Dobbiamo metterci l’anima in pace: Bukowski è morto, sepolto, andato. Basta! Per quanto si possa continuare a rimestare nella tomba, non lo si potrà tirare fuori vivo, bersi ancora un birra in sua compagnia e parlare di donne. Lo so che è dura da accettare, ma tutto finisce, anche le storie d’amore letterarie, per quanto la cosa possa essere spiacevole. Certo, nel panorama attuale, non è che abbondino gli autori di rottura e, se l’idea è quella di comprare uno dei nostri scrittori che si contendono le vetrine, è sempre meglio tornare a lui. Ma non si può nemmeno continuare a limitarsi a uno conclamato e su cui si sono scritte tesi e tesi di laurea. Sarebbe come rinchiudersi in casa, a vent’anni, con le mutandine dimenticate da un amore oramai finito, e non uscire più. È una cosa ossessiva, maniacale, un vero e proprio culto dei morti. Necrofilia, insomma. Le case editrici, in tal senso, non ci aiutano. Invece che cercare nuovi autori di spessore, insistono nello spremere sangue dalle ossa dei trapassati e nel far leva sulla nostra nostalgia. E così ecco l’ennesima edizione, con un bel po’ di racconti inediti: La campana non suona per te, Guanda, 2018. E chissà quanto ancora ci dovremo aspettare nei prossimi anni. Già ne abbiamo viste in abbondanza: lettere agli amici, poesie come se piovesse. Per Dio, fermatevi, e lasciate riposare in pace il povero Bukowski!
Non voglio dire che sia tutto da buttare quello che è stato dato alle stampe post mortem, ma neppure che si sia trattato, ogni volta, di qualcosa di imprescindibile. Lo scrittore di L.A. era un buon diavolo ma, poveretto, molte, troppe volte ha scritto anche solo per allenamento, per far quadrare i conti in casa, perché il lavoro di narratore aveva preso a girare come si deve alla fine e, giustamente, voleva ottenere in età matura tutto ciò che non aveva avuto in gioventù. È comprensibile. Tra quelli che per vivere hanno dovuto tirar fuori tutta l’ispirazione possibile e anche di più, peraltro, lui è tra quelli che hanno fatto meglio. Però… però, più di una volta, i suoi racconti, si percepisce, sono buttati giù in fretta, solo perché c’è un pezzo da consegnare il prima possibile, magari per una rivista pornografica o affine. Se non furono pubblicati a suo tempo, ci sarà stato pure un motivo.
Se poi siete degli studiosi incalliti del personaggio, allora ok, compratevi pure questo libro, beveteci e fumateci sopra qualcosa. La lettura è piacevole, scorrevole. Bukowski, anche quando non è al suo meglio, è comunque una spanna sopra la maggior parte. La prosa è sempre quella a cui ci ha abituati: secca, cinica, dall’ironia bastarda, e meno estemporanea di quanto potrebbe sembrare. In La campana non suona per te, troverete quelli che si potrebbero definire tanti lavori allo stadio di abbozzo che, tra la fine degli anni ’40 e la metà degli ’80, finirono su tutta una serie di riviste underground e altre meno nobili. Successivamente, nel corso degli anni, questi scritti verranno sviluppati e resi in una forma migliore in altre pubblicazioni, oramai note a tutti, dalle Storie di ordinaria follia ai romanzi. Resta il fatto che, se cercate il meglio di Bukowski, o se siete un giovane che non l’ha mai letto, meglio sarebbe partire con qualche suo classico.
Se poi posso mandare al diavolo il proverbiale distacco del recensore, per rivolgere uno spassionato consiglio al lettore, quello che mi permetterei di dirgli è: guarda che ci sono tanti autori italiani che magari potrebbero piacerti altrettanto, ma se ti fossilizzi su Bukowski non li scoprirai mai. Leggere gli americani è importante, direi fondamentale, ma l’America non è il mondo e, soprattutto, l’America ha molti figli sparsi per il globo, anche qui nel nostro paese. In tanti siamo eredi illegittimi di Hank, di Carver, Bret Easton Ellis, e via dicendo. Per cui, sempre se posso permettermi, caro lettore, fratello, potresti per esempio andarti a leggere il bravissimo Francesco Dezio, con il suo libro di prossima uscita per TerraRossa, La gente per bene. Per non parlare del sommo Franz Krauspenhaar che, sinceramente, non mi sembra manchi di niente per essere altrettanto folle, sporcaccione e geniale, se non il successo mondiale – ma quello è un particolare secondario. Poi ce ne sarebbero tanti, alcuni che certo non necessitano di pubblicità alla fine di una recensione un poco sopra le righe come questa. Cerca tra i piccoli e qualcosa troverai, come il mio amico Stefano Gianuario, con il suo Vanilla Scent, Robin Edizioni, 2017, che credo sia l’unico ad aver buttato giù più birra di Bukowski riuscendo comunque a non risentirne nella sintassi – o forse era l’editor a non essere sbronzo? Poi, incidentalmente, se ti va, ci sarei pure io, che sono stato definito “più bukowskiano di Bukowski” da un altro critico che avevo corrotto offrendogli da bere, secondo lo stile appreso oltreoceano.
Matteo Fais