Il 2024 segna il ritorno nelle librerie del miglior Richard Millet, con un nuovo romanzo – o “récit”, come lo definisce l’autore –, Ozanges, dal nome di un castello francese in cui il protagonista deve passare una notte da solo, e la sua prima raccolta di poesie, L’entrée du Christ dans la langue française. Qualche mese fa ha anche pubblicato un saggio contro i luoghi comuni nel mondo contemporaneo, Nouveaux lieux communs: exegèse, exorcisme, una sorta di “prontuario” linguistico e umorale alla maniera di Léon Bloy. Intanto, in Italia, Liberilibri ha ripubblicato L’antirazzismo come terrore letterario. Nonostante i molti nemici nell’editoria Millet dunque continua a scrivere. Il suo ritorno alla narrativa e il suo esordio poetico mi sono parsi una buona scusa per scambiare qualche chiacchiera “pubblica” con lui; ho anche tradotto alcuni dei suoi versi per i lettori italiani. Ma partiamo da Guido Ceronetti. (Edoardo Pisani).

“Non riesco a immaginare poeti, interpreti dell’essere, nell’eone che viene. Anime in esilio tante, e disperate, ma non di questo tipo, non capaci di versarsi in poesia. Lo stato delle lingue stesse non lo consentirà, la vigilanza feroce del Brutto – acustico e visivo – non lo consentirà”. Sono le parole con cui Guido Ceronetti alla fine del secolo scorso introduceva le proprie poesie, caro Richard. Ora lei dà a sua volta alle stampe un libro di poesie, L’entrata di Cristo nella lingua francese. Se non ricordo male Ceronetti era posto in epigrafe a L’Orient désert, un suo libro molto bello, dedicato ai cristiani in Oriente; è uno scrittore che lei ama molto. Cosa pensa di queste sue parole? C’è speranza per la poesia? E per il poeta?

Sì, Il silenzio del corpo, in particolare, mi ha colpito molto. C’è in Ceronetti una lucidità tanto più grande in quanto rifiuta il nichilismo occidentale e la grande noia europea: la sua posizione di fronte al male è colma di ironia, d’intransigenza e di una cultura che è uno schiaffo alla Stupidità che tanto tormentava Flaubert. Poeti oggi, in questi tempi di angoscia? La domanda di Hölderlin è più che mai attuale, sebbene le lingue siano minacciate dal goblish, dal babelismo, dall’ideologia, dalla pubblicità, dall’intrattenimento, dal Brutto. Continuiamo quindi a scrivere, pur sapendo che è sempre un gesto a perdere, ovvero che siamo perduti nel chiasso del mondo, esiliati, marginali, senza romanticismo né pathos.

All’inizio de La forteresse (2022) lei raccontava della morte di Béatrice, sua moglie. La seconda sessione di questo libro di poesie, Per un esorcismo, è dedicato a lei. Sono dei versi molto toccanti: scriverli è stato doloroso o liberatorio? La poesia – la letteratura – può lenire il dolore della morte?

Niente allevia davvero questa specie di dolore, soprattutto se la morte dell’altro è stata il risultato di una “lunga malattia”, come si dice pudicamente in francese. Perciò scrivere non è né una catarsi né una consolazione, bensì un dialogo con la persona scomparsa: una sorta di “tomba”, in qualche modo, o di omaggio funebre. Ciò che esorcizziamo non è che il dolore più immediato; il resto è il proseguimento di un viaggio in compagnia di una persona defunta.

Gran parte della sua opera è un dialogo o un raffronto con i morti. “Le lingue si dimenticano più velocemente dei morti” scrive Pascal Bugeaud in Ma vie parmi les ombres. E nel finale dello stesso libro afferma che la più bella frase di ogni letteratura è pronunciata da Gesù Cristo, alla fine del Vangelo secondo Matteo: “Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Quali testi sacri la confortano di più? La letteratura può essere la forma più estrema di pregare? E quali autori del Novecento secondo lei si avvicinano meglio al sacro o all’assoluto?

