È il 9 agosto 2013. Famiglia Cristiana ha appena criticato la scelta di istituire una nuova Commissione d’inchiesta sul caso Moro. Forse sarebbe meglio indirizzare risorse ed energie per esplorare quello che è davvero rimasto senza risposte, come la strage dell’Italicus, la strage di piazza della Loggia, il delitto Pecorelli e il golpe Borghese, suggerisce il periodico cattolico. Per fortuna la replica del parlamentare del Partito Democratico Beppe Fioroni è stata immediata e anche durissima: “Famiglia Cristiana conosce la verità? Allora ce la racconti tutta. È vero o non è vero che la sede nella quale Aldo Moro è stato tenuto prigioniero era sorvegliata dai servizi segreti italiani e non solo? È vero o non è vero che la mattina dell’8 maggio 1978 dal ministero degli Interni è partita una telefonata che ha bloccato l’irruzione dei reparti speciali del generale Dalla Chiesa nel covo in cui era Moro? È vero o non è vero che durante la prigionia Moro è stato confortato da un sacerdote? È vero o non è vero che la P2 agì pesantemente perché lo Stato non trattasse? Risponde al vero la notizia che alcuni magistrati hanno operato con ritardo rispetto a vicende particolari del caso Moro? Quale il ruolo della Cia, del Kgb, del Mossad? Come mai in un mondo nel quale si sa sempre tutto, l’azione eversiva dei brigatisti non ha avuto risonanza alcuna e in 55 giorni nessuno ha mai individuato il covo nel quale Moro era prigioniero? Lago della Duchessa da un lato e via Montalcini dall’altro sono elementi sui quali i lati oscuri sono tanti, ancora. Come mai i brigatisti non sono ancora in grado di spiegare sufficientemente quello che è successo in via Fani, dove forse il maresciallo Oreste Leonardi si trovò di fronte persone che conosceva e che sparavano contro lui? Perché solo in occasione del rapimento Moro, lo Stato non ha trattato? Davvero si ritiene che non sia utile continuare a cercare la risposta a questi interrogativi?”
A sostegno dell’iniziativa del parlamentare è intervenuta Maria Fida Moro. “Non è tutto chiaro per niente. Magari lo fosse. Chi ha vissuto sulla propria pelle queste vicende si è reso conto che forse non esistono diverse trame nelle vicende recenti del nostro Paese, ma un’unica trama destabilizzante. Per cui indagare su Pecorelli è la stessa cosa che indagare sui buchi del caso Moro e da qualunque bandolo prendi la matassa arrivi sempre allo stesso risultato. Appunto, che proprio niente è chiaro”.
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“Via Fani, grazie”, dico al tassista, un omone con pochi capelli in testa, dritti, e una camicia extra large fuori dai pantaloni rossicci. “Prego?”. “Via Fani”. “Una via che fa venire i brividi, lo sa?”. “Lo so, lo so. Proprio per questo voglio andarci”. “È un poliziotto?”. “No, sono uno scrittore”. “Ah, ecco. Se uno può, di solito evita di passare in via Fani. Mi tolga la curiosità. Cosa pensa di trovare quasi quarant’anni dopo il fattaccio? Lo sa che hanno azzittito tutti, ma proprio tutti quelli che sapevano qualcosa?”. “Beh, sto studiando il caso”. “Il caso… ma quando mai diranno la verità?”. “Lei dice?”. “Dico, dico. Dia retta a me, fa comodo a tutti prendere per il culo gli italiani. Siamo fatti così. Ci piace il melodramma, fingiamo, fingiamo, anche quando ci si ammazza. È tutto un guazzabuglio questa storia di Moro. Passeranno altri cento anni prima che la merda venga a galla”.
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La targa in un riquadro di marmo, con una vetrina di protezione, nomina in sequenza Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. “In questo luogo alle 9.05 del 16 marzo 1978 cinque uomini fedeli allo Stato e alla democrazia sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere. Il Comune di Roma pose il 9 maggio 1979. S.P.Q.R.”. Sotto compare la foto dei cinque in piccoli fotogrammi in bianco e nero.
Via Fani, e dietro via della Camilluccia, come disse Paolo Frajese, concitatamente, confondendo via Fani con via Stresa, quella tragica mattina. La targa compare da una cornice di pietre incastonate, sotto il sole, nel lato destro dove qualcuno sparò, stando a quanto raccolto dalle testimonianze. Ma chi sparò? E sul lato sinistro, chi c’era? In quanti erano davanti al bar Olivetti, dove ora si trova il ristorante “La Camilluccia”, nascosti dietro le siepi e con le pistole mitragliatrici? Si conoscevano tra loro, o la divisa da aviatori era solo un mezzo per evitare che i malviventi si sparassero involontariamente? Le palazzine si assomigliano, in via Fani. Sono blocchi rettangolari, appuntiti, che sporgono. Mi fermo in mezzo alla strada, davanti alle strisce pedonali e allo stop, la cui vernice è consumata. Allargo le braccia e mi passa un brivido sulla schiena. Non passano automobili, né altri veicoli. Il caldo è insopportabile, si suda. Il tempo si è arrestato, all’incrocio tra via Fani e via Stresa, come se la morte fosse riproposta infinite volte tanto da assuefare. Due pini alti davanti agli occhi sorreggono la tensione di questo cielo azzurrato e limpidissimo. Ma se l’orizzonte franasse a terra, si sentirebbe odore di catrame, di fuoco, di carne bruciata. Via Fani è un insieme indistinguibile di appartamenti, condomini, interni. L’afa, non temperata dal vento di Roma, fa pensare che tutto sia impenetrabile anche se si suonasse, a caso, uno dei campanelli. La strada è come tante altre, le stesse case assomigliano ad altre di ogni quartiere di Roma. Faccio un primo passo e mi porto sul lato sinistro. La visuale non cambia. Mi sento compresso in una via stretta, piccola. Un uomo dice che al ristorante fanno dei ravioli di pesce squisiti. Ma è un attimo fuggevole, già consumato, che non rimarrà. Chi passa mi guarda con imbarazzo, tace e abbassa la testa sospettosamente. È gente che si è messa d’accordo, potrei pensare, mentre il silenzio diventa sibilante, con la luce che colpisce di sbieco, se volto le spalle verso il lato destro che attraverso altre due volte. La luce è pietrificata, mentre mi scorrono di lato le ombre di chi passa a piedi. Potrei avere alle spalle uomini o donne, bambini. L’edera del lato destro è rigogliosa. È un’edera nuova, che allora non c’era, presumo. Qui anche le ombre hanno un gesto di ritrazione, davanti all’incrocio. Due ragazzi si dileguano in fretta. Sicuramente non sapranno chi è stato Aldo Moro. Sono in una via tra le più tristemente note d’Italia, tra le vie più misteriose al mondo, dove si è svolto un passaggio fondamentale della Guerra Fredda e dove hanno agito più servizi segreti. Ma è anonima via Fani, una via di provincia o di una metropoli, leggermente in salita. Una via fantasmatica abitata da gente qualunque in un rione qualunque e in un quartiere qualunque. Le piante sono sottili e non riconosco che l’albero della felicità, come lo chiamano dalle mie parti, che produce fiori violacei e pendenti.
