Tutti i movimenti hanno bisogno di un ‘martire’, di uno che ne testimoni l’autenticità con la morte, che lo sigilli e lo giustifichi. Il martire del surrealismo è stato René Crevel: si uccise nel giugno del 1935, preferì il gas, con un gesto tanto politico da apparire una poetica. Erano i giorni del confuso “Congrès international des écrivains pour la défense de la culture”, a Parigi: la delegazione russa, tramite Il’ja Ehrenburg, aveva esautorato il gruppo surrealista dal convegno. André Breton prese a schiaffi Ehrenburg, che aveva accusato i surrealisti di essere genericamente pederasti. Per Crevel, sedotto dal pensiero di Trotskij, dalla fatale utopia di convergere la poesia nel gesto, l’estro estetico nel principio etico, che nel suo Le Clavecin de Diderot (1932; edito da Feltrinelli nel 1980, per la cura di Vito Carofiglio) aveva dedicato un capitolo a Le surréalisme au service de la révolution, il dissidio tra i sovietici e il soviet supremo di tutti gli –ismi era inaccettabile. Tentò di combinare una cena tra i duellanti, fedele colonnello di Breton, fatuo fautore della rivoluzione. Non ci fu modo di sanare la ferita.
Il 27 giugno del 1935 “Monde” dedicava un “Numéro spécial sur le Congrès des Ecrivans”, con il cardinalizio discorso di André Gide in prima pagina, citando Aldous Huxley, Maksim Gor’kij, André Malraux; una vignetta ritraeva E.M. Fortser – s’era impegnato a discutere su “La libertà di espressione e la tradizione culturale” – con un naso che pareva un coltello. Crevel era morto dieci giorni prima, lasciando un biglietto che ha l’afrore di un aforisma: “Vi prego, crematemi. Disgusto”. Era malato da tempo; nato a Parigi il 10 agosto del 1900, quattordicenne aveva assistito, obbligato dalla sadica madre, al suicidio del padre, evanescente dongiovanni: scelse di impiccarsi; l’uomo che pende, che penzola, che brancola tra lo schifo di qui e il nulla di là ossessionò il giovane René. In un quadro del 1928, firmato Jacques-Émile Blanche, ha il viso marmoreo di un Antinoo, un ragazzo perduto da amare fino alla perdizione: ci sono corpi che sembrano una gabbia, altri che conservano l’eco di un pozzo, di un moltiplicato abisso, l’odore di asfodeli dell’aldilà.
Conobbe Breton a vent’anni, fu l’interprete più audace e notturno del surrealismo; Klaus Mann, di cui fu l’amante, ne rievoca il profilo, albino, statuario, da fauno con dieci mani, nel romanzo La svolta. “Klaus lo aveva incontrato nel 1925, e come tutti era rimasto fulminato dal fascino disarmante di quell’incrocio tra un arcangelo imbronciato e un boxeur. René Crevel arrivava allora, inatteso e senza fiato, dalla Scuola Militare dove finiva i due anni di servizio, nella piccola camera d’albergo di Klaus, deponeva a terra il cappotto chiaro, e si sistemava sul letto per leggere ad alta voce il romanzo che stava scrivendo, La morte difficile. I colori acidi che preferiva, e che rendevano astratta e chiassosa la sua figura di dandy, erano scelti in opposizione alla madre, che vestiva sempre di nero” (così Daria Galateria, in un articolo pubblicato nel 1992 su “la Repubblica”). Aveva diretto la rivista “aventure”, che durò tre numeri, dal novembre del 1921 al gennaio del ’22, ospitando pezzi di Paul Morand e Louis Aragon, le poesie di Jean Cocteau, i calembour di Tristan Tzara. L’incontro con Tzara e l’epica dada fu conciso, concitato: Crevel restò sempre un surrealista, ma del surrealismo, come dire, fu l’anima apofatica, un cultore di apocalissi, mestatore di ombre e candore. Spesso, nei suoi testi, evoca la notte, quel boudoir della morte, dove gli uomini incontrano il proprio io definitivo, assassino. Lo terrorizzava la postura cartesiana, l’idolatria geometrica, il numero – che registra lo smisurato in alfabeto misurabile – e la norma; voleva essere un tutto, una sopraffina esagerazione.