Certe parole di Cristo, in effetti, certi salmi e certi profeti dell’Antico Testamento come Isaia mi sconvolgono come sconvolgono Pascal Bugeaud, il mio doppio romanzesco. Leggere o rileggere questi testi, in silenzio o a mezza voce, è già una forma di preghiera. Anche la letteratura ci si può avvicinare, attraverso lo spirito: Kierkegaard, Léon Bloy, Paul Claudel, Simone Weil… Ciò detto, la bellezza e la forza di uno stile possono essere una lode alla Creazione ma anche una messa in discussione del Male, come in Faulkner, per esempio.

Ricordo la sua prefazione ai versi di Louis-René Des Forêts. Quali poeti francesi predilige? Nell’ultimo capitolo de La forteresse racconta la sua scoperta di Rimbaud, a sedici anni…

Rimbaud, sì: un’irradiazione, un colpo di fulmine, a sedici anni, in una libreria parigina: scoprivo che il mondo non è lo stesso quando lo si vede attraverso l’esperienza poetica, più ampiamente estetica… Amo i grandi manipolatori del linguaggio (Paul Claudel, Saint-John Perse) tanto quanto coloro che cantano più in basso o nell’enigma del visibile: Mallarmé, Char, André du Bouchet, Christine Lavant, Dylan Thomas, Jacques Dupin, o dei contemporanei vicini agli oggettivisti americani: Emmanuel Hocquard, per esempio.

Quali poeti italiani ama? Purtroppo, le raccolte di poesia di Ceronetti non sono tradotte in francese. Ma in Ozanges Pascal Bugeaud dice di amare Leopardi, che anche Ceronetti amava.

Ogni lettore francese si confronta innanzitutto con Dante, sperando di esservi penetrato con il testo italiano a fronte. Adoro Leopardi, il cui Zibaldone mi ha accompagnato per un intero inverno, e ho letto le raccolte di Luzi, di Pasolini, di Pavese, di Saba, di Caproni, di Zanzotto, e poi di quella sorprendente poetessa che mi ha fatto scoprire lei, caro Edoardo: Amelia Rosselli, grazie a La libellula.

In una delle poesie della terza sessione de L’entrata di Cristo nella lingua francese lei scrive che le sue figlie devono nascondersi nella “prudente omonimia”, ovvero, mi sembra di capire, non dirsi sue figlie. Qual è il suo “stato” nel mondo culturale francese? Come sopravvive la sua “anima in esilio”, per riprendere l’espressione di Ceronetti?

Le sono grato per aver saputo leggere così bene le mie poesie. La mia posizione nel mondo letterario francese è quella di un maledetto, ai margini, senza alcuna eco sulla stampa, pubblicato da due editori anch’essi marginali e abbastanza coraggiosi da non preoccuparsi della fatwa scagliata su di me dal sistema mediatico e letterario francese. Sopravvivo, in effetti, senza più occuparmi di letteratura ufficiale, e d’altra parte questo è il miglior modo di scrivere. L’esilio per me non è una metafora: talvolta trascorrono settimane senza che il mio telefono suoni o che riceva una mail.

In Ozanges ritroviamo Pascal Bugeaud, il narratore delle sue opere maggiori, che si definisce “una sorta di sopravvissuto sognato dai suoi stessi personaggi”. Ozanges è un libro che ho amato molto, di memoria e di spavento, cioè di fantasmi. “Non si sfugge a ciò che si scrive” dice Pascal Bugeaud alla giovane Milanka. Sente il peso di ciò che ha scritto? Che rapporto ha con la sua opera?

Ozanges è un viaggio sia nella letteratura che in me stesso, ed è forse l’ultimo racconto che scriverò… Per il resto ho con i miei libri dei rapporti piuttosto ambigui: ne sono a un tempo deluso e responsabile, e sono dell’idea, come ogni scrittore arrivato a un certo punto della propria vita, di non aver ancora scritto il libro più importante, quello grazie al quale speriamo di essere salvati.