Entro nel ristorante. Mi sono informato, prima della partenza. La filosofia culinaria del ristorante “La Camilluccia” sta nel puntare tutto sulla qualità del pescato e in un servizio veloce, impeccabile. La carta dei vini è ricercata. L’ambiente rimane intimo ed elegante. Un ampio giardino circonda il locale. Alberto Melis, il proprietario, mi guarda con aria serena e il sorriso largo, come mi conoscesse da sempre. “È venuto per fotografare il luogo della strage? La stavo osservando. Ha un taccuino e una penna in mano. È un reporter, vero?”. “Sì, complimenti”. “Sono sardo, ho intuito. Cosa le posso offrire?”. “Una coca cola, grazie”. “Qui nessuno viene per Aldo Moro o per la strage, per quei poveretti morti ammazzati dai colpi dei brigatisti. Ma se qualcuno lo fa lo riconosco al volo. È smarrito, dopo un po’ non sa più dove girare lo sguardo”. “Lei che cosa ne pensa di quello che è successo?”. “Io non penso niente, lavoro. Ma ho rispetto di Moro e di quegli agenti. Se vuole le offro un piatto. Cuciniamo cose buone, dicono. Le deve provare, non se ne pentirà”. “No, grazie, devo andare, ho fretta”. “Non faccia i complimenti”. “Devo prendere ancora degli appunti”. “Dopo tutti questi anni? Qui non è più come quella volta, mi creda. Qui sì e no che sanno riconoscere la targa sulla pietra”. “Dice?”. “Eh, sì, ahimè. Si dimentica ciò che si vuole, in Italia. Ma forse anche in Germania, in Inghilterra, in America. Ovunque. Ogni mondo è paese. Non si dice così?”.
I balconi sono denti sporgenti, le palazzine uomini fermi, giganti mummificati. Un gatto bianco salta dietro una ringhiera e sparisce. Cavalco l’aria e questa strada mi sembra inadatta alla strage. I cortili sono lingue di terra, quadrati pezzati dove riprendere fiato: piccole insenature tra tante costruzioni spesse, granitiche. La luce fa di queste case un riverbero dorato, bronzeo. Schegge di sole si posano ovunque, specie sui terrazzi, se visti dalla strada. Riprendo a pensare che il cielo potrebbe offuscarsi, diventare del colore del metallo, cadere in mille pezzi, decomporsi come in un quadro di Alberto Burri dove coesistono muffe e catrami, colori ad olio, smalti sintetici, catrame e pietra pomice, petrolio. La via rimarrebbe una tela tinta di rosso e di nero incollata a dei sacchi di iuta pieni di rammenti e cuciture, di oggetti usati e logorati, residui solidi dell’esistenza non solo umana, ma cosmica.
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Quanti erano a sparare? Quanti si trovavano nel luogo dell’imboscata? Chi guidava la moto Honda? Chi ha sparato? La notte del 15 marzo Moretti non dormì. Rimase in via Gradoli con Barbara Balzerani. Morucci e Bonisoli erano in via Chiabrera insieme ad Adriana Faranda, Gallinari dormì con Anna Laura Braghetti in via Montalcini. Moretti, alle 8.45, passò davanti alla casa di Moro dove vide le auto della scorta. Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli ricordano che nelle prime ore della mattina indossarono maglioni scuri a girocollo, giubbotti antiproiettile e impermeabili azzurri a doppio petto su cui erano stati cuciti i fregi dell’Alitalia, sotto i quali nascosero i mitra. E gli altri? Davvero Leonardi non si preoccupò perché nel lato sinistro della strada vide uomini che riconobbe? Chi tese veramente l’agguato? Chi, oltre ai brigatisti capeggiati da Moretti? Fiore aprì la portiera posteriore sinistra della Fiat 130 ed estrasse l’onorevole Moro dall’auto che non oppose resistenza. Fiore, uomo di robusta costituzione fisica, lo afferrò per un braccio e lo trascinò in direzione della Fiat 132 blu con alla guida Seghetti. Fece entrare Moro nell’autovettura e lo fece sdraiare, nascosto da una coperta, sui sedili posteriori, mentre Moretti si pose nel sedile anteriore destro. Morucci prese due delle cinque borse di Moro dalla Fiat 130 e si diresse alla Fiat 128 blu ferma nella parte bassa di via Fani dove erano posizionati Balzerani sui sedili posteriori e Bonisoli sul posto del passeggero. Le due borse, secondo i brigatisti, contenevano medicinali e tesi di laurea. Ma non tutte le versioni fornite coincidono in pieno. Anzi, tutta la ricostruzione della fuga è piena di punti oscuri, tanto da poter essere messa seriamente in discussione. Niente convince.
Nel febbraio 1978 almeno sette servizi segreti di rango internazionale erano operativi in Italia: Cia, Kgb, Mossad, Sdece, Stasi, Ssvpvk, Bis, nonché gli omologhi italiani ufficiali e paralleli, Sismi, Sisde, Gladio. Le ultime dichiarazioni dell’onorevole Giovanni Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 a “Rai News24” sembrano confermare l’ipotesi di una collaborazione tra le Brigate Rosse e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della Democrazia Cristiana all’epoca del sequestro Moro ha riferito: “Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all’interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo”.
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“Chiamo il taxi?”. In un batter baleno arriva un’Audi bianca e salgo. “Dove la vi porto?”. “Via Gradoli 96, grazie”. Stavolta il conducente non apre bocca. È giovane, non sa nulla. Gli chiedo se tifa per la Roma o per la Lazio. “Sono romanista. Ma… non sarà mica laziale?”. “Sì, purtroppo per lei”. “La farei scendere, se potessi. Ci avete fregato la Coppa Italia, ci sfottete. Chi vi sopporta più? Oddio, un laziale nel mio taxi. Dovrò disinfettarlo, quando se ne va. Una volta ho portato all’aeroporto di Fiumicino Marcelo Salas, il cileno, ma qui dentro c’è salita pure Ilary, la moglie del pupone nostro”.
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Via Gradoli, vista dalla mappa, sembra avere la dinamica di un ferro di cavallo. Si torna da dove si parte, lungo una stradina circolare con un unico ingresso e con la stessa uscita sul lato opposto. Via Gradoli, dalla Cassia, è una pista di quelle costruite per le automobiline, se dovessi disegnarla. Qui ci hanno abitato clandestini, esponenti della malavita, uomini dei servizi segreti, dei carabinieri, transessuali, assassinati. La base di via Gradoli era il quartier generale di Mario Moretti e Barbara Balzerani: via Gradoli 96, interno 11 della scala A, al secondo piano. Dietro si avvista un campo da tennis coperto dai pini sempreverdi. Ecco un altro luogo del tutto anonimo, se non fosse per i numerosi segreti che nasconde. Lucia Mokbel era l’inquilina della porta accanto, nei giorni del sequestro Moro, dove viveva con Gianni Diana, impiegato da un commercialista amministratore di immobili in cui figuravano anche società in dotazione ai servizi segreti. Gli stessi servizi segreti che avevano in via Gradoli appartamenti intestati a società di copertura. La Mokbel, durante il primo processo Moro, raccontò la storia di un bigliettino, poi sparito, in cui annotò di aver sentito il ticchettio di una trasmissione in alfabeto Morse che proveniva dall’appartamento adiacente. Lo consegnò agli agenti di polizia che il 18 marzo erano andati a bussare a molte porte del condominio. La missiva era indirizzata al commissario Elio Cioppa, che poi risultò iscritto alla P2. In un’operazione di controllo furono identificati numerosi inquilini. L’interno 11 fu uno degli appartamenti in cui gli inquirenti suonarono il campanello, ma non rispose nessuno. Una signora che abitava nello stesso piano disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi. Il secondo episodio risale al 2 aprile 1978, con la seduta spiritica dove era presente Romano Prodi, nella campagna bolognese a Zappolino, durante la quale alcuni amici, facendo muovere un piattino sulle lettere dell’alfabeto, videro comparire le parole: Gradoli, Viterbo, 6, 11. Venne messo a soqquadro il paese di Gradoli in provincia di Viterbo senza trovare tracce. Nessuno perquisì via Gradoli, che fu indicata dalla moglie di Moro dopo aver consultato le Pagine Gialle. Ultimo capitolo, il 18 aprile. Il covo venne scoperto dai vigili del fuoco che intervennero su richiesta dell’inquilino sottostante per una perdita d’acqua che filtrava attraverso il soffitto. Era stata lasciata aperta la pistola della doccia, che allagò il bagno del covo dei brigatisti. Si trattò di una scoperta pilotata, evidentemente. La televisione riprese le stanze, le immagini delle pistole, dei mitra, dell’esplosivo, dei bossoli, dei volantini, delle divise dell’Alitalia simili a quelle indossate nella strage di via Fani.
