L’ingiustizia. E il destino tragico. Entrambe fanno parte della storia umana. E un gigante come Schopenhauer ci ha disegnato attorno la sua maestosa visione filosofica. Nonostante questo, ovvero, nonostante sappiamo come funzionano le cose sul pianeta Terra, tutte le volte che muore un bambino, il mondo fa un po’ più schifo di prima. A questo, per fortuna, non ci abituiamo.
Alla morte dei bambini. E degli innocenti in genere, anche quando non sono più bambini.
Non c’entrano i migranti e la poca umanità e la tanta ipocrisia delle istituzioni internazionali, dell’opportunismo bieco e trasversale dei politici italiani e le strumentalizzazioni di alcune ONG. C’entra l’umanità nel suo complesso, soprattutto quella d’Occidente. Guardare la foto del piccolo Aylan, il bimbo di tre anni morto sulla spiaggia l’estate scorsa, è un passo in più verso lo schifo. Sapere che ci sono morti invisibili in fondo al mare muove un altro passo ancora. Pensare a Giuseppe che muore di botte a 7 anni, ucciso a bastonate dal patrigno, è oltrepassare il precipizio.
C’entrano le scelte degli uomini e quelle, altrettanto tremende, del destino. Come nel caso di Julien. Uguale ad Alfredino, hanno scritto i giornali per commentare il dramma del bimbo di due anni morto in un pozzo artesiano nei dintorni di Malaga, in Spagna, pochi giorni fa.
Alfredino chi? Mi hanno detto in diversi – tutti ragazzi intorno ai 25 anni.
La sera del 10 giugno 1981, Alfredo Rampi, di 6 anni, non rientra a casa. I genitori iniziano le ricerche ma non lo trovano. Arriva la polizia e intorno a mezzanotte, grazie all’intuizione prima della nonna e poi dell’agente Giorgio Serranti, si scopre che è caduto in un pozzo non lontano da casa. Un pozzo profondo ottanta metri e largo all’imboccatura soltanto una trentina di centimetri. I tentativi di salvataggio iniziano con una corda, poi con una tavoletta di legno che si incastra a una ventina di metri di profondità.
All’una di notte arrivano i tecnici della Rai e calano una sonda a filo che consente ai soccorritori di comunicare con lui. È bloccato su una rientranza del pozzo a trentasei metri di profondità. Quattro persone rivolte verso il basso. Una corda che scende nel buco. Una torcia puntata nel buio. Due teste quasi dentro al pozzo. L’idea dei soccorritori è quella di scavare un tunnel parallelo al pozzo, per aprire un cunicolo orizzontale di un paio di metri poco sopra il punto in cui si suppone possa trovarsi il bambino.
Alle quattro del mattino due speleologi del soccorso alpino si calano a testa in giù nel tentativo di rimuovere la tavoletta incastrata. Non ci riescono. Nel frattempo i vigili del fuoco pompano ossigeno nel pozzo per evitare l’asfissia del piccolo.
Alle otto e trenta una trivella comincia a scavare ma già a metà mattina uno strato di granito risulta impossibile da scalfire. Alfredino, nel frattempo, grazie alla sonda è in costante contatto con parenti e soccorritori e si lamenta per il rumore e chiede acqua e cibo.
Verso le quattro del pomeriggio subentra una nuova trivella. La prima ha scavato un pozzo di venti metri di profondità contro i venticinque previsti, con un diametro di cinquanta centimetri. Gli operatori della nuova trivella la montano a tempo di record: tre ore contro le dodici previste dal manuale, ma sottolineano la difficoltà di scavare quel tipo di sottosuolo. Difatti, verso le cinque e mezza, una volta raggiunto lo strato roccioso, anche la seconda trivella si blocca.
Alle otto di sera i medici cercano di far arrivare liquidi e vitamine tramite un sottile cavo collegato con un flacone da fleboclisi. Alfredo, nonostante una cardiopatia congenita che doveva essere operata il prossimo settembre, è forte, ma sono già passate ventidue ore da quando è precipitato nel pozzo. Nel silenzio, i medici e i parenti parlano con lui. Intanto i lavori ricominciano. Entra in funzione una terza trivella ma un’ora e mezza dopo serve una pausa perché lo strato di roccia resiste oltre ogni aspettativa.
Alle undici viene autorizzato a scendere nel pozzo il volontario Isidoro Mirabella. È un manovale di 52 anni residente in zona, soprannominato “Uomo ragno”, che tenta di calarsi nel pozzo per sbloccare la tavoletta. L’uomo ha una corporatura molto esile e riesce a scendere più in basso di quanto avevano fatto gli speleologi in precedenza ma alla fine anche lui deve desistere.
A mezzanotte, per agevolare il lavoro della trivella, la massa rocciosa viene perforata in più punti e Alfredino dà i primi segni di stanchezza e alle domande risponde meno a tono e si lamenta.
Alle tre del mattino del 12 giugno, sorprendendo i soccorritori, riprende a parlare: chiede del latte, che gli viene immediatamente calato di sotto.
Alle nove la trivella riesce a rompere la roccia ma alle dieci e trenta la perforazione slitta su un nuovo strato roccioso. Alfredino adesso sembra ai limiti della resistenza.
