Nato il 4 aprile del 1858 in Normandia, Remy de Gourmont giunse poco più che ventenne a Parigi, dove trovò impiego come funzionario presso la Bibliothèque Nationale, lavoro perso nel suo infausto trentatreesimo anno di vita, nel quale fu vittima non solo di una campagna denigratoria dovuta a una chiara presa di parte antinazionalista ma anche di un lupus tubercolotico – Apollinaire gli affibbierà per questo e per i suoi interessi in ambito esoterico il soprannome Herpes Trismegisto – che lo sfigurò, spingendolo a isolarsi nel suo appartamento, piuttosto tetro stando alla testimonianza di Cendrars, il quale lo elesse, e non sarà il solo, a suo maestro.
Nel 1886 Gourmont aveva pubblicato il suo primo romanzo, scoperto il verso libero, e incontrato una donna, Berthe du Courrière, adepta di sedute spiritiche nonché modella per quello che il fustigatore cattolico Léon Bloy ha causticamente ma con cognizione di causa definito “il busto di gesso di una zoccola col berretto frigio”, e vale a dire massonico, ovvero la Marianna simbolo della Repubblica francese, Courrière che sarà la musa delle filosofiche Lettres à Sixtine, composte l’anno seguente e pubblicate postume, ma soprattutto colei che ispirerà a Joris-Karl Huysmans Laggiù (o L’abisso), il celebre studio romanzesco del milieu satanista di Parigi.
Del periodo sono anche le frequentazioni letterarie di Gourmont con l’autore di Controcorrente (o A ritroso), Mallarmé e Villiers de L’Îsle-Adam, oltre alla fondazione di due riviste, L’Imagier, assieme ad Alfred Jarry, e il Mercure de France, da cui l’omonima casa editrice, e non solo ma anche e soprattutto per via del suo grave problema fisico vivrà soltanto per la letteratura – in Arcano 17 di André Breton si può trovare la davvero poco gradevole definizione di “topo mangiatore di libri” – finendo con l’aver su di essa una fondamentale influenza, testimoniata non solo dagli stessi Apollinaire e Cendrars, ma anche da T. S. Eliot e Richard Aldington, il teorico del gruppo imagista, da Ezra Pound e Aldous Huxley, e, filtrata dai due grandi bardi anglofoni ogni posa decadenista (nei volti come fiori di In una stazione della metro di Pound: “L’apparizione di questi volti nella folla; / Petali su un umido, nero ramo”; e poi nella visione delle viole de La terra desolata di Eliot: “Aprile è il mese più crudele, nel generare / Viole dalla terra morta […] ”), dal gioco poetico del correlativo oggettivo degli Ossi di seppia di Eugenio Montale, e infine da due tra nomi più noti della letteratura e della filosofia francesi di oggi, Michel Houellebecq e Michel Onfray.
L’autore de Le particelle elementari nel 1991 ha infatti curato la più recente selezione francese di versi del poeta normanno, L’Odeur des jacynthes, mentre il suo conterraneo Onfray nel 1988 gli ha dedicato il suo primissimo articolo, riscoperto e tradotto alla fine del volume antologico edito da Mimesis nel 2018, Litanie dei fiori, titolo analogo a quello di una delle due sole raccolte di versi proposte dai sempre un po’ distratti editori italiani, Il libro delle Litanie, Modernissima nel 1923, e Litanie dei fiori, Maestri nel 1983, ad affiancare le poche opere presenti nei cataloghi, tra le quali i romanzi Sixtine e Una notte al Lussemburgo, e le Lettere di un satiro.
Più nota e diffusa è la Fisica dell’amore – Saggio sull’istinto sessuale, opera tradotta in inglese dallo stesso Pound, autore tra l’altro di un necrologio del suo maestro, con cui intrattiene delle relazioni poetiche minuziosamente analizzate dallo studioso e traduttore Richard Sieburth, e che, almeno stando a quanto riporta il non sempre attendibile Cendrars in uno dei suoi romanzi mitobiografici, sarebbe stata bruciata in un cortile universitario inglese nel 1910.
Mai tradotti, dunque, i testi filologici e critici, né i due volumi di ritratti letterari intitolati Livres des masques, né le Lettres à Sixtine, né le Lettres intimes à l’Amazone, queste ultime del 1910, anno in cui nella vita del poeta fece capolino una giovane e ricca donna lesbica originaria degli Stati Uniti, Natalie Barney, promotrice di un salotto molto probabilmente più epicureo che letterario.
