ringrazia a parole, ma forse come un malato che non può muoversi ringrazia con gli occhi nei quali si intravede qualcosa del tutto personale e sconosciuto. (…)
Sua Anita [6]
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A molti anni di distanza, a più di ottant’anni, Anita confidò a Magda Kerényi [7] che le lettere di Rilke ebbero il potere di liberarla dal fardello di sofferenza che portava sulle spalle, aprendole spazi spirituali insperati. Mai dimenticò il monito del suo maestro: “Bisogna pur reggerlo, Anita, questo cuore così grande, così difficile da usare” [8] e le sue preziose lezioni di vita.
Anita visse e operò nell’ombra, sia nella sua vita amorosa che professionale. Divenne grafologa e alla fine degli anni Trenta visse con la celebre scrittrice e fotografa svizzera Annemarie Schwarzenbach, di cui sarà esecutrice testamentaria.
Nel gennaio 2021, il suo nome è associato per la prima volta alle attività che avrebbe svolto per conto dei servizi segreti americani durante la Seconda guerra mondiale; una missione segreta legata alla lotta contro il regime nazista.
Alla fine della guerra tornò in Svizzera e visse tra il Ticino e l’Engadina. Trascorse i suoi giorni nel villaggio di Sils, luogo di ispirazione di molti pensatori e scrittori (tra cui Friedrich Nietzsche). Contribuì anche a fondarvi la piccola «Biblioteca Engiadinaisa», dove è conservato ancora oggi l’esemplare dei Fiori del Male, che Rilke le regalò per il suo ventesimo compleanno.
Anita ebbe una lunga vita; morì nel 1996, a novantacinque anni. Fu generoso da parte sua affidare l’insieme di questa corrispondenza, così intima e personale, agli archivi Rilke, comprendendo che quelle pagine che avevano illuminato la sua esistenza avrebbero potuto recare un prezioso aiuto ad altri esseri umani. Le lettere che scambiò con Rilke furono, per sua stessa ammissione, assolutamente determinanti nella sua traiettoria di vita e nella formazione del suo mondo interiore: dirà che «ciò che Rilke le aveva donato le era entrato nel sangue» [9]
*La scelta delle lettere, la traduzione e il commento sono di Marilena Garis
[1] Ventisei sono le lettere di Rilke ad Anita, scritte tra il 1920 e il 1923. Due furono i loro incontri: il primo nel 1923 e il secondo qualche mese prima della morte di Rilke, nel 1926.
[2] Con ellittico riserbo, dopo alcune lettere iniziali, Anita gli racconta di essere stata a Zurigo presso la clinica di uno psichiatra, dove la sua famiglia l’aveva indirizzata per curare un’infezione da colibacillo, infezione che lo psichiatra ricondusse a problemi psicosomatici (la non confessata omosessualità). Dolenti sono le sue allusioni ai terribili “chiarimenti” a cui venne sottoposta da quel medico e alla conseguente rottura dell’amicizia che la legava ad una giovane studentessa, sua compagna di studi.
[3] I lettori che hanno familiarità con l’opera e la corrispondenza di Rilke non mancheranno di ritrovare in questa formula tipicamente rilkiana del “compiere l’amore” gli echi del Malte e delle celebri Lettere ad un giovane poeta. A ventinove anni, all’indomani del suo (brevissimo) matrimonio con Clara Westhoff, scultrice, allieva del grande Auguste Rodin, già scriveva: “Le istanze che il difficile lavoro dell’amore pone al nostro sviluppo sono smisuratamente grandi, e noi, da principianti, non siamo all’altezza. Ma se resistiamo e prendiamo su di noi questo amore come fardello e tirocinio, invece di perderci in tutto quel gioco frivolo e lieve dietro cui gli uomini hanno eluso la più seria serietà della loro esistenza, allora forse un piccolo progresso e un certo sollievo saranno percettibili a coloro che verranno molto dopo di noi; sarebbe molto (…) Questo progresso trasformerà (…) l’esperienza dell’amore, che adesso è piena di errore, la cambierà dalla radice, la muterà in una relazione che è intesa da uomo a uomo, non più da maschio a femmina. E questo amore più umano (che si compirà infinitamente attento e lieve, e buono e chiaro nel legare e sciogliere) somiglierà a quello che noi lottando e con fatica andiamo preparando, l’amore che consiste in questo: che due solitudini si proteggano, si limitino e si inchinino l’una innanzi all’altra” Lettera a Kappus del 14 maggio 1904 in Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, a cura di Marina Bistolfi, Mondadori, Milano, 2016.