Via Gradoli tornò ad occupare la cronaca con il caso Pietro Marrazzo e ancora nel giugno 2013. Poco dopo pranzo un cadavere fu ritrovato in un appartamento. Il corpo apparteneva ad un uomo olandese. La porta d’ingresso era aperta. Sul corpo, supino vicino al letto, non c’erano segni evidenti di violenza. L’uomo di origine belga, è risultato in cura al Sert per problemi di alcolismo. I giornali hanno segnalato anche una protesta dei residenti per una discarica abusiva.
Una bava di vento sale lungo i piani di via Gradoli 96. Il portone è accostato e non c’è un portinaio. Una via dannata e una palazzina fredda, di quattro piani con le finestre chiare come occhi sbarrati. Tutto ciò che vedo è essenziale, senza aggiunta, senza orpelli. Una forza concentrica assorbe come in un Triangolo delle Bermuda. E se ci fosse stata la prigione di Moro, qui al civico 96? In questa via c’era anche un’altra base dei brigatisti, probabilmente al civico 92.
Sergio Flamigni sostiene che la base di via Gradoli era nota ad una vasta cerchia di militanti e che le Brigate Rosse preparavano il sequestro Moro nella via dove i servizi segreti avevano alcuni uffici. Una decisione apparentemente assurda. Nella stessa via, sia prima del 1978 che dopo, furono presenti numerosi appartamenti utilizzati da agenti. Si scoprirà che anche il deputato democristiano Benito Cazora, nei suoi contatti avuti con esponenti della malavita calabrese, nel tentativo di scovare la prigione di Moro, era stato avvertito che via Gradoli era una zona calda. Lo stesso Mino Pecorelli, nel 1977, un anno prima del sequestro di Moro, avrebbe scritto una cartolina all’indirizzo del covo.
Ma chi può parlare, ancora una volta? Chi sa? Chi abita qui, in questi appartamenti così quieti? Quanta gente è stata silenziata? Quanti documenti sono stati nascosti, occultati, stracciati? Quali indagini non sono state fatte a dovere per un’intromissione volontaria, per un’intermediazione imposta, per una salvaguardia di uomini di alto livello che sapevano e avallavano l’azione di Moretti, bene al riparo da ogni possibile intralcio?
Giancarlo De Cataldo, su la Repubblica del 27 novembre 2009, ha scritto: “Torno in via Gradoli, la morbosa curiosità solo in parte soddisfatta. E malgrado chi ci vive e lavora alla luce del sole, crocevia di inquietudini, emblema di una storia ambigua e irrisolta. Oggi come trent’anni fa. Il primo pensiero è che un uomo pubblico, se decide di andarsi a cacciare in una situazione scabrosa, non sceglie una strada come questa. La pendenza rende difficoltosa la manovra di parcheggio. Una tonnara: quando entri, per uscire, devi rifare, per forza, il cammino all’inverso. A via Gradoli devi proprio volerci venire, insomma. Ma anche un capo terrorista, uno che deve vivere costantemente in allerta, uno che rischia ogni minuto la pelle perché ha dichiarato guerra al cuore dello Stato, anche uno così, prima di impiantare un covo in un posto simile, ci pensa su due volte. Perché sarà anche vero, come pure è stato detto, che lo Stato non ha cuore, ma braccia, armi, informatori, confidenti e infiltrati, quelli non sono mancati mai. Perciò i covi, prima o poi, qualcuno finisce sempre per scoprirli. Meravigliosa coincidenza, dunque, se questa strada nella periferia settentrionale di Roma, uno squarcio sinuoso diviso fra avanzi di campagna e l’incalzare inarrestabile del cemento, fu, nel 1978, teatro di uno dei più inquietanti (e, ça va sans dire, irrisolti) misteri del caso Moro? Via Gradoli 96 è ancora oggi una palazzina ordinata, sul lato sinistro per chi discenda la via”.
Una via orfana della politica, del futuro. Una via degradata, che continua ad essere teatro di una logica mortifera, senza discontinuità, anche se è sorto un comitato che difende l’onorabilità dei residenti. Una via che ha una vocazione niente affatto trasformativa. Un giallo che include desideri e paure e li incanala da quel maledetto 1978. Il segreto è peggiore del male esibito, perché i suoi attori non sono identificabili, sfuggono, si travestono, si confondono. E’ un mondo chiuso, opaco, quello che rimane.
Scendo le scale di via Gradoli 96 A interno 11, secondo piano e sono in strada. Il tassista mi aspetta, fuma una sigaretta e canticchia. La sua radio gracchia. Un’inquilina scende la via con in mano un sacco dell’immondizia. È magrissima, ha i capelli disadorni, le ciabatte ai piedi. Via Gradoli mi spinge fuori, mi espelle. Qui gli abitanti potrebbero avere una forma di scaramanzia, chissà quali credenze, per rifuggire all’irresistibile male, alle nefandezze commesse in tutti questi anni. C’è un horror vacui, intorno. Una grande pausa tra questi complessi edilizi, dove si può credere davvero di essere spiati come facevano in quei giorni del sequestro. Il male ha sempre una visione contraffatta. Ma in via Gradoli non ci sarà alcuna commemorazione, alcuna cerimonia. Non è come in via Fani, dove la morte è per sempre segnata nella targa, impressa nelle foto della scorta. Qui non c’è ammissione di colpa, solo un intreccio fatale, nient’altro. Nessuna vergogna. Via Gradoli è un luogo comune, nel vero senso della parola. Una metafora del mondo, per cui non esiste solo ciò che si vede.
“Che si è messo a fare, il guardone?”, mi chiede il tassista. “No, scrivo. Qui c’è stato un covo dei brigatisti che hanno sequestrato Aldo Moro”. “Qui venivano molti politici a fare sesso con i travoni, lo sa? Festini a base di coca e scopate a go a go”. “E adesso?”. “Il giro si è arrestato, dopo che è morta Brenda. Se la ricorda con quelle tettone finte? L’hanno fatta fuori perché non parlasse. Abitava non lontano da qui. Tra pusher e clienti di alto bordo va a finire che ci fanno una sit-com. Marrazzo ci ha rimesso la carriera per le siliconate di via Gradoli. Carriera, si fa per dire. I politici lo fanno tutti, anche nei bassifondi. Lui è stato solo sfortunato. Comunque hanno sequestrato e sgombrato una trentina di appartamenti abitati abusivamente, senza i requisiti igienici. I trans pagavano tutti 400 euro d’affitto al mese”.
