Quando ero bimbo anteponevo al mio nome un altro. Robin Hood. L’unica fonte a cui mi abbeveravo, piccino, era il Robin Hood di casa Disney, uscito 45 anni fa, firmato da Wolfgang Reitherman, lo stesso, per intenderci, della Bella addormentata nel bosco, de La spada nella roccia, del Libro della giungla, delle Avventure di Winnie the Pooh. Fece grande la Disney degli anni Sessanta-Settanta.
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Nel cartone animato, come si sa, Robin Hood, il bandito leggendario sorto dai ruderi del Medioevo anglosassone, è raffigurato da una volpe. Le sue caratteristiche sono la scaltrezza e la mira: mentre i soldati dell’esercito usano la spada o la balestra, Robin adotta, con particolare abilità, l’arco. L’arco uccide a distanza, richiede un gesto di granitica eleganza: l’arco, rivoltato, può mutarsi in lira. L’assassinio, in fondo, assume una forma lirica.
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Secondo l’antropologia positiva della Disney, l’intelligenza vince sulla forza bruta; la nobiltà primeggia sull’arroganza; il bene sovrasta il male. I rapporti di valore sono chiari, manichei. Da un lato c’è la foresta – emblema dell’istinto, della libertà – dall’altro la città, icona della prigionia urbana. Da una parte il denaro usato come benzina per il lusso di pochi, dall’altra il denaro distribuito in base alle esigenze di tutti; da un lato il sopruso dall’altro la generosità; da una parte la chiesa – arcivescovile – che benedice l’azione del potere malvagio, dall’altro il prete che fa le parti dei banditi, brinda con loro. Nel cartone animato della Disney i buoni hanno figure rassicuranti – volpi, conigli, orsi – i cattivi sono famelici – lupi, coccodrilli, avvoltoi, leoni. Punto mediano, Lady Marian, volpe pure lei – nella fiction disneyana –, che è bella e nobile – la donna da desiderare, comunque, non è una popolana ma la sublime nel castello, guarda un po’.
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Il Robin Hood con Taron Egerton – più che un film, un videogame – ha dato adito alla più banale delle interpretazioni. In tempi di crisi, quando lo Stato assume il volto della cerbera/becera Europa, meglio affidarsi a chi rimette in senso l’economia con l’astuzia. Tu chiamala se vuoi frustrazione sociale. Non è inutile ricordare che nella vulgata cinematografica Robin & Co. vivono in una specie di ‘comune’ all’aria aperta, dove non esiste la proprietà privata ma i beni sono condivisi. Il ‘sessantottismo’ è sempre dietro l’angolo.
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“Robin Hood può essere un gioco innocuo e catartico – ma nei momenti difficili ha la potenza di stimolare alla ribellione, all’istinto di giustizia sociale. Se è così, attendiamo ancora il Robin Hood che ci meritiamo”, ha concluso Steve Rose sul Guardian ragionando intorno al‘fenomeno’. Su una cosa ha ragione. Le versioni filmiche del bandito più celebre del mondo occidentale sono decisamente modeste. Il Robin Hood di Ridley Scott è una versione in blusa trecentesca del Gladiatore; Robin Hood. Principe dei ladri si risolve nel ceffo di Kevin Costner all’apice del successo; Robin e Marian è una sorta di soap con attori di chiara fama in cerca di riscatto – Sean Connery e Audrey Hepburn. Ad ogni modo, dal Robin Hood con Errol Flynn – erano i tardi anni Trenta – il cinema ha tentato di sfruttare il mito a suo guadagno.
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C’è il potere buono – Riccardo Cuor di Leone – e quello bastardo – Giovanni Senzaterra – ma forse ogni forma di potere è maculata dal disastro.
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Robin Hood – di cui non vanno sottomessi gli aspetti ‘cristici’: il riscatto dei poveri, la gloria futura degli ultimi, il ribaltamento dei valori – non è ‘fuori legge’ ma è la giustificazione che quando la legge è sballata, bisogna fuggirla. D’altronde, dalla Bibbia in qua, è vero che non tutti i morti sono uguali: ci sono morti più morti di altri, ci sono morti che se la sono meritata.
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L’agiografia è affascinante perché di solito fa santo un brigante. Era un Salone del Libro di molti anni fa. Ne uscii con il Robin Hood di James C. Holt pubblicato da Rusconi. Mi fece male – e fu terapeutico. Lo studioso, esperto in fatti medioevali, metteva sull’avviso i complici compatrioti: attenzione gente, perché la leggenda di Robin Hood è messa “a servizio del turismo a buon mercato”. Ergo: “Se Robin viene ancora considerato come l’espressione del malessere sociale o dello scontento odierno, ebbene… così sia! Ma questa non deve essere una scusa per favorire le fantasie moderne come spiegazioni di una realtà medioevale… La fantasia presente in tutte le leggende falsifica: e la fantasia satura la storia di Robin Hood. Di fuorilegge ha fatto eroi. Ha confuso la violenza e il crimine con la giustizia e la carità. Nel tentativo di colmare il divario tra mondo reale e mondo ideale ha presentato alcuni di problemi sociali del Medioevo in modo troppo netto, con una divisione troppo precisa tra il bene e il male. E così facendo, ha realizzato una perpetua truffa all’americana”. Nei testi medioevali e rinascimentali, Robin Hood è “il celebra assassino”, a capo della “sciocca marmaglia” (Walter Bower, 1440-1450). C’è poca santità sul capo di un uomo che agisce come gli indica l’indole, assecondando le norme del caso più che la virtù.
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Il brigantaggio come opera d’arte: anche in Italia ci sono esempi miliari, nel banditismo meridionale, in figure come il ‘Passator cortese’ – che cortese era con chi gli ubbidiva – nella Resistenza intesa come fenomeno ‘dal basso’ contro il prepotente.
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Robin Hood è un nobile diseredato in cerca di riscatto; un poveraccio che ha nobili ambizioni; un capopopolo; un lancillotto alla ricerca del Graal? Di quale carica ‘sociale’ è investito? Interessante notare, piuttosto, la demistificazione del ciclo arturiano. In Robin Hood il Graal è la damigiana sempre piena di buon vino, la salvezza è su questa terra, a discapito dei nobili, l’immortalità si raggiunge conquistando il cuore di una flautata fanciulla.
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…piuttosto, è la corsa, la spavalderia, la crudeltà dell’ombra e la gloria della nostalgia: non si vive per questo? L’uomo traccia sentieri nelle oscurità della Storia, sa farsi domestico alle piante (senza addomesticare la terra in città), prende a morsi il giorno fino a fargli sanguinare le cosce.
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A leggere in contromano il mito di Robin Hood potremo dire che abbiamo in odio il potere costituito, che abbiamo nostalgia del nomadismo e della vita nei boschi, che aneliamo l’avventura – a patto che i soldi sottratti ai ricchi ci servano per comprarci la villa al mare. In effetti, si vive per eludere la vita, si vive fagocitati dalla fuga. (d.b.)