“Nel luogo feroce dove esistevo senza ombra”. Le poesie “oscure” di Margiad Evans
Poesia
Fabrizia Sabbatini
È così bello farsi piccoli, smettere l’ira, educare il vocabolario come un gatto; sedersi sotto al tavolo e credere che di legno sia il cielo, e che basti un coltellino per inciderlo, a fondo, fino al polmone fossile, fino alla mano turbata del dio. Mi siedo, quindi, piccolo, di fianco al libro di Riccardo Ielmini, s’intitola Una stagione memorabile, lo sfoglio da tempo, lo ha pubblicato Il Ponte del Sale (quanti bei libri hanno fatto: i libri di Andrea Temporelli, di Simone Cattaneo, di Isacco Turina… una mappa del cielo prima che un canone). Sono certo che questo libro mi sopravvivrà, so che lo leggerò tra un anno, tra cinque, tra dieci, e questo mi conforta: come di fronte a un bosco, o al degno lavoro dell’uomo.
Riccardo Ielmini ha pubblicato un libro di poesie, Il privilegio della vita, più di vent’anni fa, nel 2000; in questi anni ha raccolto alcuni racconti (Belle speranze, 2011), ha pubblicato un romanzo (Storia della mia circoncisione, 2019). La sua vita si svolge lontano dal rumore letterario, dal dicastero dei colti: dirige una scuola in provincia di Varese, abita a Laveno – se è ancora lì –, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Io l’ho sempre guardato dall’altra parte, dal Piemonte: un asso nel far rimbalzare le pietre sulla metallica superficie del lago. Dare levità alle pietre, alla vita, però, è il talento di Ielmini, non certo il mio. Dopo vent’anni, così, Riccardo Ielmini pubblica, regolate in due sezioni (“Primo tempo” e “Un altro tempo”), trenta poesie. Ed è tutto. Quando ti accorgi di lui, è per il bagliore di un sorriso, il refluo di un’ombra, un patto di pietà contratto chissà quante vite prima. Così, come chi entra dalla panchina – la metafora calcistica è comune in Riccardo –, risolve la partita, poi preferisce uscire dalla porta laterale dello stadio, contraffatto in un’onda di giacche, per schianto di pudore. Da ragazzo, negli anni in cui ho giocato a calcio, giganteggiavo entrando nel secondo tempo: tutta velocità, fenomeno nell’arte della fuga e della foga; mettevo il caos nella grammatica agonistica. Riccardo Ielmini, invece, è maestro nell’ordine, nell’organizzare il gioco, nella ‘narrativa’ della partita; è tenacia e tecnica la sua virtù. Ci sono alcune poesie, per intenderci – Segnatori di righe al campo di calcio, In morte del gigante con la camicia a quadri, La Torbiera di Mombello, Istruzioni per la morte – che andrebbero studiate per capire come ‘raccontare’ in versi. Ma per questo, va da sé, c’è anche Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, bla bla… è che Riccardo leviga tutte le sprezzature, va giù, adempiendo una ingenuità aurea, spesso implacabile.
