Benjamin Fondane, l’uomo che ha scotennato i filosofi
Cultura generale
La Legge non è la Regola. La distinzione pare accessoria, ma è sostanziale. Il Primo Testamento testimonia il patto tra Dio e Israele, sancito dalla Legge. L’ebraismo, è stato detto, è un’ortoprassi: si salda sui comandamenti assegnati a Mosè, graffiati su pietra; si sviluppa nei 613 precetti (mitzvot) distillati da Maimonide. Eppure, appunto: la Legge non è la Regola, e una Regola non procede per precetti né per comandamenti. Una Regola, semmai, si organizza in capitoli, in capi: che possono essere decapitati. In effetti, una Regola nasce perché sia superata. La Regola non si esamina con filo filologico: esalta, va superata, dopo decenni di esercizio, con un salto, in favore di una adesione più grande. La Regola, per lo più, va esaurita, esautorata, evasa in eccesso.
Non va dimenticato: la Regola nasce in assenza di regole. Ribadendo “Non crediate che sia venuto ad abrogare la legge… ma a compiere” (Mt 5, 17), Gesù oblitera la legge: è lui la nuova alleanza, patto crocefisso, legge incisa a colpi di chiodo. La resurrezione, appunto, non stabilisce una continuità con la Legge, ma un compimento. Quanto al resto, il Nazareno non distribuisce precetti ma si esprime per beatitudini, non enumera norme ma parla per parabola; pretende, piuttosto, la sequela. Rifate ciò che ho fatto io, pare dire: evidenza che rende evasiva la perizia letteraria di scribi e farisei. Anche un analfabeta può seguire – e agire di conseguenza, eseguire. Per questo, quando Francesco, nel 1210, accede a papa Innocenzo III non ha con sé alcun codice, tanto meno una lista di precetti; chiede che sia confermata la formula vitae dei frati, articolata intorno a tre versetti evangelici: “Se vuoi essere perfetto va’ e vendi ogni bene, dà tutto ai poveri… e seguimi” (Mt 19, 21), “Non prendere nulla, né bastone né borsa, né pane né soldi” (Lc 9, 3); “Se vuoi seguirmi annientati, perditi, abbraccia la croce, seguimi” (Mt 16, 24). Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che “i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e le loro sostanze e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno frequentavano insieme il tempio e nelle case spezzavano il pane prendendo il cibo con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio” (At 2, 44-47). La formula dà forma ma perviene a deformazione. L’assenza di regole è la ragione della creatività del cristianesimo originario, che si sviluppa in modi – e testi – spesso difformi tra loro. L’uomo, però, ha bisogno di installarsi in codici per porre una scala tra se e l’assoluto.
La Regola di Benedetto nasce sondando la debolezza: lasciato solo, il monaco dissipa il proprio tempo nel vagabondaggio – i monaci “detti girovaghi” – o crolla nel mondo, nel mondano – i “sarabaiti, molli come piombo, perché non sono stati temprati come l’oro nel crogiolo dell’esperienza di una regola”. Opera della vita, calcolata nell’eremo del sudore e dell’errore, scritta tra il 530 e il 550, la Regola si configura come scuola (dominici schola servitii) e milizia (“dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza”). Nella sua statura di addestramento, di disciplina temporanea e terrena, essenziale per inutilità, pratica, semmai, per impartire i “primordi della vita monastica”, è la sua grandezza. Il Vangelo spacca il sepolcro della Legge, fa accedere a una libertà vorticosa, che acceca: la Regola raffina i passi presso il precipizio.
Benedetto disponeva di diversi modelli – soprattutto: Basilio, Agostino, le Istituzioni cenobitiche di Giovanni Cassiano, la cosiddetta “Regula Magistri” –, ma la semplicità, la potenza pervasiva e didascalica consentì alla sua Regola una vastissima diffusione in tutta Europa, fino a diventare il fondamento di diversi ordini monastici. Il successo è questione ‘di stile’: Benedetto procede per sintesi, sottraendo, dandosi all’afflato aforistico (“Il settimo grado dell’umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell’esserne convinto dal profondo del cuore”), limando l’iride del verbo in proiettile. La sua logica, condotta con il cilicio e con il cinismo, è ineffabile, feroce: bisognerebbe avvicinare la Regola al Tractatus di Ludwig Wittgenstein – che ha la stessa ambizione di creare accoliti, sotto la sindone del pudore – per capirne la piena potenza sapienziale. La Regola, registrata alla “soprannaturale obbedienza”, non dà norme all’anima: riassume la Storia in un giorno, i millenni nell’Ufficio divino, il mondo nei singoli, singolari gesti del monaco, ciascuno dei quali, inconsapevolmente, regge il creato. La Regola, in fondo, infonde una danza nel delirio del divenire, impone il canto.