Richard Millet insieme a Edoardo Pisani

Da lettore credo che il suo libro più importante, quello che peraltro fa “arrossire di meno” il suo doppio Pascal Bougeaud quando ne parla (Ozanges, pg. 37), sia Ma vie parmi les ombres, vale a dire Le Temps devenu amour, come in generale tutta l’opera narrata da Bougeaud, compresi La Confession négative e La Fiancée libanaise. Ma per chi scrive? Ha mai concepito la sua vita senza la parola? E i suoi lettori più fedeli talvolta la commuovono?

Il silenzio è la tentazione maggiore, con il rischio di scrivere in maniera pre-postuma, come diceva Musil… E tuttavia continuiamo, contro ogni previsione, a farci scribi di una realtà che si dà a noi sfuggendo se stessa. È questo doppio movimento che ci spinge a parlare, credo. All’inizio scriviamo per un lettore ideale, che finisce per incarnarsi molto più tardi, nel corso di incontri che ci stupiscono e ci commuovono e che talora ci sconvolgono, prima di renderci conto, invecchiando, che forse scriviamo solo per farci testimoni della nostra lingua, per cercare di ritardarne un po’ la decomposizione.

***

Da Ecco venire il re

L’unica morte di Dio
è quella in cui il Cristo resuscita
il terzo giorno
Il resto è chiasso del secolo
e amore della menzogna
nella misura di una lingua
che si ritira dal mondo
mentre il mare sale
nel sonno degli spiriti

Il tempo richiude su di me un pugno
che il Cristo spalancherà al cielo
altre vane metafore
eppure siete qui
Signore ricordando che le parole
evocano ciò che è dietro la porta
e che ciò che non si vede
da quaggiù sarà dato più in alto
nel silenzio e nella luce

Ti nascondi dove non ci sono
vi seguo dove sparite
e mi ricordo l’origine del verbo
nel sentiero che porta al lago
in fondo al quale scorre il fiume
che mi ha disteso nel tempo

*

Da Per un esorcismo

Marciamo fianco a fianco
vedi più lontano di me
giovane amazzone senza arco
ma sempre sul chi vive
il male toccando l’invisibile
dispersione delle cellule malate
tu guerriera in pieno giorno
io nella mia povera notte
entrambi sognando di vita
nuova e chiare sponde
Senza lacrime i pianti
ci rendono più forti

*

Da Gli oltraggi

Mi sputano in faccia
la mia pelle un mantello troppo rosso
e il mio nome un rogo
la fronte cinta di ortiche secche
le mie due figlie nascoste
nella prudente omonimia
Mal ti colga nell’obbrobrio
ingenuo poeta e guerriero folle
di aver ricordato che la purezza
si schiera fra i rovi
quando la rugiada ha disertato le labbra

Non sei salito sulla Croce
non l’hai portata
neanche nell’ombra
né hai pregato con le sante donne
Parli senza sapere
e pecchi senza peccare davvero
Non vedi più il mondo
che fra le tue viscere malate
Guarda ciò che sorge
e chiama ciò che cade
Chinati ancora e troverai
uno sguardo diverso dal tuo

*

Da Salmi bianchi

Né specchio né sognatore
architetto di vani desideri
ancor meno vegliardo volto
verso il bambino che crede di essere stato
presso il fiume senza piene
ma piuttosto colui che non cessa di avvenire
dove la polvere segna la parola

Signore non sono degno
di andare davanti a voi
la mia lingua è più povera delle lacrime
e grande è la vanità di credere
di sentirvi fra le ombre
il verbo è qui fra gli alberi
si umilia la lingua ma la parola
risplende nella sua prima confessione
e vado a testa bassa
verso ciò che mi getta fuori da ogni senso

Morire non è tutto
dici bisogna raggiungere la riva
nell’altro sonno
e poi varcare la porta sbadigliando
senza fiumi né fuochi
alfine di entrare nell’eterno
silenzio in cui udrò infine
le parole fuor di ogni metafora

*La traduzione delle poesie di Richard Millet è di Edoardo Pisani

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