I bei libri, spesso, viaggiano nascosti. Questo, piglia alla gola agosto, lo scotenna con l’indecenza di un altro mondo. Me lo invia Antonio Trucillo, poeta talentuoso – ricordo La nuvèla, Nella luce di un giorno di paga, Un’idea di bene – dunque fuori dalla cagnara dell’edilizia editoriale. Il libro, edito da Ensemble, è la traduzione di un poema liturgico di Ramana Maharshi (1879-1950), mistico induista tra i più venerati dell’India, che ha attinenza – scrive Trucillo – “coi grandi mistici di ogni tempo e cultura, come Rumi, Isacco di Ninive, Milarepa o Angela da Foligno”. Non so se sia così – il mistico esprime una personalità allucinante, imparagonabile – ma per agiografia (cioè, ciò che vorrei essere) sono affascinato dagli estremisti dello spirito, dagli atleti di dio, realizzati lungo la via del rischio, che come lascito insegnano a lasciare tutto. Proprio questo m’impania nella poesia: rompe i cardini della letteratura, del letterato, della lettura. Trascina in un al di là – quale?, chissà!, fosse pure il sobborgo dell’uomo, lo stigma dello Stige – dove il verbo è bestia e gli alberi parlano. Insomma, Ramana Maharshi, saggio indù, s’esprime in versi: La ghirlanda nuziale di lettere – questo il titolo del libro, tradotto da Trucillo dalla versione inglese – è, a dire del curatore, “una delle liriche più profonde, appassionate e commoventi di ogni lingua, di ogni paese e di ogni tempo”. Il rango dello spirito non ha peso né misura: di Sri Ramanasramam, per quel poco che ho letto, mi affascina l’epopea della solitudine, durata decenni, in vago vagabondaggio tra le grotte di Arunachala, nel Tamil Nadu, India del sud; l’esperienza, improvvisa, della morte, diciassettenne, che lo porta a imboccare la realizzazione. “Ero raramente malato e quel giorno non c’era niente di anormale ma, all’improvviso una violenta paura della morte mi prese. Non c’era niente nel mio stato di salute che potesse giustificarla; non cercai di metterla in relazione con esso o trovare ragioni per la mia paura. Semplicemente sentii: ‘Sto morendo’, e cominciai a pensare a come affrontare la situazione. Non mi venne il pensiero di chiamare un dottore, parenti o amici. Compresi che dovevo risolvere il problema da solo, lì, in quel momento. L’impatto della paura della morte spinse la mia mente a una profonda indagine e mi dissi, senza in realtà dare forma alle parole: ‘Adesso la morte è arrivata: cosa significa? Che cosa sta morendo? Questo corpo muore’”, scrive il guru. Questa stessa esperienza – improvvisa, ingiustificata, violenta – è espressa con parole simili da Lev Tolstoj, in un racconto capitale (che preferì non pubblicare in vita, regesto di un fatto autentico), Le memorie di un pazzo. Di fronte alla morte, il maestro spirituale piglia la via della grotta, della meditazione, lo scrittore quella della creazione, abnorme, assolata, scriteriata.
Riluttante all’insegnamento diretto, alle folle, Ramana Maharshi – le cui Opere sono edite in Italia da Ubaldini – va letto con l’aspirazione del novizio, del cercatore sconsiderato. “Fammi da appoggio e da sostegno, ché non languisca come un molle verme impotente, Arunachala!”; “Non essere uno specchio messo davanti a un essere senza naso, ma sollevami dalla mia miseria e abbracciami”; “Chi è stato quello che, senza dirlo a nessuno e drogandomi, ha rapito la mia anima?”; “Prendiamo godimento l’uno dell’altra nella cavità del cuore, la Casa dello Spazio Aperto, dove né notte né giorno più esistono”. Sotto lo scudo dei versi, immagino, fiamma l’enigma, la sapienza intoccata; chi legge poesia, capirà l’intreccio lirico che lega Trucillo a questo mastro. Dall’innografia tipica (“Montagna immota, Tu che ti sciogli in un mare di Grazia, abbi pietà di me, misericordia di me”; per suoni e ammissioni si va al Cantico, comunque è amore che dirige i pericoli e gli scatti della ricerca spirituale) va estratto l’istante tagliente, che storpia il labbro e conduce via, come avessimo finestre sulle mani.
Per galvanizzare il gioco, piuttosto, metto sul piatto un altro testo, che sia testimone di letture autarchiche e spazientite, oltre il giogo dell’estate sotto ricatto, sonnambula, serva della cronaca. Il Vijñānabhairava è un testo classico dello scivaismo, menzionato dal IX secolo, tradotto, in Italia, per Adelphi, da Raniero Gnoli. Il trattato insegna, in 112 capitoli, l’arte del contemplare, le strategie dell’illuminazione immediata.
“Per colui che, nel proprio corpo, da tutte le parti e tutto insieme, di là da ogni pensiero discorsivo, mediti l’etere, per costui tutto diventa etere”.
“Per colui che in seguito a un impedimento o a un arresto di un qualche organo di senso si immerga nel vuoto senza dualità, ecco che proprio lì risplende il sé”.
“Ciò che è inconoscibile, ciò che è impercepibile, ciò che è vuoto, ciò che è al di là dell’esistenza, tutto questo deve essere meditato come Bhairava, e alla fine di ciò nasce la conoscenza”.
“Non vi è per me legame, non vi è liberazione, i quali sono spauracchi per chi ha paura: tutto ciò non è che un’immagine riflessa nella mente come quella del sole nell’acqua”.
Ah, sì, bisogna brandire questo volume in faccia alla vacanza, alla catastrofe dei sensi, al tracollo della cronaca in frustrazione e minaccia. Bisogna fustigare la propria mente, senza studi, nell’inconsapevole. Nell’introduzione, Raniero Gnoli parla del mantra: dovremmo cagliare da lì – al netto, privi di spirito, della spiritualità – una poetica. “I mantra sono particolari sillabe, parole e frasi rituali prive in generale di senso compiuto e, da questo lato, aconvenzionali. Mentre dalle parole ordinarie che hanno un senso e quindi servono a qualche cosa la nostra attenzione è invariabilmente diretta verso un oggetto a noi esteriore, che si vuol prendere o lasciare, tutto il contrario accade invece con il mantra che, non avendo nessun significato, non porta la coscienza come fuori di se stessa, ma la lascia anzi riposare in sé, senza impigliarla in nessuna rete di interessi pratici che la distragga e decentri”. Una simile pratica – decentrare il significato, oltrepassare la legnaia dei valori primi, privi –, per altra via, è percorsa, ad esempio, nella giaculatoria o nel precipizio grammaticale proposto da Abraham Abulafia tramite la meditazione nei meandri dell’alfabeto ebraico.
Vijñānabhairava è tradotto come “La conoscenza del tremendo [Bhairava]”. In effetti, “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente”, grida San Paolo nella Lettera agli ebrei.