02 Settembre 2022

“L’idolo era un abominio chiamato: rimpianto”. Storie dal Tempio

Ci sono anni che si aprono su vallate, geometrie di querce e sugheri, o gli aceri dal fogliame palmato, i faggi erti sulle pietraie da cui sbuffa il velluto di un muschio, la bruma raccolta e silenziosa sotto le ombre cinerine della sera. Le ombre cadono giù nella vallata, con strisce di cobalto che satollano i terrazzamenti, i giardini di agrumi, finanche l’obliquità della travatura di un colone che sembra uscito appena da un trattato del Pitré, dove dimorano le bestie e i rudimenti; di una tale vita arcana ricordo le contemporaneità, i miei anni. I miei anni gettati su una vallata degli Iblei. Quel tipo di libertà, il vero sostanziale affrancamento da una identità confezionata da qualcuno, odiata, indossata fino a che non ho potuto finirla via, gettarla nelle cose medie e borghesi che ho imparato, con giustizia, a detestare, ombre più partecipi della nuvolaglia cinerina sopra un monte, una sera di aprile.

Ombre che sdigiunavano con me il rimpianto di qualcosa sguarnito di fulcro. Aver smarrito un punto, il nerbo della faccenda. Ad essa ritorno quasi per deduzione, o esclusione direi. Più che altro desumo cosa potrei non essere, potrei non essere il dettaglio di un paesaggio esagerato e accecante. Calpestarlo, ogni giorno, decide sul tuo bisogno di disperazione e primitività, sono condizioni per sopravvivere. Bisogna essere disperati e un po’ bestiali per vivere in una città di provincia del sud. È una forma di resistenza tout court, accettare lo stato di emergenza permanente e tu dentro ne sei il più zelante tra i frequentatori, ne fai un passepartout verso declinazioni possibili di varie e difformi infelicità, ha lo stesso singulto di una storia finita male, o di una vecchia utilitaria al suo ultimo patetico giro di pista, edonisticamente impossibile da accettare, converrete; accettare significa stridere, l’unghia strisciata sulla lavagna; remare tra le onde nella circostanza che opera con metodo e controcorrente.

Accettare è già un combattimento. Nelle sue diverse opportunità di slancio, accettare le tre del pomeriggio in una straducola della borgata, un sestiere adibito da menti congeniali per una passeggiata nell’Ade, la parete anonima di un condominio che riverbera il rinculo del silenzio involgarito da mugugni, il bieco che spia l’errore da dietro la feritoia di una veneziana, una facciata di consuetudine fosca, sgrammaticata. Accettare di respirare l’aria intronata di un parco senza fiori, l’africano su una panca, ubriaco o svagato o semplicemente africano. L’angolo con la tenda di un tale, un giaciglio o un feretro in anticipo sul destino, a noi siciliani piace molto la parola destino, trattenuta sotto il palato, come il male per l’empio biblico; un fuori di testa, concentrato nel suo baratro escrementizio, la laidezza, la lordura del mondo. Accettarla come un fatto, come non ci fossero altre vie che la lordura del mondo o la brutalità del sospetto che non è mai uno sguardo. In questo sentiero mi addentravo ogni giorno. Il tempio era una metafora, la conciliazione rimediata alla buona, purché sia insomma, purché ancora un tramonto si succedesse ad un’alba ed io fossi ancora viva, senza domandarmi la ragione, come io lo sia in un tale sovraccarico sonno di ripugnanza, lo usavo alla stregua di una baionetta luccicante che il soldato rimira sulla cuspide di una trincea.

Sedevo al tempio spesso sfinita, non badando ad altro che alla medesima tenzone (un battersi il petto molteplice: io io io), una disputa che franava sul primo cipiglio incontrato per via. Un vecchio di solito o un burbero di qualche specie, perché non fosse altro che una privazione, la vita voglio dire. Vivere per privazioni, non conoscendo il barbaglio evangelico, la summa caritatevole che induce la pietosissima considerazione dell’infelice nel corpo, o povero o chiamatelo come vi pare, capace di piazzarsi di traverso perché ci sia accessibile una quota di cielo da afferrare quaggiù, intenderla fino a racimolare un guizzo di sapienza, una ridda danzante di meditazioni, una precisa marciante masnada di amorevoli esempi con specchi ustori a rapirti per un secondo, rabbrividendo così nel fuoco che ravviva lo spirito o una qualche speranza. Quel secondo basterebbe a capire che proprio quel vecchio, quel rozzo che attraversa la via, è il suono che attraversa il mirabile liuto.

Di queste disarmonie nutrivo le mie giornate, la mestizia alternata alla disperazione erano gli stessi colori che sorprendevo ovunque, i non colori, i palazzoni della periferia, il sole apocalittico, una foschia ibrida bruciante che scuoteva i paramenti di un falansterio, le tapparelle calate giù, nelle penombre da esergo cimiteriale. Bisogna essere mostruosi per sopravvivere al sud. Calpestare l’asfalto bollente, il sacrificio sulla pira nel nome di olocausti anonimi, feticci sbagliati.

L’idolo era un abominio chiamato: rimpianto.

Johannes smorzava talvolta il parossismo che possiamo apostrofare calamità, lo arava con il suo sorriso e il labiale raschiato: non temere.

Il patriarca. Come certi tassi monumentali nel parco dei monti di Caronia. Li chiamano patriarchi.

Si stagliano nel cerchio di una bolla radiosa che a un certo punto della siepe vibra verso l’altro, con rami allungati e nervosi, si abbarbicano a una domanda, la domanda si porge similmente a una soluzione di luce che fugge oltre, verso i cieli nascosti.

Il patriarca è illuminato da su.

Un gigante di magnanimità, dal fusto avvoltolato e rugoso, ispira commozione, una tensione verso cose celate. Dobbiamo sentire il ricamo nelle nostre stesse vite, direi oggi a Johannes, come se non ne avessimo mai parlato.

E di quanti segni constatarne il portento. Sono un disegno nelle mani del Creatore. L’argilla, sapete, i versetti biblici. Un ricamo intessuto, un fiore, una rosa. Dove la corolla sembra esplodere e morire, più in là, soltanto pochi metri più in là, un seme aspetta di ritornare nella forgia che la nuova stagione avrà deciso.

Sarà un fiore?

Il rampollo assumerà un neonato avvenire. Prometterà parimenti agli altri, scoperchiati e sepolti. Nella successione, crederci o non crederci, risiede la nostra follia, ma dicono che si intitoli: tenacia. Costanza del vivere.

Johannes mi tratteneva ad essa, alla costanza del vivere, forgiando per me una responsabilità stringente, la corda avvinta sui fianchi: sei la testimone. E può darsi, può darsi sì, che lo fossi.

Cercare la verità, indagarla, a intuito. No, essa non si fa stanare. La verità è la lucerna, da poggiare sullo scrittoio, sul davanzale, dove la colomba riscalda la sua covata.

Ero la testimone? Un debito morale con la gravosità, fosse il balenio alla fine del luogo e del tempo per cui ammetterai: ho fatto quel che ho potuto.

@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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