Fosca giornata in una biblioteca universitaria di Torino: nella nebbia, Superga, lontano sulla cima di una collina. Cammino per i corridoi di una delle sale lettura. Ogni tanto un’occhiata agli scaffali polverosi. Paiono antichissimi. Mi fermo, ne osservo un paio; un esemplare di un libro degli anni quaranta, tascabile e in decadimento, edito da Vita e Pensiero. Tuonante e trionfale, l’autore, un sacerdote, si scaglia contro la modernità, per una nuova sintesi, un “umanesimo cristiano”. Qual era il titolo, e il nome dell’autore? Vedendo le cose dalla prospettiva della guerra appena conclusa, molte delle sue sentenze suonano profetizzanti. Chi scrive più così, oggi? Sfogliando trovo, ripetutamente citato in modo elogiativo, un autore di cui non ho mai sentito parlare: un libro, in particolare, Crederedi Renzo Pezzani (1898 – 1951). Renzo Pezzani?
Nell’ultima settimana ho girato per le biblioteche di mezza Torino per scovare il libro in questione, e altri di questo sconosciuto, poeta e scrittore – anche per ragazzi e per l’infanzia –, insegnante, editore. Illuso di poterne trovare l’Opera omnia, arrivo ad una di queste; dopo essere sceso in uno scantinato, il bibliotecario torna su con un paio di libri che, scoprii poco dopo, erano in dialetto parmigiano. Ma no, un’intera sezione, che comprendeva quei volumi è sparita. Mi diletto allora con gli inaspettati libri di poesia dialettale, dai nomi esuberanti: Al stizz, Tarabacli, Bornisi, Oc luster… dalla carta spessa e pregiata (tutti editi da Battei, casa editrice parmigiana che ripubblicò le opere di Pezzani, per altro dall’espressivo motto: “Nell’utile il bello”), accompagnati da essenziali vignette in bianco e nero.
Poetica attenta ai poveretti, alla “bräva genta”, alle abitudini – oggetti, mestieri, scorci allora già lontani – dei personaggi e degli uomini della Parma in cui Pezzani crebbe e fece l’insegnante, prima di trasferirsi, avendo preso posizioni antifasciste, a Torino, lavorando come editore (oltre a dirigere riviste, fondò delle case proprie, prima Verdone e poi le Edizioni Palatine, entrambe di corta vita – come scrive Giulia Sorgente: “Ma dove, invece e purtroppo, il poeta dovrebbe cedere il posto al manager, all’uomo d’affari, come riconosce lo stesso Pezzani: ‘Il libro è una gioia scriverlo, ma, portato nel gioco del mercato, da bimbo innocente può trasformarsi in mostro divorante’, eppure questo non è né nelle corde, né nel volere di Renzo ‘rifatto poeta, tutto poeta, solamente poeta’”) e poi rifugiandosi in una villa a Castiglione Torinese, dove morì prematuramente, nel 1951, a fianco della madre, isolato e sommerso dai debiti (per un approfondimento sulla vita e sull’opera del parmigiano, rimando all’articolo di Sorgente).
Uno di questi libri si apre con una specie di fiaba. Un pastore che, un giorno, si mette il bel cappello azzurro per la domenica in un giorno feriale: sgualcendosi e sporcandosi, così da rovinarlo per la domenica. Insomma, come quel cappello il dialetto e l’italiano andrebbero appresi entrambi, ma senza confondersi, e rispettandosi l’uno con l’altro (“E Dante era italiano”, così Pezzani chiudeva la questione). Se la gente “vi dirà che i dialetti sono destinati a morire, – diceva altrove – rispondete che appunto per questo preparate pel vostro un monumento nel cuore.”
Il “commoventissimo Pezzani”, come scriveva Pasolini (si veda “Poesia dialettale del Novecento: Nord”, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. I)… In una delle raccolte, Pezzani si diceva felice di aver portato, “dimessamente [confuso] col popolo minuto”, “il cappello con la piuma”, unico distintivo della Poesia. Nell’ultima di queste, Oc luster, in “Av salut, bräva genta!”, a mo’ di congedo dai lettori e dalla vita, ricapitolava: “In meza a sent, la gh’è na poesia / ch’l’è piazuda e la piäz ai sävi e ai mat: / quater paroli con la rima giusta / scritti col cor…”.
Finalmente ho davanti a me i quattordici racconti di Credere (Società Editrice Internazionale – dove Pezzani lavorò –, disegni di Vittoria Cocito Buratti, III edizione, 1934). Sono dedicati a un tale Attilio Barsanti, “cuore senza avarizie”. Qui sotto, ne ho sbobinato uno che mi ha colpito particolarmente, intitolato “L’angelo perduto”. A fine giornata, mi verrebbe da portarmelo con me, questo libro, per potermici attardare con calma, al lume del comodino – ma lo si può solo consultare.
