05 Novembre 2023

“Il difficile lavoro dell’amore”. L’educazione sentimentale secondo Rilke

A ventinove anni, all’indomani del suo matrimonio con Clara Westhoff, scultrice, allieva del grande Auguste Rodin, Rilke scriveva:

“Le istanze che il difficile lavoro dell’amore pone al nostro sviluppo sono smisuratamente grandi, e noi, da principianti, non siamo all’altezza. Ma se resistiamo e prendiamo su di noi questo amore come fardello e tirocinio, invece di perderci in tutto quel gioco frivolo e lieve dietro cui gli uomini hanno eluso la più seria serietà della loro esistenza, allora forse un piccolo progresso e un certo sollievo saranno percettibili a coloro che verranno molto dopo di noi; sarebbe molto […] Questo progresso trasformerà […] l’esperienza dell’amore, che adesso è piena di errore, la cambierà dalla radice, la muterà in una relazione che è intesa da uomo a uomo, non più da maschio a femmina. E questo amore più umano (che si compirà infinitamente attento e lieve, e buono e chiaro nel legare e sciogliere) somiglierà a quello che noi lottando e con fatica andiamo preparando, l’amore che consiste in questo: che due solitudini si proteggano, si limitino e si inchinino l’una innanzi all’altra”. 

(Lettera a Kappus del 14 maggio 1904)

Il tema rilkiano del grande “compito dell’amore” tra due esseri umani – e non già tra maschio e femmina – sarà continuamente ripreso nell’opera e nei copiosi epistolari. Ne ritroviamo gli echi nella prosa lirica dei Quaderni di Malte Laurids Brigge (1910) dove Rilke pone sulle vette l’amore della donna, talvolta destinata ad una luce di emozioni blindate dall’oscurità, nascosta al mondo per secoli:

“Per secoli l’amore è stato tutto opera loro [delle donne], hanno sempre recitato l’intero dialogo, entrambe le parti. Perché l’uomo si limitava a ripetere, e male. E rendeva il loro insegnamento difficile con la sua distrazione, con la sua negligenza, con la sua gelosia, che era pure una forma di negligenza. Ma esse hanno perseverato giorno e notte, crescendo in amore e in miseria. E da loro sono uscite, sotto la pressione di pene infinite, amanti possenti che, mentre chiamavano l’uomo, lo superavano; che si alzavano sopra di lui, quando non tornava […] Donne incinte che non avevano mai voluto esserlo, e che quando infine morivano all’ottavo parto, avevano i gesti e la levità di fanciulle felici di conoscere l’amore. E quelle rimaste accanto a pazzi e a ubriaconi, perché avevano trovato il modo di essere dentro di sé tanto lontane da essi, come in nessun luogo; e quando erano in mezzo alla gente non potevano nasconderlo e splendevano, quasi passassero la vita con dei santi. Chi può dire quante e quali furono. È come se avessero distrutto in anticipo le parole con cui potremmo capirle”.

(Quaderno 39 del Malte)

Una riflessione sull’amore matrimoniale – che è sinonimo di durevole e persistente sfida all’individuo, oltre che misura di resilienza e di chiarezza di obiettivi – si mescola ad un’occasione di introspezione per il poeta; e diviene storia di come l’emancipazione femminile sia davvero avvenuta nell’ultimo secolo. Davanti alle parole di Rilke ci si potrebbe chiedere se non sia stata più la concessione di una soddisfazione alle istanze di combattive suffragette, piuttosto che un modo per fare ammenda di errori secolari. V’è mai stato un autentico desiderio di comprensione della “dimensione femminile”, sia intellettuale che emozionale? In fondo, è chiaro agli uomini che cosa significhi sviluppare una visione femminile del mondo?

Forse si intuisce che un Weltinnenraum (spazio interiore di mondo) femminile, potrebbe essere un modo assai peculiare, munifico, per molti aspetti inaccessibile, di intendere la vita e le sue missioni; ma v’è da chiedersi se la sua ricchezza ed estensione non sia ora altrettanto confusa per le donne stesse. Dopotutto, quelle che hanno costruito il substrato esistenziale ed emozionale su cui dovrebbe reggersi l’identità femminile contemporanea – come nota Rilke – “è come se avessero distrutto in anticipo le parole con cui potremmo capirle”. 