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L’appartamento di Via Montalcini 8: il covo, lo sgabuzzino, la prigionia, le lettere, il memoriale, l’uccisione. Si trova nel quartiere della Magliana Nuova, ed è una via isolata, spettrale. Le case occupano solo un lato della strada davanti un terreno incolto, pieno di sterpaglie. Un ennesimo luogo anonimo e una palazzina stile anni Settanta. La sede della detenzione era conosciuta dagli inquirenti? Fu acquistata nel 1977 da Anna Laura Braghetti con il denaro proveniente dal sequestro di Pietro Costa. Durante il sequestro Moro, nell’appartamento viveva lei, l’insospettabile ragazza, con il suo finto marito, l’ingegnere Luigi Altobelli, che era Germano Maccari, esperto di armi, latitante, che rimase per tutti i giorni del rapimento chiuso in casa e funse da carceriere. Mario Moretti, che viveva in prevalenza in via Gradoli insieme a Barbara Balzerani, si recava quasi tutti i giorni in via Montalcini per interrogare l’ostaggio ed elaborare la gestione del sequestro.
Il fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo, magistrato, ha sempre sostenuto che la prigione non sarebbe stata quella di via Montalcini, perché l’ambiente era molto ristretto. Una lunga privazione d’aria e un ventilatore di fortuna non potevano garantire il necessario filtraggio dell’aria. Il corpo fu trovato in buone condizioni fisiche, soprattutto il tono muscolare degli arti inferiori, che lasciò supporre che Moro avesse camminato e che quindi non rimase immobile per due mesi. Gli esame autoptici lasciarono aperti molti dubbi sul luogo in cui fu detenuto. Inoltre il corpo si presentava curato nell’igiene personale, quando sappiamo che Moro si lavava solo con una bacinella d’acqua. I periti che esaminarono il cadavere videro che era abbronzato, tanto da restarne sbigottiti. Furono rilevate delle tracce di acqua di mare sul colletto della camicia. La relazione geologica sui sedimenti, sui frammenti e sui resti erbacei trovati sui vestiti e sulla macchina che trasportò il cadavere, fecero pensare ad una detenzione sul litorale laziale tra Focene Nord e Marina di Palidoro.
Il giudice Ferdinando Imposimato, come già riportato, ha ricevuto delle confidenze da Giovanni Ladu, un brigadiere della Guardia di Finanza in servizio a Novara, che nel 1978 era militare di leva nel corpo dei bersaglieri e fu testimone della decisione che condannò a morte Moro. Imposimato ha conosciuto Ladu nel 2008. Il brigadiere, in un memoriale, sostiene di essere stato, con altri militari di allora, in via Montalcini, così da poter sorvegliare costantemente l’appartamento-prigione in cui era tenuto lo statista. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi a sorpresa l’8 maggio, proprio alla vigilia dell’assassinio. Ladu ha riferito ad Imposimato di aver avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto. Per questo sarebbe rimasto zitto tutto questo tempo. Ma ora si è deciso a vuotare il sacco. Ecco come viene raccontata la vicenda che si sta cercando di far passare sotto traccia. La squadra alla quale apparteneva Ladu prese possesso di un appartamento in via Montalcini ubicato a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l’operazione, era tenuto prigioniero un uomo. Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono. Si diede luogo ad un controllo visivo 24 ore su 24, all’installazione di microtelecamere nascoste nei lampioni, alla verifica giornaliera della spazzatura depositata nei cassonetti. Per mimetizzarsi i militari indossavano tute dell’Enel o del servizio di nettezza urbana. Ladu fu anche inviato con altri ad accertarsi del funzionamento dell’impianto delle telecamere all’interno della palazzina dove era detenuto Moro. Nell’appartamento sopra la prigione erano stati sistemati dei microfoni che captavano le conversazioni tra Moretti e il detenuto. La cosa che stupì Ladu, era che il personale addetto a queste intercettazioni parlava per lo più lingue straniere. La missione prevedeva la liberazione del presidente della Democrazia Cristiana. Fu predisposto un piano di evacuazione per gli abitanti della palazzina e nei pressi di via Montalcini era stata montata una grande tenda con un’infermeria, qualora ci fossero stati dei feriti. L’8 maggio era tutto pronto per l’irruzione, ma incredibilmente fu comunicato di abbandonare la missione. Qualcuno telefonò direttamente dal ministero dell’Interno e il generale Dalla Chiesa desistette dal piano d’azione per liberare Moro, nonostante alcune iniziali resistenze. A Ladu e agli altri fu imposta la massima riservatezza. Niente doveva trapelare all’esterno, per nessuna ragione.
Grazie alle informative dei vertici di Gladio, Andreotti e Cossiga, secondo Imposimato, sapevano del carcere di via Montalcini 8, ma anche degli sviluppi della prigionia di Moro da uomini guidati dal colonnello Pietro Musumeci e dal generale Gianadelio Maletti. Maletti impartiva ordini per il controllo, la videoripresa e la registrazione della prigionia. Andreotti e Cossiga cominciarono a dare un contributo attivo all’operazione Moro consentendo la diffusione del falso comunicato. Sostennero che quel comunicato era vero e che proveniva dalle Brigate Rosse. Lo Stato voleva dimostrare che aveva sotto controllo le basi più importanti delle Brigate Rosse e che si era permesso anche di non arrestare Mario Moretti.
In un’intervista pubblicata il 2 luglio 2013 su www.rainews24.it, a cura di Pierluigi Mele, Ferdinando Imposimato dichiara: “La questione che Gladio era implicato nell’affare Moro è pacifica, perché coloro che hanno fatto le rivelazioni erano tutti dei gladiatori, cioè Antonino Arconte era un gladiatore, Puddu era un gladiatore ufficiale dell’esercito. Quindi ci sono testimoni diretti, protagonisti. Queste persone hanno dichiarato di aver fatto delle missioni sotto la prigione. Hanno fatto delle dichiarazioni precise, concordanti, sono venuti a conoscenza della prigione fino a 4-5 giorni dopo la cattura di Aldo Moro. La struttura di Gladio aveva degli infiltrati nelle Brigate Rosse, un certo Franco per esempio. Però questa è una cosa sotto investigazione, a me interessa che alcuni gladiatori sapevano della prigione e che c’erano degli infiltrati nelle Brigate Rosse, poi le altre cose saranno accertate dalla magistratura romana. C’è una concordanza di dichiarazioni che viene da testimonianze rese, in via informale, sia da Giovanni Ladu sia da Oscar Puddu, sia da un carabiniere. Questi tre hanno detto che l’ordine di interrompere l’operazione militare di intervento nella prigione è venuto dal ministero dell’Interno, cioè da Cossiga, che avrebbe bloccato l’intervento per la liberazione di Aldo Moro”.
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Quanti appartamenti furono utilizzati per il sequestro? Moro fu ucciso nel garage di via Montalcini o da qualche altra parte? A che ora gli spararono? Chi gli sparò? Lo fecero accomodare dentro la Renault 4 dopo averlo trasportato in una cesta scendendo le scale. Gli dissero di coprirsi con una coperta aggiungendo che avevano intenzione di liberarlo. Dopo che Moro fu coperto, gli spararono dieci cartucce uccidendolo. Ma questa è la versione ufficiale alla quale in pochi credono. Moretti è stato sempre lacunoso, mentre il racconto di Maccari è pieno di incertezze. Secondo Flamigni la conclusione del sequestro e l’uccisione ebbero come scenario il Ghetto ebraico, dove Moro fu tenuto prigioniero alcuni giorni. Da via Montalcini a via Caetani il tragitto sarebbe stato troppo lungo.