Ed “epicureo tranquillo, filosofo danzante, principe degli scettici e coscienza critica di una generazione, poeta sottile e sensibile”, lo descriverà Bloy nel breve saggio La langue de Dieu, edito nel volume Belluaires et Porchers, e infatti Gourmont fu autore dal dichiarato agnosticismo assolutamente anticlericale, d’ispirazione dominata da due istanze, e vale a dire l’evidente fascinazione per la bellezza della liturgia, della fede sincera del popolo rurale e della dossologia su cui si fonda, e trionfa, la cristianità romana cui dedicò uno studio, Il latino mistico, e che tuttavia, per dirla con Alberto Arbasino, “profana con i riti e i paramenti del Divin Marchese”, de Sade, in nome di uno scetticismo, di una costante analisi dei valori e di una certa diffidenza satirica nei confronti dei sentimentalismi e dei sistemi morali, che, come ha messo bene in evidenza Onfray, sulla scorta di Schopenhauer e Nietzsche, a suo avviso altro non sarebbero che le maschere di bisogni bassamente fisiologici, della tirannia degli istinti biologici che muovono gli uomini tra l’ordine e il caos: “Il principale di questi il secondo, la femmina / È un elemento, la femmina / È un caos / Una piovra / Un processo biologico”, come ha scritto lo stesso Pound nello splendido Canto XXIX.
La distanza tra i florilegi del male delle litanie di Gourmont e il latino mistico è analoga a quella, sottolineata da Cendrars nei suoi romanzi autobiografici, tra le muse ispiratrici del poeta e le Laure e le Beatrici dei grandi del tardo Medioevo, visto che con le signore de Courrière e le signorine Barney si esplora ormai “l’altro capo della scala letteraria”, delle disgrazie, più che grazie, della femminilità, sebbene col provenzalista Pound i comuni debiti nei confronti dei trovatori e quindi degli idealismi stilnovisti, in Gourmont evidentemente del tutto rovescia ti di senso, siano, assieme a una precisa convergenza sul piano della filosofia, del tutto lampanti.
In ambito biologico, naturalistico, e più precisamente nel regno vegetale, è il fiore l’oggetto che da sempre rappresenta la donna, dalla poesia d’ascendenza platonica, idealista, metafisica dello stilnovo alla modernità imagista più greve, di Gourmont come di D. H. Lawrence, l’una enigmatica e decadente, l’altra esplicita e priva d’indulgenze, per esempio quando nei versi di Frost Flowers, criticandone l’indole algida, cerebrale e moderna, anticipando certe immagini houellebecquiane ispirate al poeta di Sixtine, scrive che troppe giovani donne: “Sono l’esito dell’aspro inverno, queste primizie […] // Sono i fiori della mortificazione vivida di ghiaccio”.
Se il Novecento poetico è e sarà poundiano (ma dovrebbe essere pure un po’ più lawrenciano), così come l’Ottocento fu chiaramente baudelairiano (ma fu necessariamente anche molto rimbaudiano), il trait d’union tra i due secoli della modernità ha quindi un nome piuttosto certo, meno noto e forse non altrettanto importante in senso assoluto, ma tale in senso relativo, di “connessione”. D’altra parte basta seguire le tracce. Che portano a Remy de Gourmont…
Marco Settimini
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“Epigrammi”. Due epigrammi
(pubblicati sulla rivista americana Poetry nel gennaio del 1915)
Non amo più
I fiori non li amo più, han giorni brevi e contati.
Appena il loro cuore si è dischiuso e ci ha invitati
A struggersi,
Inevitabile rito, li si percepisce rassegnati,
A richiudersi.
Le donne non le amo più, il loro sorriso è troppo malato.
Non appena i nostri cuori per voi han palpitato,
Vane bellezze,
Le vostre labbra si scostano, e le mani son fiore spinato
Alle nostre tenerezze.
*
La vasca
Di foglie morte la vasca a poco a poco si è colmata.
Non cercatevi acqua pura. Quella dalle piogge portata
Dagli uccelli è stata bevuta, stilla a stilla.
Non vi resta che la morte. Una tomba spoglia.
Ma non guardate sul fondo, tra il fogliame.
Sogni, tenerezze, turbamenti, brame:
Qualcosa in questa bara ancor si muove,
Un non so che d’assurdo che morir non vuole.