Che resta dunque di una dimensione vissuta e maturata nel silenzio, con scarse tracce scritte e nessuna testimonianza esperienziale? Forse, l’occasione di ascoltare nonne e bisnonne, che ancora detenevano tutta o parte di quella esistenza segreta, tramandata all’occhio e all’orecchio da gesti e parole fotografati e registrati nell’operosa e contemplativa azione di un tempo, è qualcosa di ormai perduto, consegnato all’oblio.

A noi, oggi, resta la disapprovazione per svariate forme di violenza (ancora) perpetrate ai danni delle donne, ma scarsi mezzi per argomentarne la disprezzabilità, se non un generico disvalore della violenza. Ma alle donne, cosa resta? La minor forza fisica dell’uomo, la maggior fragilità, la propensione ad arrendersi e a lasciarsi sopraffare? O, al contrario, a diventare aggressive virago, dimenticando e negando ogni femminilità? Se manca un’identità storica di genere, o addirittura un’identità confitta nel profondo viene violentata al punto da trasformarla in qualcos’altro, stenta a formarsene il substrato di conoscenza e coscienza. Spiegazioni e comprensioni sono, così, estremamente difficili e un miglioramento della condizione della donna nel mondo avviene solo come conseguenza di un inasprimento di pene o, forse, con maggior efficacia, di un maggiore disvalore sociale. Quest’ultimo, tuttavia, è un gesto collettivo e non denota una comprensione soggettiva. La riflessione di Rilke è invece un’occasione di comprensione personale e di consapevolezza sulla capacità di amare che la donna ha dovuto e potuto sviluppare – come “blindato” in sé. Quel tesoro nascosto viene descritto come “tutto opera loro [delle donne], (che) hanno sempre recitato l’intero dialogo, entrambe le parti”. Maturazione della sostanza invisibile dell’amore e incomprensione del mondo (maschile) paiono essere strettamente interconnesse: quasi che l’amore dimenticato dall’uomo vada incontro ad una sorprendente sublimazione, nella donna, proprio a causa di quel disinteresse e inettitudine. Dopotutto, non deve stupire che il maggiore dei sentimenti umani si ribelli, di fronte ad un appello senza risposta, mostrando in ciò che difetta la sua vera essenza.

Quella recitazione di un “dialogo amoroso” nel soliloquio, è il lato della maggior (se non unica) attitudine femminile alla costruzione dell’amore: quello ancora non rivolto alla parte illuminata della vita reale. Donne ribelli, poetesse, artiste sono la chiave d’accesso a quel lato; ma non lo sono di meno le donne comuni, che dell’arte non recano in sé il segno illuminato, ma che lo imprimono in un gesto, trasmesso loro dalle madri in virtù di chi sa quale prodigio genetico od esistenziale. Sanno loro quanto potere detengono? Sanno quanto un istante di tolleranza e accettazione che esprimono nel più buio dei momenti porti con sé una dote? Sanno interpretare quel gesto o hanno smarrito il prontuario, il codice per intenderne i simboli? E gli uomini, dal canto loro, lo sanno intendere? Hanno mai cercato di replicarlo imparando – anche solo imitando quella vocazione?

Verrebbe da dire che Rilke, con le sue osservazioni sull’apprendimento dell’amore e sulla (necessaria) auto-educazione sentimentale, sembra aver inteso le donne meglio di quanto le donne abbiano inteso se stesse; se non altro perché egli ha posto il problema in prospettiva: quella capacità di porre una questione nell’ottica risolutiva di cui difetta l’essere contemporaneo, completamente proteso alla realizzazione di comportamenti socialmente o economicamente “misurabili”. Misura che avviene fuori di sé – in riscontro con il mondo – e mai come misura in sé del proprio Weltinnenraum.

Senza dubbio Rilke rende onore a quel potere e a quel dono, mostrando a ciascuno un’evidenza: l’amore non è una fusione di esistenze, né un accogliere qualcosa in sé cui siano chiamati i due amanti, ma occasione di esercizio e progresso in sé: qualcosa che assomiglia poco al raggiungimento di un risultato e molto al percorrere un sentiero coltivando – nell’incedere oltre – un’attitudine, una propensione ad intendere la propria inevitabile solitudine esistenziale come una presenza che dialoga con l’altra, proteggendola, limitandola e inchinandosi a lei.