Scrive Flamigni: “Maccari e la Braghetti hanno sostenuto che l’uccisione di Moro sarebbe avvenuta al mattino presto, intorno alle 6-6.30; invece la perizia colloca l’orario della morte tre ore dopo, fra le 9 e le 10. Maccari ha sostenuto che appena compiuta l’esecuzione, la Renault rossa uscì dal garage di via Montalcini e si diresse verso via Caetani (distante 7-8 chilometri) senza compiere alcuna fermata intermedia; ma la telefonata di Morucci al professor Francesco Tritto per comunicare che il corpo di Moro si trovava in via Caetani era stata fatta alle 12.13, e Morucci ha affermato di aver telefonato subito dopo che il cadavere di Moro era stato abbandonato in via Caetani”.
Ha scritto Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera il 5 maggio 2008: “Concluso il sequestro, la prigione del popolo fu smantellata e l’appartamento di via Montalcini tornò quella di prima. Ma nonostante gli sforzi di cancellare ogni traccia, a terra rimase il segno della parete che per 55 giorni aveva nascosto l’ostaggio che lo Stato non era riuscito a liberare. Un anno più tardi la Braghetti, nel sospetto di essere seguita dalla polizia, abbandonò la casa dove aveva continuato ad abitare dopo il delitto Moro. Firmò una delega a vendere alla zia Gabriella, e sparì dalla circolazione fino al suo arresto, nel maggio 1980. Nell’ottobre 1979, la famiglia del signor Nicasio, che aveva acquistato l’attico di via Montalcini, comprò anche l’appartamento al piano terra, per sistemarci la suocera. Pagarono 50 milioni, come ricorda Nicasio, perché la zia della Braghetti disse che aveva avuto disposizione di non fare sconti. Le Brigate Rosse recuperarono così i soldi spesi, senza che i nuovi proprietari sapessero nulla di Moro né dei terroristi. La casa era in buone condizioni, perfino la carta da parati rimase la stessa. E la striscia sul parquet, che cominciava a scolorire, fu coperta dall’arredamento della stanza da letto di nonna Assuntina, che ci abitò tranquilla finché un giorno del 1984 le indagini di polizia e magistratura non accertarono che in quella casa era stato tenuto prigioniero Aldo Moro. E quel segno ancora ben visibile sul pavimento fece da riscontro alle conclusioni degli investigatori. Nonna Assuntina si trasferì per qualche tempo da un altro figlio, ma poi tornò e continuò la vita di sempre nell’appartamento che fu la prigione di Moro. Rifiutando di far entrare i giornalisti che suonavano di continuo al suo campanello e i registi dei film venuti per i sopralluoghi. Nonna Assuntina è morta nel 2007. L’appartamento è rimasto vuoto e ora ha deciso di andarci ad abitare la nipote più giovane, Daniela, che nel 1978 era una bambina di sei anni”.
Il covo è un luogo di struggimento e anche un fatto paradossale. È connesso ad un evento esterno di enorme rilevanza storica ed è abitato da gente comune. Una dicotomia che impressiona. Il covo è connesso ad una storia eversiva, brutale, ma anche affettiva, di disperazione. Si sviluppa un susseguirsi incessante di episodi intrecciati in una summa, ma la storia che conta, per dirla con James Joyce, è l’incubo dal quale cercare di risvegliarsi. L’asservimento alla storia, alla grande storia, ha prodotto lamento e disperazione, un campo senza confini, una simbologia sulle viltà e le piccolezze umane. L’avventura passa attraverso la costruzione di vicende che si cristallizzano in una tragedia e in una farsa. Quel garage da dove sono passati i brigatisti è un punto di non ritorno. Non riesco a fissarlo. Oggi è chiuso da una serranda elettrica. È una bocca serrata.
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Riapro il quaderno degli appunti e rileggo velocemente ciò che ho scritto. Via Fani, via Gradoli, via Montalcini. La storia, a scuola, non mi ha mai affascinato, a pensarci bene. Solo gli archetipi dell’esistenza incarnano un’immagine completa di vita. Una concezione grandiosa dell’esistenza è come l’ha programmata Dante. Fa i conti con illuminazioni liriche, con gesti e situazioni dolorose, che sacralizzano ogni esistenza dopo la morte. Non so se esista una congruenza logica e metafisica in ogni storia, ma certamente l’uomo non può smettere di cercarla, proprio come in una tavola dantesca.
L’uomo contemporaneo non può che essere angosciato. La sua evoluzione coincide con un modello perfetto, con un edonismo sfrenato. Di fronte alla morte l’uomo è nudo. Lo è di fronte alla nascita, alla malattia, al dolore, alla perdita. Ha bisogno di anestetizzare il male per pensare ad una salvezza, per illudersi di scamparla dall’inevitabile che gli ricade addosso. L’assillo dell’uomo del Duemila è paradossale: cioè annullare la morte. Ma nonostante le sue conquiste scientifiche, è ancora “finito”.
Ha ragione Maria Fida Moro: bisognerebbe togliere il padre da quella Renault 4 e riportarlo al centro della storia politica del Paese. Oltre il passato, c’è ciò che Marc Augé definirebbe la messa in intrigo, fuori dall’ideologia del presente, per un futuro come tempo della coniugazione. Cambiare quando è necessario in aderenza alla coscienza democratica. Presagire il cambiamento per flessibilità e coerenza. Essere, nella società italiana, diceva Aldo Moro, significava che le cose da fare fossero necessarie perché alternative. La politica non come pura convenienza, ma come omaggio alla verità.
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La mattina successiva.
“Via Caetani”. “Numero?”. “All’imbocco della via”. Il terzo tassista, il giorno dopo, è un marocchino che parla bene l’italiano. Non sa nulla della storia del nostro Paese, né tanto meno del luogo del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.
Via Michelangelo Caetani è una strada molto frequentata, in cui è difficile trovare un parcheggio. Il corpo di Moro, quando è stato estratto dagli artificieri, era ripiegato e irrigidito. Indossava lo stesso abito scuro che aveva il giorno del rapimento, con la camicia bianca a righine e la cravatta ben annodata. Alcune testimonianze affermano che la macchina sia stata portata in via Caetani nelle prime ore del mattino, tra le 7 e le 8, e lasciata fino a quando gli assassini hanno ritenuto opportuno avvertire la famiglia dello statista. Altre testimonianze, invece, affermano di aver visto la Renault parcheggiata soltanto intorno alle 12.30 e non prima. Secondo le ultime rivelazioni il corpo di Aldo Moro sarebbe stato ritrovato, il 9 maggio 1978 in via Caetani, con circa un’ora di anticipo sulla telefonata con cui Valerio Morucci, alle 12.13, avvisò il professor Francesco Tritto dell’avvenuta esecuzione. L’allora artificiere Vito Antonio Raso, ora sostiene di essere arrivato in via Caetani molto prima, in seguito ad una segnalazione anonima che denunciava la presenza di una macchina forse esplosiva, e di aver scoperto prima delle 12 il cadavere di Moro. Anche il Ministro degli Interni Francesco Cossiga sarebbe arrivato prima dell’orario ufficiale, intorno alle 14, e addirittura prima della scoperta del corpo, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al Colonnello dei carabinieri Antonio Cornacchia. Il fascicolo, affidato al pubblico ministero Luca Palamara, è connesso a quello aperto recentemente sulla base di un esposto di Ferdinando Imposimato per il quale la morte poteva essere evitata. Il nuovo procedimento è stato avviato d’ufficio ed ha preso spunto da notizie diffuse a proposito della versione dei due ex antisabotatori. L’attività istruttoria mira a verificare se quanto riportato in alcune recenti ricerche sul caso Moro contenga elementi utili per fare luce sulla vicenda. E tra queste c’è una meticolosa ricerca dei giornalisti Manlio Castronuovo e Paolo Cucchiarelli riferita al mistero sull’orario in cui effettivamente lo Stato seppe della morte di Moro.
