13 Febbraio 2022

Rainer Werner Fassbinder "il pigro persecutore". Sull'umiliazione e un tributo al regista

(I)

Petra Von Kant

Oggi sono stata umiliata da Karin. Volevo piangere e risponderle che mi sforzo di volerle bene, che il suo viso a volte mi è lieve compagnia ma lei ha saggiato questa debolezza e ha fatto quello che doveva. Quello che lei diceva era cattivo ma giusto, quello che avrei detto io sarebbe stato solo ingiusto. Lei non capisce e io ne sono schiava.

A volte si deve mettere il muso laddove sono le cose meschine, senza urtare nulla, starsene fermi con lo sputo sulla fronte. Io debbo ogni tanto staccare dalla tracotanza, che è molta; una tracotanza endemica e fuori da ogni stagione. Quando un giusto carnefice si presta, una giusta arma, ecco che si deve lasciar andare tutto. Io so ormai per certo che così si ammala chi non può essere umile e chi non è umiliato è soltanto se stesso.

Petra Von Kant, una donna nel letargo, esauribile ma funesta in ogni azione, fanatica nel gesto esuberante senza nessuna rimozione; altissima e poco equilibrata specie di futurista col piede nel fango, con la macchia bene in vista. Si fanno scommesse sul suo successo; l’affare è nascita, più stanchezza. Sa intrattenere e si intrattiene annoiata, col vestito più ambito e una causa artistica che si spinge fino al rimprovero. Incoraggia ognuno a rinnovarsi e dorme contrariata perché non può essere davvero infelice chi soffre. Il suo è tutto un mondo che vuole l’altro mondo, impartisce, dogmatizza, abusa, ma con fedeltà. La vera restituzione è nella freccia: qualcuno deve pur impugnare e qualchedun altro liberare la vista.

La scena è una stanza eppure fuori già si immedesimano le voci, una grande ricerca vorrebbe affrontarla; Petra però, dura e pacata peccatrice, liberatrice delle ultime vittime, ammette solo visite oscene, sceglie anime livide, noiose; sono visioni, nulla che possa accadere.

La sua intelligenza è predisposta a nascere ma si stanca di vivere; a quattro zampe ma verticale, in piena assuefazione diretta. Prende tutto e ridestato lo dona alla maniera del comando; mortificato il gesto può solo chiedere. Di mille giuramenti si fanno gli incontri ma solo di uno potrà scegliere le sorti, gli altri son già tutti pretesi, da altri. Il controllo è scaduto e resta l’oppressione, emerge in sua difesa; sulla cicatrice, che già era aperta, batte più volte il pugno. Sotto false leggi corre l’agnello rimasto da solo, il suo nome non è perdono e il suo fuoco già caldo.

Petra non ama, chiede perdono, perdono per quello che Karin non comprende ma Karin non deve comprendere, solo essere sciatta, inimica, così da colpire. Karin può prendere il morso buono, la sua mezza realtà; può lasciar che passi su lei l’amore ridotto, lo scambio, vuota si conduce e vuota tornerà a condurre; nessuno ha mai visto la sua espressione, nessuno le cosce redimere a caso; la sua è stupidità di bocca in bocca, evidenza. Non vuole arrendersi perché non ha mai veramente combattuto; se si nasconde, il gesto nasconde il lucro, il ricatto. Petra si punisce da sola e Karin sta lì a reggerle l’istinto perché un desiderio si può dimezzare ed è meglio far sparire il resto, quello infondato. Karin raccoglie e chiama per nome le briciole, le ripetizioni di questa penitenza; si guarda e non sa perché è amata, solo le briciole le danno contentezza: il denaro. Conviene sì ma conviene più essere liberi, liberarsi dell’oltraggio.

Petra si dispera, le sue mani sono fredde. Restano il letto, la lampada e qualche manichino, anche l’ultima servitù è diventata ragione e gli eventi, parlati o taciuti, dissipano qua e là il rimorso della fedeltà.

*

(II)

L’illusione si rivela languida per narrare, scendono da belle facce e belli sguardi i racconti derisi di lustrini, rossetti e giacche texane; la recita è crudele, impostata fino all’innaturale e una canzonetta vi impone i gusti effimeri. Sono i corpi ad essere appesi, una macelleria dove non si compera ma si finge e dispera; macelleria al contrario che chiama a sè dolore, si fa svezzare; piccolo tempio di incarnazioni tanto umane, di drammi.