[4] Traduzione Lettera ad Anita Forrer del 2 febbraio 1920 in Rainer Maria Rilke, Anita Forrer, Briefwechsel, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1982. Nel 2021 l’epistolario è stato tradotto in francese: Rainer Maria Rilke, Lettres à une jeune poétesse, a cura di Jeanne Wagner e Alexandre Patou, Editions Bouquins, Paris, 2021. L’edizione francese riporta fedelmente la cura di Magda Kerényi, con un ricco apparato di note ad integrare i più recenti contributi della ricerca rilkiana.
[5] L’epistolario rilkiano è monumentale (si contano ad oggi oltre 10.000 lettere). Una lettera a Baladine Klossowska, sul finire del 1920, può forse esemplificarne le dimensioni: “Ora ho pressoché terminato tutti i lavori preliminari, vale a dire che ho posto rimedio ai ritardi atroci della mia corrispondenza: pensate (le ho appena contate questa mattina), ho scritto 115 lettere (…) non una che sia inferiore alle quattro pagine e mole che ne contano otto o addirittura dodici, d’una scrittura fittissima (Naturalmente non considero nel numero tutto quanto è partito alla vostra volta: quello non è scrivere, è respirare attraverso la penna)”. Lettera a Baladine Klossowska del 16 dicembre 1920 in Rainer Maria Rilke, Lettere a Merline, tradotte da Francesco Bruno, con prefazione di Enzo Restagno, Rosellina Archinto, Milano, 2015.
[6] Traduzione parziale Lettera di Anita Forrer a Rilke del 4 febbraio in Rainer Maria Rilke, Anita Forrer, Briefwechsel, op.cit.
[7] Le informazioni biobibliografiche stono state tratte dalla Postfazione, a cura di Jeanne Wagner e Alexandre Pateau, all’edizione francese Rainer Maria Rilke, Lettres à une jeune poétesse, op.cit.,pp. 233 ss. In ibidem, interessante è altresì la nota 1 a pagina 228: nel 1929 Anita si trasferì a Parigi, dove trascorse alcuni anni lavorando in una galleria d’arte. In seguito, assunse la direzione della filiale lucernese della società Bernheimer di Monaco, operativa nel commercio antiquario e partecipò alle lezioni tenute da Heinrich Wölfflin all’Università di Zurigo. Negli anni ’30, visse per qualche tempo a Bothmar, sulle alture di Malans. In questo periodo sposò un avvocato svizzero. Dopo il divorzio, riprese il suo cognome da nubile e si dedicò principalmente alla madre malata, che si spense nel 1937. Nella primavera dello stesso anno, Anita partì per gli Stati Uniti e si recò da sua sorella e suo marito, Arnold Wolfers, allora professore all’Università di Yale. Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, si impegnò nel Motor Corps della Croce Rossa americana. Nel 1946, rientrò in Svizzera e si trasferì nel Ticino, dove ottenne il diploma della Società svizzera dei grafologi.
[8] Lettera del 29 novembre 1920 in Rainer Maria Rilke, Anita Forrer, Briefwechsel, op.cit.
[9] “Anita Forrer errinert sich zurück” (“Anita Forrer si ricorda”), articolo pubblicato sul quotidiano St. Galler Tagblatt, 11 marzo 1982