Questo è un comunicato stampa diffuso da Vito Antonio Raso: “Ho raccontato la mia esperienza di anti-sabotatore in un libro per far capire anche agli altri cosa vuol dire uscire al mattino con l’obiettivo di salvare la vita di gente innocente. E, questo, negli anni Settanta, quando i residui bellici inesplosi erano ancora numerosissimi e gli attentati politici riempivano le pagine dei giornali. Ho partecipato con attenzione al lavoro di approfondimento di Castronuovo e Cucchiarelli fornendo loro ogni informazione in mio possesso per trovare riscontri al fatto che il mio intervento di artificiere fu richiesto sicuramente prima delle 11 del mattino. Ho dedicato del tempo, fatto ricerche e sacrificato la mia famiglia come è già capitato in passato quando si trattava di questioni di lavoro importanti. Perché quando ho saputo che i conti degli orari non tornavano, ho pensato fosse giusto dare il mio contributo. In questi giorni ho sentito di tutto. Che ero stato pagato, e passi. Che ho mentito, e passi pure questo. Che l’ho fatto per smania di protagonismo. E va bene, ho le spalle larghe. Ma di fronte al comportamento disgustoso di alcuni giornalisti che hanno perseguitato me e la mia famiglia, con quell’arroganza e quella maleducazione dalle quali ho sempre mantenuto le distanze in tutta la mia vita, a queste condizioni io non ci sto. Non esiste un personaggio Vito Raso, esiste ciò che ho detto. È scritto lì, nero su bianco. Io sono stato un uomo dello Stato e lo sarò fino a quando il signore mi darà vita. E non voglio fare di tutta l’erba un fascio perché, ne sono sicuro, anche nella categoria dei giornalisti ci sono persone capaci ed educate, come mi hanno dimostrato in questi giorni. È per questo che intendo comunicare il mio silenzio stampa immediato non avendo altro da aggiungere rispetto a quanto fin qui scritto. Naturalmente resto a disposizione delle autorità competenti con le quali ho sempre collaborato nel mio lavoro e alle quali darò tutto il supporto che mi potrà essere richiesto. Nulla toglie che tornerà il sereno e potremmo ricominciare a parlarne con la massima serietà e serenità. Insomma chi ricorda quella poesia che dopo la tempesta torna il sereno e anche le galline fecero festa? Grazie comunque a tutti. Vito Raso”.
Controbatte l’ex generale Antonio Cornacchia che quando gli dissero di andare in via Caetani erano le 13.20. La voce via radio era del colonnello Gerardo Di Donno, che comandava la sala operativa. Cornacchia era in piazza Ippolito Nievo e non sapeva dove fosse via Caetani. Ci pensò il suo autista, Di Francesco. Quando arrivò, non c’era nessuno. Vide la Renault rossa parcheggiata e bloccò la strada chiedendo a Di Donno due auto di rinforzo che piazzò all’angolo con via delle Botteghe Oscure e in fondo, verso via dei Funari. La Renault era chiusa. Da fuori non si vedeva niente. Disse agli artificieri di tirar fuori dalla sua auto un piede di porco con il quale aprì il portabagagli della Renault. Nel 1978 Cornacchia comandava il nucleo investigativo dei carabinieri. Secondo i due artificieri che oggi sostengono di essere giunti in via Caetani un’ora prima della telefonata con cui il brigatista Valerio Morucci comunicava l’avvenuta esecuzione e il luogo in cui la famiglia avrebbe trovato il suo corpo, Cornacchia arrivò con Francesco Cossiga e col capo dell’ufficio politico Domenico Spinella.
Giovanni Circhetta, il maresciallo capo che era il superiore diretto di Vito Raso, conferma invece la versione del suo sottoposto ed aggiunge che qualcuno aprì quell’auto prima del loro intervento e che in macchina c’erano due lettere delle quali non ha mai trovato alcun riferimento nei verbali di sequestro. Erano le 11 del mattino. Circhetta si fece accompagnare dal sergente Andrea Casertano, in modo da avere qualche braccia in più che, in simili situazioni, si sarebbe rivelata sicuramente utile. Oltre a Rasso c’erano alcuni poliziotti in borghese, un commissario che aveva uno spiccato accento sardo e l’alto ufficiale dei carabinieri Antonio Cornacchia. C’era anche qualche curioso, ma Cornacchia non sa dire se fossero semplici passanti o agenti dell’antiterrorismo che osservavano la scena. La zona era stata parzialmente delimitata. Circhetta si puntellò nel bordo del bagagliaio per sporgersi verso l’interno della macchina ed avere la certezza che non ci fossero ordigni. Sui sedili posteriori c’erano degli oggetti. Vide distintamente una busta da lettera chiusa il cui contenuto era poco spesso e lasciava intendere che fossero pochi fogli piegati similmente a come si fa per spedire una lettera. Non vi erano segni distintivi, né scritte. Circhetta notò anche un assegno bancario. Una versione che è oggi corroborata dalla testimonianza di Claudio Signorile, ex parlamentare e ex Ministro dei Trasporti del governo Craxi, che quella mattina era con Cossiga.
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La quarta via anonima: stretta, corta, angusta. Qui non batte mai il sole. La strada è composta di piccoli sampietrini. Le grate coprono le finestre degli edifici. Prima di andare in Senato, il 9 maggio 2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha deposto una corona di fiori davanti alla targa che ricorda il sacrificio di Aldo Moro. Il capo dello Stato si è soffermato qualche minuto in raccoglimento. Dopo la cerimonia si è intrattenuto a colloquio con il presidente del Senato Pietro Grasso, la presidente della Camera Laura Boldrini e il premier Enrico Letta, anche loro in via Caetani, insieme al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e al sindaco di Roma Gianni Alemanno. Le parole, secondo Napolitano, sono oggi pericolose come lo sono state in passato. Il ricordo del sacrificio delle vittime del terrorismo ci ha dato un’occasione per apprendere che la violenza va combattuta, fermata, scongiurata prima che si tramuti in eversione. Dieci anni prima il presidente Carlo Azeglio Ciampi depose corone in via Fani e in via Caetani. La figura dello statista assassinato dalle Brigate Rosse venne ricordata dal presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, da Giuliano Vassalli e da Leopoldo Elia. Alla cerimonia parteciparono numerosi esponenti del governo, parlamentari e antichi compagni di strada di Aldo Moro. In sala arrivarono anche i famigliari degli agenti della scorta che furono uccisi in via Fani. Nel 1998 fu celebrata una messa nella cappella del Quirinale. Un anniversario che il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro commemorò al fianco della moglie e dei familiari di Moro. I dirigenti del Partito Popolare con in testa Rosa Russo Jervolino, parteciparono ad una funzione celebrata da monsignor Achille Silvestrini. Nel 1988 toccò a Francesco Cossiga. Sul terrorismo, ammise, mentirono tutti, perché fu la ragione di Stato che impose di criminalizzare i brigatisti, di bollarli come criminali comuni. Eppure si sapeva che incarnavano un fatto politico che infettava la società. Per Cossiga non si potevano imbastire analisi, discussioni. Ammise anche di essere stato un semplificatore, suggerendo ad Andreotti che le lettere di Moro non erano moralmente autentiche. Cossiga disse di aver corrisposto in modo ingeneroso alla generosità di Moro. Dovendo scegliere tra la tutela degli interessi dello Stato e della democrazia, e la linea della fermezza e la vita di Aldo Moro, ha scelto la prima avendo la certezza che avrebbe significato la morte del suo collega. Cossiga è morto consapevole dell’altissimo prezzo umano che ha fatto pagare ad un uomo e a una famiglia innocenti, assumendosi la responsabilità dell’operato del ministero dell’Interno che conosceva e approvò. Il suo giudizio su Moro è netto: è stato un grande intellettuale, un grande politico, un grande cristiano, un grande servitore dello Stato e del popolo.