Alle dodici, per aggirare la roccia, viene calato nel pozzo un ufficiale dei vigili del fuoco che usa manualmente il martello pneumatico. Il bambino è vicino e il vigile del fuoco sente dirgli “Mamma”.
All’una e mezza il vigile del fuoco torna in superficie. Il suo posto al martello pneumatico viene preso da due colleghi. Alfredo li sente e riprende a parlare con i soccorritori.
Alle due chiede dell’acqua. Gli rispondono che gliel’hanno già data e lui dice che l’ha bevuta tutta.
Alle due e mezza i soccorritori sono più vicini. Nel cunicolo che stanno terminando di scavare viene immessa ancora aria.
Alle tre e mezza viene chiesto ad Alfredino di urlare un nome, quello di Mario, per permettere ai vigili del fuoco che lo stanno raggiungendo di orientarsi. Alfredo obbedisce e i martelli pneumatici ricominciano a lavorare.
Alle quattro e mezza giunge sul posto il presidente della Repubblica Sandro Pertini che va all’imboccatura del pozzo e scambia qualche parola con lui attraverso la sonda.
Alle sei i due vigili fanno cadere l’ultimo diaframma che separa la galleria parallela dal pozzo artesiano dove Alfredo è prigioniero da quarantasette ore.
Alle otto di sera i soccorritori riescono ad aprire un foro di circa venti centimetri nel pozzo artesiano ma non vedono Alfredo. Viene calata una lampada a trentasei metri di profondità. Lui dice di vedere una luce sopra di sé. Alfredo è scivolato ancora più giù. Ora è a sessanta metri di profondità. I soccorritori decidono di far scendere nel pozzo uno speleologo per raggiungerlo attraverso il foro di collegamento creato dagli altri soccorritori. Tuttavia l’apertura si rivela troppo stretta per permettere di accedere da lì al pozzo artesiano e il giovane speleologo deve desistere.
Un volontario di origine sarda, Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, poco dopo la mezzanotte fra il 12 e il 13 giugno si fa calare nel pozzo artesiano. A mezzanotte e quindici minuti raggiunge il bambino. Il piccolo è coperto di fango. Angelo per sette volte prende Alfredino, facendolo salire di una decina di metri. E per sette volte gli sfugge la presa. All’una meno dieci, Angelo, stremato, viene tirato su. In tutto resta a testa in giù quarantacinque minuti, contro i venticinque considerati come soglia massima di sicurezza in quella posizione. All’uscita, Angelo viene preso in braccio da un vigile del fuoco e da un civile. È sporco e trasfigurato in volto.
Alfredino è ancora lì, a sessanta metri di profondità. “Angelo” riesce a dire con un filo di voce. “È immerso nel fango ed è stremato ma è ancora vivo”, dice l’uomo altrettanto sfinito.
All’una, Claudio, un giovane trapezista, si offre volontario e scende nel condotto di collegamento: è il primo di una serie di tentativi tutti sfortunati e, fino alle tre, decine di volontari, sprovvisti di qualunque esperienza ma con le caratteristiche fisiche necessarie, vengono controllati dai medici e quattro di loro si calano nella galleria di raccordo fermandosi però al raccordo o subito dopo.
Alle tre i tentativi s’interrompono. I soccorritori s’interrogano sull’eventualità di far scendere nel pozzo gli ultimi due volontari, due adolescenti, poi optano per un tentativo diverso e alle quattro e venti cercano di agganciare il bambino con una piccola ancora con l’ausilio di una telecamera fatta scendere fin dove è prigioniero ma la discesa della telecamera è impossibile e l’esperimento viene interrotto. Intanto cessano i contatti. Alfredino non parla, non piange e non si riesce nemmeno a sentirne il respiro.
Verso le cinque del mattino tenta un altro speleologo. Il venticinquenne Donato Caruso. Anche lui lo raggiunge e prova a imbracarlo ma le fettucce da contenzione psichiatrica che usa e che avrebbero dovuto assicurare una sorta di effetto cappio, scivolano via al primo strattone. Caruso si fa tirare su fino al cunicolo di collegamento, dove si ferma per riposare e poco dopo scende ancora. Effettua altri tentativi, usando un paio di manette, rischiando lui stesso la vita perché queste sono legate alla corda di sicurezza. Ma alla fine anche Caruso torna in superficie. Senza Alfredino.
Alle sette sono sessanta ore che il piccolo è nel pozzo.
Tra le undici e le due e quaranta vengono fatti altri quattro tentativi. Inutili.
Alle quattro e quaranta del pomeriggio viene calata una telecamera che arriva fino a venti centimetri dal suo corpo. È rannicchiato in posizione obliqua, completamente sporco di fango. Si vede chiaramente anche il suo viso reclinato su una spalla, un braccio sul petto e l’altro ripiegato dietro la schiena. È immobile.
Alle sette e quarantadue viene introdotto nel pozzo lo stetoscopio che dovrà controllare se è ancora presente attività cardiaca. La risposta, come ormai tutti si aspettano, è negativa. Finiscono così le speranze di tutta Italia.
“Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte”, dice quel giorno in tv il giornalista Giancarlo Santalmassi. “Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: sessanta ore di lotta invano per Alfredo Rampi”.
Allora come oggi. Quando il mondo, che è così bello, fa schifo.
Michele Mengoli