Si tratta di piccole scene, mamme che perdono i mariti in miniera, bambini sventurati, vecchie contadine ammalate, centurioni che desiderano essere battezzati prima di morire, cuori che si “sgelano”, di seminaristi che diventano pastori o che perdono la vita… Un po’ mi ricordano un certo Luigi Santucci (entrambi scrittori per l’infanzia, entrambi poeti, entrambi legati alla Chiesa e alle loro origini), ma con una vena più malinconica. La prosa certo, a tratti suona datata, mentre in altre eccede in sentimentalismo. È infatti un libro che parla di un mondo perduto: senza per questo mancare di insinuare, in chi lo legge oggi, il dubbio che non lo sia ugualmente il nostro.
Per essere uno scrittore del ventesimo secolo, della sua prima metà, Pezzani pare essere un’anomalia, un miracolo, un controsenso, o quasi un insulto. Come se qualcosa non tornasse. Avremmo bisogno di credere, anche noi, disperati, e di un po’ dell’incomprensibile innocenza che anima queste pagine fragili che si staccano.
*
LA SETE
Sono qui per bere. La mia
è sete di poesia.
È lunga, arida sete
di cose fresche e segrete,
d’acque di limpido squillo
sperduto canto di grillo.
E ancor più dell’acqua d’un rio,
oh!, quanta sete di Dio.
(Da Innocenza)
*
L’ANGELO PERDUTO
Quando mia madre mi fece il cuore vi mise dentro il pensiero di Dio. Io lo portai e lo nutrii come un lume e i primi anni della mia fanciullezza l’Angelo custode era con me.
Egli mi dormiva così vicino che lo sentivo respirare e vedevo nel buio sulle sue ali i bagliori d’infinito che nel volo dal cielo alla terra, gli restavano tra piuma e piuma. Se piangevo egli beveva le mie lagrime e mi diceva: – Te le ridarò quando sarai uomo e cercherai le lagrime dell’innocenza.
Nel mio giardino grande come il mondo, l’Angelo era in tutte le ombre e in tutte le luci. Poteva passare tra i rosai senza pungersi; guardare il sole senza restarne abbacinato; scendere tra i pesci rossi della pescheria e camminare per lungo tempo – anche un intero giorno – sulle alghe del fondo; rincorrere nel cielo un’allodola e strapparle il canto dal becco. Le sue ali aperte parevano i battenti della porta del cielo. La sua voce era dolce e terribile; l’udiva un albero e fioriva, l’udiva il serpe e fuggiva.
Col mio Angelo io ero felice. Ed era un angelo tutto mio che mordeva i miei pomi e il mio pane lasciandovi su, col segno dei denti, un sapore di miele e d’incenso che me li faceva più cari e più buoni.
Un giorno seppi da lui che tutti i fanciulli del mondo camminano portati per mano da un angelo.
***
Ma un giorno non trovai più ad attendermi l’Angelo.
Lo cercai nel sole e nell’ombra; egli era fuggito.
Mi parve infine di ritrovarlo nascosto in me, dietro il mio dolore, ferito dal mio primo peccato.
Se lo avessi chiamato forse mi avrebbe risposto: ma la mia voce era diventata grossa e profonda d’istinti e nei miei occhi, come la vespa su due fiori celesti, era caduta la malizia.
***
Avevo diciott’anni quando mi fu data una spada per combattere, una bandiera da difendere, una canzone da cantare, una legione da condurre…
Ero così bello che la gente veniva a guardarmi dai balconi e diceva: – Con quel sangue l’Italia deve vincere! […]
Oh! quella trincea sul Grappa! L’avevamo scavata noi di fanteria, la notte, coi picchi e le pale e le unghie, in silenzio sotto un cielo vibrante di colpi sordi e lontani.
La terra nera era rimasta ferita dal nostro solco a zeta, largo tanto che vi passasse la marmitta del riso e una barella; profonda così che la mitraglia fosse beffata dalla nostra statura.
Era quella la nostra casa senza tetto, il nostro letto senza lenzuolo. Ogni dì vi moriva un fante e quelli che restavano continuavano ad avere fame e pazienza. Di giorno si fumava come mucchi di letame sotto il sole tenero di febbraio, tra l’umido odore della terra che qua e là franava, corrosa dalla neve sfatta. I giorni passavano su di noi come bandiere di luce: il tempo pareva fermo sul quadrante del cielo.