Quale, allora, la risposta a chi mercifica il sentimento e lo predispone al baratto? Una voce, inaspettata e violenta (almeno quanto violento è quel tentativo di trasformazione), esce d’impeto dal Quaderno 40 del Malte: ha il suono sordo di un pugno nella pancia di molti esperti dell’amore fisico, quelli che insegnano sulle moderne piazze sociali, in cui tante facce parlano – nascondendo il volto e mostrando la vera natura del coraggio “senza rischi” – e spiegano come si fa macelleria degli esseri umani e vilipendio della bellezza:

“Ma ora che tanto sta cambiando, non sta a noi cambiare noi stessi? Non potremmo provare a evolverci appena, addossandoci lentamente, a poco a poco, la nostra parte di lavoro nell’amore? Di esso ci è stata risparmiata ogni fatica, e così ci è scivolato tra le distrazioni, come a volte nel cassetto dei giocattoli d’un bambino cade un pezzo di trina autentica che prima piace, poi non piace più, e infine rimane tra gli oggetti rotti e disfatti, peggiore di ogni altro. Guastati dal piacere superficiale, come tutti i dilettanti, abbiamo fama di maestri. Ma che accadrebbe se disprezzassimo i nostri successi, se cominciassimo a imparare dal principio il lavoro dell’amore, che altri ha sempre fatto per noi? Se ce ne andassimo e diventassimo apprendisti, ora che cambiano tante cose?”

Se riflettiamo su questi “cambiamenti”, sull’onere di “cambiare noi stessi”, dobbiamo giocoforza chiederci: e noi? Noi – uomini e donne – cosa abbiamo fatto in un secolo di tentativi? 

Se invece delle gesta “eroiche” di Achille o della propensione di una favorita del Re a vendersi per trenta denari, alle lezioni di storia e letteratura, l’insegnante leggesse ogni tanto: “L’impeto del suo cuore la spinse attraverso le contrade sulle sue tracce, e infine arrivò all’estremo della resistenza: tanto forte era però l’impetuosità del suo essere che, nel prorompere, riapparve oltre la morte come sorgente, rapida, come rapida sorgente” (Quaderno 66 del Malte), forse gli studenti ascolterebbero, ci penserebbero e, nell’oscurità dei loro sogni notturni, inizierebbe a nascere in loro un germoglio…

Cosa significa diventare sorgente? Affiora qui il paragone tra la donna e la fontana, che sarà ripreso nel Testamento (1921), in parallelo all’epistolario con la pittrice Baladine Klossowska, l’ultima compagna di Rilke. La figura della fontana con l’incessante ricadere dello zampillo rappresenta in quegli scritti l’inesauribile metamorfosi dell’amore, la poliedrica variazione della sua caduta. Noncurante del peso, dei soffi di vento che lo sferzano, il getto d’acqua continuamente va e procede; incessantemente si eleva e ricade.

Non è forse questo il principio del cambiamento agognato da Rilke, oltre cent’anni fa? E se nell’intimo diventassimo sorgente? Allora, forse, potremmo diventare “principianti”, forse potremmo “imparare ad amare”, consapevoli che “il tempo dell’apprendistato è sempre un tempo lungo, chiuso al mondo, e così amare è a lungo, e fin nel pieno della vita, solitudine, intenso e approfondito isolamento per colui che ama. Amare non significa fin dall’inizio essere tutt’uno, donarsi e unirsi a un altro (poiché cosa sarebbe mai unire l’indistinto, il non finito, ancora senza ordine?); è una sublime occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualcosa, di diventare mondo, diventare mondo per sé per amore di un altro, è una grande, immodesta pretesa a lui rivolta, qualcosa che lo presceglie e lo chiama a vasti uffici. Solo in questo senso, come compito di lavorare a sé (“di stare all’erta e martellare notte e dì”), i giovani potrebbero usare l’amore che viene loro dato. Essere tutt’uno e donarsi e ogni sorta di comunione non è per loro (che ancora a lungo, a lungo devono risparmiare e radunare), è il compimento, è forse quello per cui oggi intere vite umane ancora non sono sufficienti” (Rilke a Kappus, 14 maggio 1904).

Riccardo Peratoner e Marilena Garis

Gruppo MAGOG