1994, Krzysztof Kieślowski ci offre Film rosso: omaggio alla fraternité e commiato al Cinema e alla Vita.
Il colore rosso punteggia la pellicola ma senza invadenza: è fatto di tracce, dettagli minuti che cuciono a sé e tra loro vite e sorti differenti… il rosso della jeep, del golf, del fiocco sull’antenna del telefono, della copertina del disco di Van Den Budenmajer, del guinzaglio del cane, quello destinale e fatto di memoria viva che il sangue reca pulsando nelle vene della pellicola. Un rosso “discreto”, abbiamo detto, ma che erompe nella gigantografia del profilo della protagonista e modella Valentine: simbolo e orma presaga di un destino che si annuncia proletticamente in mille indizi.
Il regista compone un mosaico di tratti di vita e lo fa con leggerezza elegiaca, passando da un ambito all’altro, con sapienza geometrica e morbidezza avvolgente, così come si passa facilmente da una stanza all’altra di una casa.
Un’avventura densa di speranza, di totale fiducia nell’amore per gli altri? Certo è un film straripante d’amore, ma nelle declinazioni meno omologhe tra loro: amore distratto, raffreddato, che procrastina ed è reciprocato da uno intenso e totale; amore tradito e che tradisce, amore che forse si annuncia in uno sguardo fugace tra due sopravvissuti, dopo che in mille modi i loro destini si sono sfiorati senza concreto punto di tangenza.
Lo sceneggiatore Piesiewicz riflette:
“La fraternità è quel terzo elemento a cui ci avviciniamo in fondo con ottimismo, che diamo come possibilità, forse un po’ idealisticamente, ma che cosa si può fare oggi, se non farsi carico di un sentimento come questo e portarlo avanti?”
La “fratellanza”, definita nella Dichiarazione dei diritti e doveri del cittadino, parte integrante ed iniziale della Costituzione dell’anno III, 1795, terzo elemento del motto repubblicano, e analogo all’articolo secondo di essa: “La libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce ai diritti degli altri”… Passaggio assai simile alla massima evangelica: “Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi”. Ma il regista compone un inno all’etica della reciprocità che va oltre essa stessa, oltre un semplice codice etico in base al quale ciascuno ha diritto ad un trattamento giusto e ha il dovere e la responsabilità di assicurare la giustizia agli altri; un inno che si fa espressione della dignità di ciascuno, della convivenza pacifica, della legittimità, della giustizia, del riconoscimento e del rispetto tra individui nonché delle religioni civili, ma senza la superstizione della giustizia stessa, e oltre ogni logica dell’utile presso gesti di solidarietà e pietà umana che sono risonanza di mille fragilità comuni e condivise.
La “regola d’oro” sintetizza la Liberté e l’Égalité: Film blu, Film bianco.
Sono tutti questi elementi di un’opera composita ma fatta di parti tra loro dialoganti, ideata con prismatica complessità, laddove ogni utopia o fatto concreto vanno letti in relazione agli altri. Indicativa a tale proposito è una scena ripetuta in tutti e tre i film: un’anziana arranca nell’introdurre i rifiuti dentro il cassonetto, immagine nitida di una fragilità che chiama alla sua urgenza, come il volto dell’altro nella filosofia di Lévinas, cucendo assieme sensibilità e prossimità, e definendo una soggettività etica che si faccia carico della responsabilità verso il prossimo. Solo Valentine corre in suo aiuto, all’interno del “refrain” filmico, mentre i protagonisti delle altre due pellicole della trilogia restano indifferenti. È questa la fraternità che sola può essere cerniera etica tra libertà e uguaglianza.
Valentine, Irène Jacob, fotomodella e studentessa poco più che ventenne, vive sola in una Ginevra piovosa, raffigurata in una quasi totale, smorta assenza di sole: tale da rendere ancora più acceso ogni tocco di rosso. Il fidanzato, defilato e anodino, assente almeno quanto possessivo, talvolta le telefona da Londra. Lei sembra attendere pazientemente un suo gesto, o una sua parola, più sintomatici di reale amore.
Una sera, investita una cagna, la carica in macchina e la riporta al suo padrone, un magistrato in pensione, magnifico Jean-Louis Trintignant (Joseph nel film): sessantacinquenne introverso, burbero e laconico (al primo incontro tra i due, gioca oziosamente con le bretelle, gesto quasi bambino che cozza con la misantropia che gli è propria, ma dice molto del suo curioso mélange stratificato di caratteri apparentemente giustapposti), che finisce col prendere familiarità con la ragazza; e in modo così intimo e delicato da suggerire in risposta un sempre più assiduo dialogo fatto di confidenze e confessioni. Una sincerità senza veli connota da subito il legame che si stringe tra loro, tipico forse, e più facile, in un contesto inatteso e non ancora consolidato e abitudinario.
Nella sua confidenza forse più sentita, Joseph si dice pentito della sua professione: “Il solo pensare che si possa decidere cosa è vero e cosa non lo è oggi mi sembra un atto di presunzione”; tradito e deluso da un amore senza cuore: “Sì, smisi di credere. O forse semplicemente non incontrai… non incontrai lei?”.