Ma un mattino tra stracci e pidocchi, e scatolette vuote e scarpe slabbrate e reticolati e fosse e fango ecco fiorire sul ciglio della nostra trincea la prima erba, le prime margherite e un odore di viole vincere l’odore della prossima carne corrosa.
Una voglia di primavera vinse tutti: i fanti più contadini fiutavano l’odore della terra e palpavano i fianchi della trincea come quelli di una vacca nera ricca di latte: i più giovani andarono strisciando a cercare il fiore innocente tra un elmetto forato e una macchia di sangue. La trincea poteva essere, così fiorita, una tomba, un davanzale, un altare…
Ma se era tempo di miracoli un altro dono ci attese e fu di quell’alberello adolescente di così pochi rami che la neve non vi resisteva su. L’avevano legato di filo spinoso come un palo qualsiasi, nè gli occhi nostri vi avevano mai badato con un po’ di cuore. Ed ecco un mattino apparirci tutto fiorito, bianco come una nuvoletta, rotondo come un mazzo di sposa. Gli occhi di tutti noi fanti erano su quella fiamma di primo tempo; ma anche il nemico vide l’albero e ne fu geloso. Si destò dapprima un pezzo di breve tiro: il colpo esplose lontano. Un altro colpo forò il cielo e morì nella terra. Altri colpi caddero qua, là, sempre più vicini al piccolo albero inconsapevole.
Una sottile angoscia per lui prese tutti. Un colpo fece cadere nella trincea un ciuffetto di cinque rami inanellati di fiori.
Un colpo sibilando stroncò la pianta avvampò la trincea e un fante si trovò morto vicino all’albero morto.
***
I colpi cessarono ma pareva che sul ciglio della nostra fossa la morte fosse ancora inginocchiata, con le mani rapaci su noi, avida di noi creature di vent’anni.
Fatta sera, il cielo nudo di nuvole ebbe una stella per ogni fante. Una grande pace veniva a me, e, insieme, una voglia di piangere sulla spalla d’un amico. E questo pianto non poteva uscire nè dal dolore nè dalla gioia che sono due creature purissime del nostro spirito. Le stelle erano come parole di Vangelo fuochi di bivacchi d’angeli lontani.
Fu allora che ricordai le parole del mio amico celeste: – Ti darò queste lagrime quando, uomo, cercherai il pianto dell’innocenza.
Ora soltanto, dopo tanto cammino tra spini e reticolati sentivo che il dono della morte mi sarebbe venuto, benedetto, soltanto per quel sentiero. Sentii in un impeto questa volontà di purificazione: la volli in una offerta assoluta di me, delle mie vene. Mi vennero sulle labbra le parole del «Pater».
Pregai nel buio e nel silenzio. La trincea mi parve un tempio, ed improvviso vidi venire a me, tra fanti rovesciati dal sonno e baionette il mio Angelo. Egli usciva dalla tenebra e dalla luce, giovine come ieri, bianco sorridente, fratello della mia riconquistata innocenza.
***
Il giorno di battaglia che sopravvenne io fui sulla trincea con un balzo e i fanti dietro a me con le bombe e la gloria. In un momento di sosta mi volsi e vidi l’Angelo che piangeva e si copriva gli occhi per non vedere il sangue degli uomini, ma mi diceva: – Più avanti! Poi la sera nel mio rifugio lo sentii presso di me, cingermi le mani, dischiudermi il cuore alle parole di Dio, distendersi nella mia stessa paglia e dormire vicino a me dopo avermi coperto d’una sua ala.
*
I POVERI
I poveri non sono quelli che vedete
mostrare la fame e la sete,
gli abiti come sacchi pieni delle loro ossa,
la tasca vuota, una piaga rossa,
la mano che aspetta, lo sguardo attento
che prova il vostro cuore
sulla pietra come l’argento.
I poveri sono altrove, lontano dallo sguardo di tutti:
vecchine sole, uomini distrutti.
Gente che ogni giorno si toglie
un boccone dal boccone
e per piangere si nasconde
e non vuole compassione.
Vive pulita e decente
dentro l’ombra d’altra gente.
I poveri sono quelli che seggono
compiti sulle panchine dei viali,
che ascoltano musiche, leggono
vecchi ingialliti giornali.
E li spaura il pensiero
dell’inverno imminente,
la foglia che cade,
la pioggia sottile
che più non ha luce d’aprile,
che lascia deserte le strade.
I poveri sono quelli che sentite tossire
nelle case, chissà dove,
come tarli nei vecchi legni,
senza poter morire.
Sono quelli che troverete
un giorno, con gli occhi spenti:
morti senza prete,
affamati di Sacramenti.
*
L’articolo e la scelta dei testi sono a cura di Alessandro Burrone