06 Ottobre 2018

Rileggiamo Aleksandr Kuprin, il Jack London russo, amico dei clown (in questa storia ci sono: lo zar, Rasputin, la Rivoluzione, Charlie Chaplin, lo spionaggio giapponese e il Signor Treves…)

In questa storia c’è Odessa, c’è Rasputin, c’è il clown più famoso di ogni tempo, c’è Charlot, c’è la cupa ascia della Storia e c’è uno scrittore ingiustamente dimenticato.

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La fonte della storia è un libro, sobriamente rilegato in rosso. ‘Nuova Amena Treves’, 1931. In catalogo risultano Prévost, Maupassant, Turgenev, Pierre Louys. Il libro promette una scelta di Racconti russi – tradotti da Maria Rakowska – di Aleksandr Kuprin, italianizzato ‘Alessandro Cuprin’. Parto con l’intro: “…ha lavorato anch’egli, sulle orme dei grandi predecessori, a preparare l’ambiente storico di una rivoluzione politica, dalla quale, spaventato e impoverito, ha poscia dovuto cercare scampo nella fuga”. Kuprin muore nel 1938, ottant’anni fa: tra gli anni Venti e Trenta è stato tra gli autori russi enormemente pubblicati in Italia; nel 1944 Garzanti riprende i Racconti russi, nel 1999 l’editore romano Voland pubblica i Racconti di mare, nel 1991 Tranchida ripubblica Il braccialetto di granati, che è il più raffinato tra i racconti di Kuprin, mentre Rizzoli, nel 1989 pubblica La fossa, il romanzo ambientato in un bordello (traduce Ettore Lo Gatto, che lo descrive così, “L’amore del particolare descrittivo e della quotidianità dell’avvenimento sono, assieme con una calda simpatia per i personaggi meschini e volgari, le note caratteristiche dell’arte di Kuprin”). Ciò che incuriosisce è che Kuprin pensava di diventare “il Jack London russo”.

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Kuprin“Dalla metà d’agosto, prima della nuova luna, il tempo si era fatto improvvisamente bruttissimo, come capita spesso sulla costa nord del Mar Nero. Per alcuni giorni di seguito ora si distendeva sul mare e sulla terra un denso velo di nebbia e la sirena del faro urlava continuamente di giorno e di notte come un toro infuriato; ora cadeva senza tregua dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina una fittissima pioggia autunnale, che trasformava le vie di quel terreno argilloso in una melma densa, nella quale affondavano pericolosamente vetture e carri”: questo è l’incipit de Il braccialetto di granati che già dà il senso della qualità ‘pittorica’ di Kuprin – ricorda molto Ivan Bunin – anche se, di norma, la sua è una scrittura rapida, a descrivere scene schiette, spesso crude. Ad ogni modo, Kuprin, figlio di una principessa tatara, avviato alla carriera da soldato, che abbandonò per la via della scrittura, è il tipico russo emigrato a Parigi. Quando capì che andava a morire, decise di tornare nell’allora Leningrado, per respirare le ultime folate di Russia.

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Nel 1907, a Odessa, Aleksandr Kuprin amava frequentare il circo. Dopo gli spettacoli, da vero nobile, invitava gli artisti a cena. Una sera, mangia, ride, beve, si appisola. Gli artisti si dileguano. Al suo fianco resta ‘Giacomino’, il milanese Giacomo Cireni, il re dei clown, che da allora sarà suo amico assoluto. Cosa ci fa ‘Giacomino’ in Russia? Fin da bimbo nel circo, ‘Giacomino’ perfeziona l’arte a Parigi, dal 1903 è al Circo Imperiale di Pietroburgo, che è diretto dall’italiano Scipione Ciniselli. In Russia ‘Giacomino’ ha un successo unico: è invitato dallo zar Nicola II al Palazzo d’Inverno per far sorridere il figlio Alessio, lì conosce Rasputin. Kuprin ha istoriato per il clown una targa, che campeggia sulla porta del suo camerino: “Chi ha un volto che sprizza allegria? Chi ha il coraggio dell’acrobata? Il clown Giacomino, mio compagno e mio amico”. In alcune fotografie lo scrittore realista parla al clown, che ha una faccia che sembra svanire da un momento all’altro, in un turbine di api.

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Quando si abbatte, la Rivoluzione non ha pietà per i clown, d’altronde, c’è poco da ridere. A Giacomino vengono confiscati i beni, ma un permesso di Lenin gli consente di partire per il Giappone dove, segretamente, consegna dei documenti dello zar all’ambasciatore italiano a Tokyo. Dal Giappone, atterra negli Usa dove, a Hollywood, nel 1918, aiuta Charlie Chaplin a perfezionare l’arte della clownerie. Nel 1920, infine, il ritorno in Italia, dove Giacomino lavorerà e morirà, nel 1956. Kuprin non si dimenticherà mai di lui, come testimoniano le lettere che si sono scambiati, lo scrittore e il clown.

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KuprinNel 1907, l’anno in cui conosce Giacomino, Kuprin stampa L’elefante, un racconto per l’infanzia, ora diventato un piccolo classico (e riproposto in questa forma, due anni fa, da Topipittori). “Ora vive da esule a Parigi”, ricorda la nota della mia edizione Treves, “ma si narra che abbia esercitato i più umili mestieri, non solo di pescatore, cacciatore, agricoltore, per suo diletto e per desiderio di utili cognizioni attinte direttamente nella realtà, ma perfino di scaricatore di navi e di cantante in un coro, per guadagnarsi il pane nei giorni più duri della sua vita”. Kuprin pare, davvero, in sintonia con London: raccontare la realtà frequentandola, con dettagli veritieri e impeto possente. Un brano di un suo racconto tra i più noti, La spia, è emblematico: “‘…tutto è in potere di Dio, senza Dio non si fa un passo. La guerra non è ancora finita. Tutto può accadere. Il soldato russo è abituato a vincere… Iddio ha la Russia sotto la sua protezione, non vi pare?’. Egli parlava e gli angoli della sua bocca sussultavano in sorrisi strani, rabbiosi, inumani, e i suoi occhi scuri, sotto le sopracciglia nere, scintillavano di una luce gialla minacciosa”.

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“Non sappiamo chi possa non riconoscere che il Kuprin è veramente un poeta”, chiosa il baldo Treves. Il problema, oggi, è ben altro: altro che riconoscerlo, ma chi lo conosce più, Kuprin? (d.b.)

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