La targa di via Caetani è scura, come il volto di Moro in un rilievo sul muro di sinistra. Ai lati due finestre con le grate che assomigliano ad una prigionia, fatalmente. Guardo e riguardo la via, le auto parcheggiate, i motorini, la targa. È ora di chiamare un taxi e di tornare a casa.
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Un capitolo a parte meriterebbe la scoperta del memoriale avvenuta in via Monte Nevoso 8 a Milano e che riguarda i documenti redatti da Aldo Moro. Furono rinvenuti in due occasioni, nel 1978 e nel 1990. Vennero inizialmente presi in consegna dalla Digos, per essere poi consegnati e pubblicati dalla Commissione Stragi solo nel 2001. I testi sono elaborati in prima persona, con Moro come scrivente, e diffusi in forma dattiloscritta presumibilmente da Firenze, secondo alcuni dal covo di via Barbieri, o in un appartamento vicino il carcere di Sollicciano. Un primo ritrovamento avvenne il 1° ottobre 1978. Si tratta, appunto, di pagine dattiloscritte, che potrebbero essere state manipolate o censurate. Alcune pagine manoscritte vennero invece ritrovate in un’intercapedine della stessa casa, il 9 ottobre 1990, durante dei lavori eseguiti da un muratore napoletano. Erano dentro un vano creato con un pannello di gesso. Fu rinvenuta una cartelletta di cartone color marrone, sigillata da un nastro adesivo e al cui interno erano contenuti più di quattrocento fogli fotocopiati degli originali del memoriale. Dopo la redazione del dattiloscritto i documenti originali, i nastri magnetici e i documenti scritti vennero ritenuti distrutti, stando alle versioni fornite dai brigatisti. Il 22 marzo 2001 la Commissione stragi decise la pubblicazione integrale del materiale. Alcuni aspetti erano già stati resi noti durante il sequestro dell’archivio del generale Demetrio Cogliandro, ex capo del Sismi, la vigilia di Natale del 1995.
Nel sito www.federalismi.it in un’intervista di Federica Fabrizzi del 10 giugno 2008 allo storico Miguel Gotor, che si è occupato a lungo del memoriale e dei suoi originali mai ritrovati, è riferito: “Non credo che sia stato distrutto come raccontato dai brigatisti e non ho idea che fine possa aver fatto. La mancanza degli originali degli scritti di Moro (le lettere non distribuite, il memoriale, i documenti riservati contenuti in una delle due borse, le carte che eventualmente possono essere entrate in prigione dall’esterno attraverso un canale di ritorno che il prigioniero era certo di avere instaurato) è un dato di fatto che caratterizza l’intera vicenda. Non conoscendo gli originali, naturalmente, non sono in grado di dirle quali notizie riservate potessero contenere. Degli scritti di Moro abbiamo solo dattiloscritti e fotocopie di manoscritti che non sappiamo in che misura siano completi. Tuttavia, due dati sono certi in base alla lettura dei comunicati: anzitutto, i brigatisti minacciarono più volte di divulgare alla pubblica opinione le rivelazioni di Moro e non l’hanno mai fatto né durante, né dopo la morte dell’uomo politico. Inoltre, sin dal primo comunicato, l’operazione ha un inconfondibile carattere spionistico-informativo, in cui le dichiarazioni del prigioniero e il conseguente ricatto politico hanno un ruolo centrale. Le novità scaturite dall’analisi testuale di queste lettere sono numerose. Mi limito a ricordarne alcune: anzitutto ci sono delle missive tagliate e fatte oggetto di una manipolazione censoria che le ha rese di difficile comprensione. In secondo luogo, sostengo con argomenti a mio giudizio plausibili che le lettere effettivamente recapitate durante il sequestro furono almeno 36 e non 28 come ritenuto sinora; inoltre, credo di essere riuscito a ricostruire il laborioso meccanismo di composizione di molte missive, il rapporto cioè che intercorreva tra la scrittura di Moro, la dattiloscrittura dei brigatisti e l’ultima stesura da parte del prigioniero dopo che il dattiloscritto aveva passato il vaglio del comitato esecutivo. Infine, ho dato molta importanza alla raffinata strategia di recapito adottata dai brigatisti che fu parte integrante della loro azione terroristica a livello propagandistico ed è stata spesso sottovalutata nella sua portata destabilizzante: in alcuni casi i rapitori imposero la divulgazione delle missive affidandole ai giornali e alle agenzie di stampa; in altri, lasciarono facoltà ai destinatari di decidere se mantenere il testo riservato oppure renderlo pubblico”.
Nel libro Il memoriale della Repubblica, Gotor annota: “È pur vero che sulla scomparsa degli originali di Moro e sulle autentiche ragioni che indussero i brigatisti a non distribuirli durante e dopo il sequestro, è calata una spessa coltre di silenzio poiché si è verificata una imbarazzante quanto drammatica eterogenesi dei fini tra il governo, i brigatisti rossi, i partiti politici, i familiari e gli amici di Moro: un’eterogenesi così facilmente prevedibile nel suo meccanismo formativo e autobloccante da indurre a pensare che gli originali degli scritti di Moro, nella loro versione integrale, non siamo rimasti in mano italiana”.