Egli spia gli abitanti delle villette vicine e ne intercetta le telefonate, vive di questa scopia sulle altrui vite perché non ne ha più una propria, ha rinunciato ad averla da quando si è spezzato il grande amore di un passato ora lontano, ma che getta ancora ombra su un corso di vita fattosi anemico e romito. Egli vìola molte diverse intimità e con perizia da entomologo confida a Valentine caratteristiche e segreti, possibili esiti futuri, delle vite che spia. Tra le altre, quelle di Karin e Auguste: Karin fa l’amore ma non più con Auguste; quell’Auguste, divenuto procuratore che scamperà proprio insieme a Valentine ad un naufragio sulla Manica e che tanto rassomiglia a una versione ancora giovane e aperta alla vita di Joseph stesso.
Voyeurismo nevrotico, figlio di un curioso connubio tra idiosincrasia e attrazione verso le esistenze altrui, raffreddato e passionale a un tempo, reminiscenza eterogenea di Decalogo 6, Non commettere atti impuri: un ragazzo, un cannocchiale puntato su una donna oggetto del desiderio. Esso è ormai una consuetudine per Joseph: un misantropo che turbato dall’esistenza, al mondo e per il mondo, ne sperimenta il dimenticato calore (reviviscenza di un’anima altrimenti catafratta e disillusa) nei gesti puri, sorgivi, di una gentilezza senza utile che prima lo irrita e poi lo seduce. La gentilezza altruista di Valentine, che esprime un’ingenuità fresca e non intaccata dal disincanto. Già in Film blu, nel “Concerto per l’Europa Unita”, si cantava: “E quando avessi il dono della profezia/ e conoscessi tutti i misteri/ avessi tutta la fede/ per trasportare le montagne/ se non ho amore/ non sono nulla”.
E la vita dell’ex giudice è un nulla di fatto, affoltata di presenze mediate e fantasmatiche dal lato della reale condivisione, prima dell’incontro chiave con Valentine.
Una ragazza caritatevole ed un cinico anziano appaiati idealmente dal capriccio di un caso mai così puntuale.
All’indifferenza, all’anedonia, all’apatia e all’opacità della vita, c’è chi dà concreta risposta aprendosi all’altro da sé: raccesa umanità d’uno sforzo operoso perché a nessuno sia del tutto interdetta la gioia. Valentine sembra conoscere il valore profondamente dativo di questo gesto. Capace di ascolto e grande sensibilità, la sua discreta attenzione diviene la chiave di un momento pressoché confessionale per Joseph, che si apre e riscopre l’arrendevole bellezza del potersi rimettere agli altri.
Ma quest’apertura può denunciare, in fondo, un latente egoismo? È il vecchio vulnus che Schopenhauer imputava alla morale kantiana della reciprocità, vicina al celebre motto evangelico già citato e così in carattere con essa: un cerchio che comincia dal Sé e si chiude col Sé, fosse pure con gesto caritatevole. Corollario di questo acquisito è l’idea che risulta prerogativa di ciascuna persona essere soggetto e non oggetto, e che quindi essa è da trattarsi come tale; ma v’è qualcosa di strumentale nell’agire per gli altri così come vorremmo che gli altri agiscano per noi, e ha come cardine il fatto di pensarci sia parte attiva che passiva, finendo col dare voce a un egoismo che ha valore empirico-contingente ed è anzi dettato dalla possibilità di un vantaggio o di uno svantaggio, quindi tale da dettare una morale eteronoma, o quanto meno non svincolata dall’eudemonismo che Kant voleva cassare da essa… Insomma, sembra non esservi scampo dall’Io, a meno che non si pensi, come Valentine, che “la gente non è cattiva, semplicemente, a volte forse non ha abbastanza forza”. Una pia reminiscenza rousseauiana. Ma se nel filosofo ginevrino si trattava di denunciare le “catene inghirlandate” della civiltà, qui si tratta di rifondarla nei cuori e nelle menti a partire da concetti di fratellanza e coscienza di vulnerabilità condivise.
Cosa si può fare per l’Altro chiede Valentine… La risposta, semplice come il pane, è: “Può fare una cosa. Esserci”.
Esserci per condividere il dolore originato dalla comune miseria umana, per cui chi cercherà di alleviare l’altrui sofferenza raccoglierà in un gesto di cura anche la sua, conferendo senso prospettico alla parola “solidarietà”… Offrire se stessi gratuitamente.
L’Amore che agisce e, per contro, un Dio che latita. Ma per il regista la vita sembra essere già di per sé un’entità epifanica che parla per simboli e richiami, tracce ed echi, un tempio dove il sacro assume il volto fattuale di valori che scrivono la costellazione, più umana che divina, di un senso possibile costruito appunto da azioni, da scelte. Scelte mai così prossime alle altrui, tanto da determinarne, anche per eterogenesi, il destino possibile.
Capita così che un errore di giudizio guidi una sentenza erronea in via di principio ma generatrice di nuovi e sani virgulti di vita e rinnovata speranza nei fatti. Capita, così, che due anime le più diverse si trovino allacciate dal nastro sottile, ma luminoso, di una umanità degna e profonda.