In altre poesie – Ping pong, ad esempio – è l’irrompere dell’incredibile nel consueto, la presenza del sacro tra le mani (“Tempo ben speso: la stessa estasi/ provata da Dio nell’apparecchiare vuoti e pieni dell’universo./ Poi il tavolo restava lì, montato, tetragono, per ore/ sotto lo zenit dell’estate occidentale”). Che è lì: esatto, nitido, domestico come l’ostia, senza sbracciare, sbracare, sbavare. Così, mi pare, è il modo di Riccardo Ielmini: la concretezza straordinaria, di chi fa levitare le cose, i volti, le memorie, senza elevarsi; di chi accoglie le ore, i giorni come una primizia, un ciborio, e nella ripetizione non vede il ritorno dell’uguale ma la grazia. “C’è un futuro radioso dentro il male”: è l’ultimo verso della prima poesia, si chiama Gretel, del libro. E io, che di facciata amo un altro linguaggio, amo i poeti minerali e laterali, che torcono la lingua fino al quarzo indicibile, degni di espandersi in una leggenda apocrifa, incompresa dai più, resto sbalordito, senza più verbi, inchiodato. Mi faccio piccolo, appunto. Vado sotto il tavolo – le sedie, da lì, mi sembrano levrieri – e sottolineo alcuni versi. Non ho docenza intellettuale né decenza da esperto in lirica: la poesia, ormai, è un al di là tale che si riconosce al tatto, odorandola, dando lavoro ai denti. Ogni speculazione intorno a una poesia – a meno che il poeta non sia stecchito – sa di incenso, di rosticceria mentre la città è sotto incendio. Mi limito ad accennare, appuntare, ricopiare: bisogna capire, poi, quanto queste parole agiranno, nell’erebo dei mesi, tra qualche anno – la poesia resta un sortilegio, anche se solare. Di certo, credo che Tityro, poemetto ‘bucolico’ in quattro lasse, sia un testo bellissimo, dove il classico diventa avvenire, e la poesia, perfino, sbandamento che s’intona a una morale, che incunea in un cuore:
“Cosa resta da fare. Io lo so. Commuovermi per il bene del mondo.
Io devo commuovermi, è questa la mia palizzata.
Commuovermi, e cantare qui la collezione degli azzurri
nei cieli di Lombardia, e l’humus che fermenta sotto la coperta di neve,
e Elena, la ragazza col berretto di lana grossa e la carne liscia
e i passi fragranti e innamorati nel silenzio grigionero del bosco
verso un futuro lucente di fioriture e fortune,
verso un futuro di dolori, sfaceli, lutti sparizioni”.
Che bellezza, Riccardo Ielmini, con la sua giovinezza da primo giorno del mondo, con l’alba al posto del sistema nervoso, e una fede lavica nella schiena. Ci sono versi che scavano – “I figli sono l’ultimo avamposto della grazia”; “La condizione dell’allerta è la cifra cupa della mia vita”; o questo giro: “Vorrei una vita interlocutoria, di presagi e promesse,/ come il volteggio dei deltaplani sulla vertigine del verde,/ mentre esplodono le grida dei figli, lanciate come sfida nell’aria” – e la percezione che il bene è proprio perché tutto muore, si consuma, in una latitanza di cristalli.
A Riccardo frega nulla della ‘letteratura’, per altro, sa che le poesie, come i semi buoni, devono giacere, pur per anni, nei cassetti: se è abete, rosa o falla, si vedrà. Scrive per sostanziare la vita, dunque scrive sentendo la carne; vive la sonnambula beatitudine dei rari – ovvero: conosce l’indignazione, la rabbia pura, l’impari del dolore. So di dire una scemata, ma quando leggo Riccardo Ielmini, queste poesie di sperticata vita, di vita sprecata, di vita, mi sento più buono, anzi, divento buono. (d.b.)
**
Opera umana
Mi commuove l’umana opera in rassegna:
i tagli di scolo dell’acqua nel bosco,
la fresatura di ringhiere arrugginite,
l’accatastamento annuale della legna,
il getto di idropulitrice nei tubi, fra le grate.
Come se ce ne infischiassimo di Qoelet,
della favola dei gigli del campo
tessuti da un altrove lontanissimo,
o non ci accorgessimo quanto ci costa
reinventare la lotta, riscrivere la resistenza.
Come se tutto l’affaccendarsi fosse
davvero preparazione, davvero prefigurazione
di questo altrove lontanissimo
che mi visita nei tiepidi silenzi
dei pomeriggi indecifrabili a febbraio.
Mi resisterà ciò che costruisco.
Quando bordeggio i muri dei terrapieni
incontro i fantasmi delle maestranze:
un giorno, commuovendosi, qualcuno
sul risvolto dei miei versi si imbatterà nel mio fantasma.
Riccardo Ielmini