Riportiamo un capitolo scritto da Moro dal titolo L’emergenza Italia, il più illuminato, razionale, lucido scritto, che guarda al futuro nel tempo della coniugazione, del compromesso, della flessibilità, e che riassume un pensiero costante maturato prima della prigionia: “Innanzitutto io tengo, davanti a tante irrispettose insinuazioni, affermare che non sono fatto oggetto di alcuna coercizione personale, sono in pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e volitive e che quel che dico, discutibile quanto si voglia, esprime il mio pensiero. Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra, da venti giorni, nel corso dei quali ho vissuto, com’è immaginabile e inevitabile, in circostanze eccezionali. Ma non solo sono stato debitamente assistito, ma ho potuto lavorare e farmi le mie convinzioni lucidamente. Non si potrà dire pertanto domani che io in fondo trovavo giuste ed avallavo le posizioni delle forze politiche, a cominciare da quelle della Democrazia Cristiana, ma si dovrà dire invece che le consideravo disumane, pericolose, politicamente improduttive. Il mio vivo stupore è stato di non trovare eco alcuna di queste complesse valutazioni nei dibattiti parlamentari, ma di coglierli grigi e privi di vibrazioni umane come non mai. Può essere che un Paese come l’Italia, ricco di sentimenti, capace di cogliere la sofferenza in tutte le sue forme per istinto indotto all’equità, sia stato così duro, spietato, miope, monocorde in questa circostanza. È come se un’ondata di terrore, un rifiuto del ragionamento abbiano percorso e paralizzato il Paese e reso monotono un Parlamento, altre volte ricco di vibrazioni umane. Questa è l’amara constatazione nella quale si trova il segno di un impoverimento della nostra vita democratica, come se essa dovesse combattere con le armi e solo con le armi per la sua salvezza. E poi? I contenuti di cui si discute con profonde differenze di metodo e di impostazione, ma che pure esistono e non possono essere annullati? In precedenti messaggi, non coartato, ma facendo anzi riferimento ad idee precedentemente espresse, ho accennato all’eventualità di scambio di prigionieri politici. Non l’ho fatto solo perché anch’io mi trovavo tra essi, ostaggio come quelli cui alle Fosse Ardeatine non fu concesso di salvare la vita. L’ho fatto, certo anche pensando a me, ma sinceramente a prescindere da me, per ragioni generali di umanità, perché così si pratica in molti paesi civili, perché vale ben poco affermare un astratto principio di legalità e poi sacrificare vite umane innocenti, perché la stessa sicurezza dello Stato guadagna da un minimo di distensione, come quando gruppi irriducibilmente ostili si disperdono fuori del territorio nazionale, sia pure acquisendo un po’ di respiro che è loro altrimenti precluso. Mi si dimostri a che giovano le tensioni e le vittime come quelle dei vari processi di Torino, quando, con minor dispendio di vite umane e con il riconoscimento di ragioni di equità, i prigionieri potevano essere dispersi fuori del territorio nazionale e resi praticamente innocui. Così invece essi concorrono ad alimentare una guerra che è, si voglia o no, una guerra, non riconducibile ad un’operazione di polizia, non riportabile a comune delinquenza, ma espressione di una sfida essenzialmente politica, per ragioni di fondo che una visione riduttiva delle cose non gioverebbe a cogliere. Proprio perché il fenomeno è così complesso bisognerebbe rifletterci su molto e dare tempo al tempo, per pervenire ad una decisione accettabile ed efficace. Desidero ricordare la grande emozione che circondò, in modo ricorrente, le manifestazioni del terrorismo in Alto Adige. Fenomeno, a suo modo, durissimo e ben difficile da contenere. Ebbene in quel caso, non senza molte incertezze, fu trovata una formula politica che permise di placare gradualmente il fenomeno, soddisfacendo esigenze che, si dimostrò, andavano soddisfatte. Non sarò certo così superficiale da equiparare meccanicamente due fenomeni che hanno sì affinità, ma anche rilevanti diversità. Bisognerebbe andare perciò al fondo delle cose. Ma resta il fatto che una fretta semplificatoria ed irrigidente non portò a nessun risultato, come accadde invece con una politica più cauta, di tempi più lunghi, non priva, anche in prospettiva, di provvedimenti di clemenza, capace di ricondurre dalla sua rozza scorza di fatto terroristico, alla più complessa essenza di fenomeno politico”.
Sincero e implacabile, Moro connota eventi che durante la prigionia non possono essere taciuti, nel dialogo con se stesso e con i brigatisti. La raccolta degli scritti merita un’analisi approfondita. È onesta, schietta, guarda al mondo travalicando la propria posizione a difesa della fatalità che prende corpo dal male della cronaca, dalla degenerazione politica italiana e straniera. La storia recente, a volte, riversa sdegno, si fa condizione delle colpe personali e restituisce la drammaticità nei ritmi sincopati di episodi negativi, in un angoscioso processo di annullamento del bene comune. Il dire si prolunga in un corto circuito di frasi nell’implacabile incedere della parola-verità. Questa parola non va, però, verso un compimento e una definizione, bensì denuda solo lo sguardo critico e registra fatti. La testimonianza di Aldo Moro si staglia in un verbale che connota azioni, in una progressione dilaniante, in un attrito che segna un’epoca, che vuole opporsi ad un metodo. Ma la stessa parola non è mai sfibrata e incontenibile, non è mai destrutturata di un significativo orizzonte tematico e di un respiro proprio. Il quadro d’insieme, tiene. La discorsività e l’elegante presa conducono ad un margine estremo di fatti e anche ad una condizione riflessiva, in un’esperienza collusa di uomini di potere. Moro non si lascia catturare dalla convinzione di approdare al senso negato come obiettivo primo ed ultimo. Piuttosto seleziona eventi e li rende sensibili ad una comprensione evidente, ad una disposizione logica. Questi eventi appaiono decisamente frustranti, per chi li subisce. Il battito sotterraneo della parola mantiene una cadenza descrittiva e individua fermamente uno schema nella verità malata della politica. Non figura mai la desoggetivazione, ma un io e un noi che sono aspetti trainanti, decisivi del memoriale. Affiora la necessità di comunicare, di conversare, di ritagliare una conoscenza consapevole. Si nota un senso di percezione fisico, oltre che una convergenza tra fatto e uomo, tra fatto e politica. Certamente la risposta di Moro rimane ancora quella di chi si pone contro ogni tipo di mercificazione della società e quindi di chi tenta di suscitare uno sgomento contro ogni forma di conservazione e di conformismo. Ci sono continue dimostrazioni di come la versione narrata viri verso la lacerazione della realtà, eppure mai in una presa aggressiva. Il linguaggio penetra incessantemente le cose orientandole. Le frasi sono tanto nette quanto cristalline. Il fatto è enunciato per quello che è, così il dramma della politica e di chi rappresenta le istituzioni. La rappresaglia umana fa intendere come i valori siano capovolti, come la materia superi lo spirito, come un senso di disgregazione possa annullare ogni intenzione pacifica. L’autenticità delle parole di Moro segna il richiamo ad un senso di responsabilità che sembra irrimediabilmente perduto. La realtà macerata è quella dell’esperienza concretizzata in un accecamento. Parla l’io che tenta di avvicinare i propri simili e di porre le domande fondamentali della vita. La disamina dello statista è inconfondibile nella concentrazione dei fatti, e la lingua appare sempre più disossata nei sentimenti, nella dialettica, nella protesta civile. Tutto lievita in una indefettibile certezza, in un sistema di riferimenti, in un allineamento contro le storture della democrazia. L’identificazione formale e sostanziale è sempre precipua, di pagina in pagina. Non manca l’accenno al futuro, all’avvenire, al dopo, ad un concreto, concretissimo auspicio.
Nel capitolo Congedo dalla Dc, Moro scrive: “Chi ha non cede quello che ha, non desidera farne parte agli altri. In effetti si corrode il circuito dell’innovazione democratica sia nel Paese per la lunga e invariata gestione del potere pur nel mutare delle alleanze, sia nel partito dove gruppi di potere ora si scontrano ora si sorreggono a vicenda e traggono motivo di singolare durevolezza dalla gestione del potere fine a se stesso. Frattanto matura l’esigenza d’integrazione, necessaria per costituire uno Stato solido, e dai partiti si attendono cose che essi non sono in grado di dare né nella forma della primitiva e più semplice organizzazione, né in quella piuttosto sclerotizzata che abbiamo innanzi descritta. Da qui la spinta a costruire un nuovo tipo di partito: un partito sensibile a spunti culturali, tecnocratico, piuttosto indifferente sul piano ideologico, nutrito di concrete esperienze internazionali. Questo nuovo tipo di organizzazione dovrebbe essere in grado di assolvere le funzioni per le quali oggi i partiti, e segnatamente quello della Democrazia Cristiana, mostrano di essere incapaci. Da qui tutto il gran parlare, e un po’ anche fare, in vista dell’indispensabile rinnovamento della Democrazia Cristiana. Essa dovrebbe essere: partito aperto nelle strutture interne senza chiusure egoistiche e d’interessi di gruppi, arbitri del potere questi ultimi e tesi a detenerlo in qualsiasi forma il più a lungo possibile; partito aperto verso gruppi sociali aderenti o anche solo simpatizzanti; maggior peso attribuito agli eletti nelle assemblee rappresentative di vario livello; arricchimento ed approfondimento dei rapporti internazionali in società fortemente integrate al di là del livello puramente nazionale”.
Alessandro Moscè
(continua)