Così, in un cammeo di stringata efficacia lo riassume Massimo Raffaeli, che di Crevel è lettore massimo (per Einaudi ha tradotto La morte difficile, 1992): “giovane, bello, raffinato fino all’estenuazione, omosessuale, scrittore militante, comunista, malato di tisi, protagonista della più esclusiva mondanità, Crevel, è stato detto, fu l’arcangelo dell’avanguardia…”. Così, in una didascalia autobiografica, si racconta lui, Crevel: “Trascurò definitivamente il vecchio granaio logico-realista, capendo che era da vigliacchi rinchiudersi in una mediocrità ragionevole e che, nei veri poeti, non trovava né giochi di parole, né giochi d’immagini, ma li amava – e fra tutti in particolare Rimbaud e Lautréamont – per il loro potere liberatorio. Ha partecipato alle prime esperienze ipnotiche da cui André Breton trasse spunti per il suo Manifesto del Surrealismo. Ha quindi potuto constatare di persona che il surrealismo era il meno letterario e il più disinteressato dei movimenti e, persuaso che non c’è vita morale possibile per chi non è docile a seguire le vie sotterranee o si rifiuta di riconoscere la realtà delle forze oscure, ha deciso una volta per tutte e col rischio di passare per un Don Chisciotte, un arrivista o un pazzo, di cercare, attraverso le sue azioni e gli scritti, di abbattere le barriere che limitano l’uomo e non lo sostengono” (va letto, a proposito: René Crevel, Lo spirito contro la ragione e altri scritti, Medusa, 2017, a cura di Claudiana Fumagalli). Amava le sorelle Brontë, “figlie del vento”, a cui dedicò un saggio pieno di intuizioni poetiche, che termina con l’idea che la letteratura “non è che vento, vento che continua a ululare e a battere contro le persiane”. Nel 1925 coordinò una “inchiesta… sul suicidio”, con dilagante allegria: uccidersi, in fondo, era un ‘colpo di teatro’ come un altro. Nello stesso anno scrisse una lettera aperta a Paul Claudel, reo di aver accusato il surrealismo – pure lui – di crudele pederastia; l’attacco è furibondo: “Monsieur, la nostra attività si può definire pederastica per la confusione che introduce nella mente di chi non vi partecipa. Non ci interessa la creazione. Speriamo con tutte le nostre forze che rivoluzioni, guerre, insurrezioni coloniali riescano ad annientare questa civiltà occidentale di cui difendete i parassiti perfino in Oriente, e crediamo che questa devastazione sia il meno inaccettabile tra gli affari dello spirito… Cogliamo l’occasione di dissociarci pubblicamente da tutto ciò che è francese, nelle parole come nelle azioni”.
Il 22 giugno del ’35 fu Aragon, nel fatidico “Congrès international des écrivains”, a leggere il discorso agli operai di Boulogne che Crevel aveva tenuto il primo maggio. Lo presero come un testamento. Era un insieme di proclami vaghi, indefiniti, che culminavano in un finale da far tremare gli spiriti: “E se, compagni, il trionfo del socialismo in Unione Sovietica ci fa ripetere in modo sempre più perentorio il mirabile slogan ‘Proletari di tutto il mondo, unitevi!’, i pericoli che minacciano la cultura della società capitalista in disfacimento ci fanno piangere: Intellettuali di tutto il mondo, unitevi ai proletari di tutto il mondo”. Era il testo più brutto di Crevel; chissà cosa avrà pensato Boris Pasternak, obbligato a partecipare a quel patetico “Congrès” dal politburo sovietico – che si avviava verso la trionfale stagione dei Gulag –, che diede, lì per lì, stringata, nuda, evangelica, la sola definizione di poesia possibile, priva della patina del procacciatore di folle, “essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee”.
Crevel era uno propenso al volo, piuttosto, amava ogni sonnambula ingenuità: ne fecero un messia. In Francia, esistono due studi biografici importanti su René Crevel, di Michel Carassou (Fayard, 1989) e di François Buot (Grasset, 1991). A me, chissà perché, Crevel ricorda Delmore Schwartz: di eclatante diversità, con le ali sul petto, entrambi rimano con una stanza vuota, sono, infine, soli.
*
Notte
Dolcemente dormire all’ombra dell’oblio
questa sera
sterminerò gli erranti
ballerini silenti
della notte
i loro piedi di velluto nero
sono un supplizio per la mia carne nuda
dolce supplizio come l’ala del pipistrello
lieve perché comporti orrore
negli spigoli dove la pelle è impaurita, commossa
per amare meglio, affascinata dalla paura
di un altro corpo, del freddo.
Ma quale fiume per la mia fuga questa sera, ragione?
Questa è l’ora del cattivo ragazzo
è l’ora del vandalo.