Tra corpi offesi e offensori non c’è nessuna rivalità, semmai una schiacciante somiglianza che deve dipanarsi, una nostalgia; e non si è mai perdonati, inutile è la colpa. Il risarcimento della sfida è in banconota e i due corpi sono uno il potere abbattuto dell’altro, il salvadanaio, l’uccisore; l’assurdo della tregua sta nel concedersi prima che l’altro premediti, che l’amore venga scritto, scritturato; il contratto è d’anima e denaro.

Ognuno di questi incontri è aggressivo, sporto oltre il limite ma vigliacco, banale, perché non c’è avventura ma combinazione: un uomo, una donna, un uomo e un altro uomo, una donna.

Di questi incontri sporadici fanno parte tutte le parentele che circolano a vuoto, insufficienti. I genitori sono infelici perché hanno figli dementi, i figli sono dementi perché hanno genitori infelici e il pasto è insignificante. Anche il coniugale, con le bocche che non concludono, è incontro clandestino, vite tattiche, e ancor più miserabili appena tentano l’amore, quella vistosa coltellata sul ripiano più basso. Eppure solo in questa ospitalità di sconosciuti ognuno trova il provvisto carnefice, la vittima insulsa. Qualcuno sulla bilancia è già pronto a ferirti, devi solo trovarlo o accorgerti che ti ha sostenuto; ringrazialo e dà lui tutto quello che puoi, pure se non lo possiedi.

C’è della materia grezza, del povero, del penoso che si fa derubare, estorcere, svaligiare, un tozzo di privazioni. Nessuno chiama ricchezza ma autentiche povertà, menti bucate; tutti vogliono ingrassarsi di cose non pagate, cose che son passate dal proprietario all’improprietà, dal premio al possesso, puro contrabbando di oggetti falsi con la propria etichetta; cose, affari personali che non appartengono più. Nessuna umiltà o ritegno, non personaggi sbagliati, personaggi che sbagliano, orrendi, ma umiliazione, che è un contegno a parte, sempre l’opposto intento, la commedia. Vien su così quello spregiudicato e sfacciato palchetto da cabaret che è un viale come una stanza, una tazzina da tè. Ma il rifiuto cerca distacco e trova coito. Alla mercé di scappatoia o legge per fuggitivi, il sesso: tutta un’altra psicologia, un onesto ricominciare. Si è liberi di far trasparire il poco che è, perché poco ne verrebbe fuori anche se ripreso; ne verrebbe fuori troppa infantile pietà, troppo corruttibile prezzo ed ogni altro gesto non apparirebbe altrettanto prevaricatorio, oltraggioso, se paragonato al normale abuso, al normale ribellarsi. Tutto può apparire disinibito nel silenzio, nel buio, ed è più facile uscire che celarsi.

Questa, che ora ripongo, è solo una carta da amatore esterno senza consanguineità, un piccolo rito per sperare in una partecipazione, per entrare ritirati in questa grande famiglia sotto al tendaggio. Un teatro, insomma attori, per giunta sempre gli stessi, rovinosamente votati al loro buffo estimatore. Non parliamo però di attori sparsi, volgarità di volti tutti apprezzati, ma di una vera compagnia teatrale; compagnia o dinastia non itinerante ma gerarchica, trascinata dal suo regista o antenato in un secondo teatro di umiliazione perpetua, noia di cacciatori e prede: il cinema. Ed è un uomo questo non per sentito dire ma reale, venerato a suo modo come un Gott der Pest, con quell’aria di malaugurato menefreghista, tanto amorevole: Rainer Werner Fassbinder, il pigro persecutore. La sua famiglia l’ha stanata così, con la soggezione. Alcuni ne sono usciti misericordiosi, altri particolarmente urtati, ma sono comuni i loro tratti, imparentati da una ragione di violenza, l’ultimo atto rivoluzionario. Più che altro inventano porcherie, dolori, hanno questa fantasia e qualcheduno ha saputo essere presente.

L’atmosfera è scempia e Fassbinder non è mai altezzoso nella violenza, semmai morboso, attaccabrighe col sentimento e con la morte; collettivista ma despota, ossessionato e ripetitivo, un vecchio bavarese che conosce la vergogna e se ne sta appoggiato prima di inseguire, nel pugno ad arrancare.

Blu Temperini

Gruppo MAGOG