La Regola, soprattutto, scandisce il tempo e riedifica il tempio, cioè il corpo. Si entra morti in monastero, per risorgere, consoni a quell’altro tempo, celestiale; del corpo fisico si fa crogiolo preparando quello che sarà, pronto al giudizio. Ogni giorno, nella sua rituale ripetizione – sempre uguale e sempre diverso – è l’ultimo, ogni ora quella perfetta, liquefatta. La Regola estrae armonia dal caos, traccia un desiderio nel marasma del cosmo. Il corpo è lo zenit dell’addestramento: la Regola detiene una dieta, spirituale, cioè fisica. “A tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte”; “quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno”; “tutti si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi”; “il monaco si guardi dall’ingordigia”; “evitare la sazietà e ancor più l’ubriachezza”. Il corpo è il tempio dell’incontro con Dio – il rito pretende, per quanto parca, una contorsione della carne, un atto marziale – per questo va frenato, rifinito, ottimizzato; è l’unica proprietà di cui il monaco può fare dono al Padre, altro non ha.
Anche del tempo si fa dono. Il tempo corrode la carne: la Regola castra il dominio di Crono, infiamma, per forza liturgica, l’immortalità. Solo chi offre il corpo, già divorato da Dio, vive nella beatitudine dell’inatteso, non attendendo più nulla. “L’ozio è nemico dell’anima”, la serratura da cui penetra, insidioso, il maligno: per questo “i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore”. Il lavoro è stabilito “da Pasqua fino al 14 settembre” dalle 5 alle 9 e dalle 14 alle 18; “dal 14 settembre, fino al principio della Quaresima” la scansione è dalle 9 (dopo la Terza) alle 14; durante la Quaresima il lavoro è previsto dalle “9 inoltrate… fino verso le 4 pomeridiane”. Il resto del tempo è suddiviso tra studio e preghiera; la Regola modula anche le notti, indicando i momenti dell’Ufficio notturno. Non c’è istante che non sia scandito dalla Regola: l’ozio, che nel mondo romano – Seneca, ad esempio – e in quello orientale – Kenko – è lo spazio del pensiero, della contemplazione, della fuga dalla follia del mondo, è inutile in monastero, dove primeggia il pregare, cioè il canto all’unisono. Da cosa bisogna fuggire, d’altronde, se si vive già nel regno? Nello sterminio dell’individuo è il brillio dell’autentica libertà.
Si potrebbe dire – è stato detto, in effetti – che la Regola sia il prototipo, il modello per la gestione di una odierna multinazionale. Organizzazione del lavoro, efficienza, rapidità nella soluzione dei problemi, semplicità esecutiva la contraddistinguono. Tra l’operaio, il dirigente, il manager, l’amministratore delegato, il quadro – equivalenti nella mania – e il monaco, tuttavia, la distanza è radicale. Il lavoro del monaco non ha per fine la produzione ma l’estasi: il lavoro è l’estrinsecazione della preghiera incessante, è preghiera esso stesso. Il tempo non è imposto dalle necessità della fabbrica: è l’abito appropriato, perché tra vita e lavoro non c’è distanza (dunque, angoscia). Il lavoro stipendiato, al contrario, espropria, scorpora da sé; il tempo non è donato ma perso; si guadagna per spendere in favore della propria frustrazione. Il lusso indica una vita votata alla vanità, l’ambizione è una tenacia nel nulla, la ferocia, finché foraggia l’ego, è blanda, degna vendemmia del terrore. Invece, “ai monaci non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria volontà”. La spoliazione suprema, agonia dell’io, riguarda il coraggio di chi preferisce l’anonimato dei beati. Potremmo dire che il lavoro è proficuo, provvidenziale, solo se ha Dio come scopo, ma questo è un discorso che va per evanescenze. Nella piramide rovesciata del monastero – il priore è il primo tra gli ultimi – il monaco ha la ferma felicità di chi ha “rinnegato completamente se stesso” – come Pietro ha rinnegato Cristo, a sancire l’enigmatico legame con Lui. Non attende alcuna promozione, il monaco, sa di vivere già nel premio. Accetta di “rendersi estraneo alla mentalità del mondo” per salvare il mondo.