Grandi occhi graffiati d’ombra stanotte
sarebbero così dolci, così dolci.
Imprigionato dalle stagioni tristi
sono solo, un bel crimine per lui
là, là, nei cunicoli dell’orizzonte
qualche serpente raggelato dal non amore.
Ma dove scorre, dove cola lontano
il fiume di cui ha bisogno
per fuggire questa sera la mia ragione?
Sulle rive volano le ragazze
i loro occhi fiacchi, i capelli lampeggiano,
non ho nulla da dire a queste ragazze
appartengono
ai cattivi per sempre giovani
sono l’orgoglio
dei domatori di bestie.
Resto solo, miraggio di un crimine,
due grandi occhi foraggiati di ombre
sarebbero così dolci, così dolci.
Questa è l’ora dei delinquenti.
1924
*
L’infanzia dell’arte
Fissare linee e tratti, cioè: gettare una rete di immagini su ciò che è in fuga, significa imprigionare l’essere, la cosa in un contorno, riducendola in schiavitù, condannandola alla decadenza.
Per dominare bisogna conoscere, e conoscere è anzi tutto descrivere, illuminare, imporre una luce che limiti queste forze la cui cecità moltiplicata avrebbe lacerato, sfasciato il descrittore, se non avesse posto tra lui e il descritto, la descrizione, con le sue griglie verbali, le sue barre colorate. Tutto ciò protegge, certo, ma imprigiona, isola da ciò a cui pensavamo di avvicinarci.
Il primo disegno dell’uomo, sulla parete della sua caverna, era il profilo di un animale. L’autorevole selce con cui lo ha inciso, afferma con la punta autorevolmente sismografica la volontà – esigenza di necessità – di tramutare un soggetto d’angoscia in oggetto d’uso.
Che le bestie feroci dei boschi siano degenerate in grasse bestie domestiche, nessun quartiere è concesso alle fiere selvagge. Troppo spogli i lati di quel grembo di pietra, le pareti di quella stanza dove il desiderio di tornare nella madre riassume i meno sedentari al mangiare e al dormire, e il leone ad accettare di farsi ritrarre nel bronzo irrisorio mentre ammira, dall’alto di un focolare piuttosto francese, una famiglia che suddivide la pera in due, in quattro, in sei, in otto. Nel vestibolo, un orso scolpito nel legno è condannato a fungere da portaombrelli. Un altro leone è ridotto a fermacarte, in una casa, in un luogo simile della capitale.
Rappresentazioni troppo familiari, magia di basso profilo, infine scaltra, per imbastardire chi indossa bocche tanto grandi!
Se la nostalgia di un po’ di ferocia ti porta al Jardin d’Acclimatation, vai nello zoo delle bestie neonate e guarda come i tuoi complici trattano i piccoli quadrupedi. Cuccioli di leone allattati da una nutrice; grappoli di piccoli d’orso si agitano come fossero in un reparto di neonatologia. Porcellini d’India alloggiati meglio che in uno chalet di montagna. Alcuni umani gli porgono dei biberon. Che razza di parodia… Eravamo venuti per ammirare il libero gioco dell’istinto e assistiamo a un vivaio di burocrati.
Utilizzare un movimento, cioè catturarlo. La violenza è fonte di energia. Non può essere altrimenti. Il XX secolo, elettrico, ha sfruttato il torrente cantato nel XIX. Il poeta non si lamenta, perché ad ogni suo passo sbocciano geyser. Una cascata si perde, dieci sbocciano. Sta ad altri metterle in bottiglia. L’immaginazione è la grande fonte. E il disprezzo che tiene sotto scacco l’economia di un mondo, di un tempo.
L’individuo domanda che il suo particolare sia preminente sul generale, ma la specie umana fraintende l’azione dell’universo. Da qui: antropocentrismo, egocentrismo, idiota culto del soggettivo. Ognuno si giudica come il solo soggetto in movimento in un ambiente di oggetti immobili. Così, al mondo esteriore è preferito quello interiore. Ma il secondo è il riflesso del primo: una cosa morta, riflette la morte.
Oggetti a funzionamento simbolico. Dopo specchi che pietrificano e che deformano, gli specchi metamorfici. Elementi diversi, assemblati a seconda dei rapporti vitali che li compongono, senza preoccupazione plastica, con i tratti liberati, linee risorte al movimento, inscrivono nello spazio l’eco di un desiderio che, unico, dona spessore irradiato, irradiandosi nel tempo.
1933, Minotaure, n.1
René Crevel