Alain Elkann scrive un romanzo su Ezra Pound. Il risultato? Imbarazzante
Libri
Paolo Ferrucci
Lo chiamavano ‘Bubi’ ed è lui, giovanissimo, a esercitarsi sui campi da tennis di Rapallo. Sfidando a duello Ezra Pound. Una bella mostra andata in scena cinque anni fa a Palazzo Ducale in Genova, Il mondo di Giuseppe e Frieda Bacigalupo, ostenta una lettera deliziosa. È il 5 aprile 1928, Rapallo. “Caro Babbo, l’ultima notizia qui è che il ragazzo di 15 anni con cui gioco a tennis è andato a Genova e ha battuto il campione d’Italia in un torneo. Tutti ci sentiamo più giovane di diversi anni. Ezra Pound”. Giuseppe ‘Bubi’ Bacigalupo, tennista di talento, poi medico, fu, insieme alla moglie Frieda, tra gli animatori della Rapallo ‘da bere’, quella frequentata da Hemingway e da Pound, da William B. Yeats a Vasilij Kandinskij. Così, viene da dire, il lavoro di Massimo Bacigalupo, tra i massimi anglisti viventi, figlio di ‘Bubi’, nell’opera di Ezra Pound – Omaggio a Sesto Properzio, Hugh Selwyn Mauberley, ma soprattutto i Canti postumi editi da Mondadori nel 2002 e la formidabile edizione dei XXX Cantos per Guanda, nel 2012 – è una specie di anello, una geologia degli affetti. L’estasi, comunque, per ciò che mi riguarda, accadde nel 1998. L’editore Guanda, nella mitica collana dei ‘Poeti della Fenice’, pubblica un libro assoluto. Un’antologia di poesie ultime di Wallace Stevens, poeta grande – e forse un poco più grande – quanto T. S. Eliot ed Ezra Pound, ma letto male, in questa landa. Il libro s’intitola Il mondo come meditazione. “Sulla soglia del cielo, le figure nella strada/ Divengono figure del cielo, il maestoso moto/ Di uomini che rimpiccioliscono nelle distanze dello spazio,/ Cantando con fievole e sempre più fievole suono/ L’inintelligibile assoluzione della fine…”. I primi versi di Per un vecchio filosofo a Roma. Il traduttore trova il carisma di una lingua naturale e morbida, che smorza le evoluzioni retoriche di Renato Poggioli – a cui tutti siamo eternamente grati. Dopodiché. Chiunque ama la letteratura in lingua inglese inciampa, è inevitabile, nel verbo dolce di Bacigalupo. Il grande anglista, ora professore all’Università di Genova, nasce negli anni Sessanta come regista. Cofondatore della Cooperativa Cinema Indipendente, cineasta dal genio ribelle (“I suoi film sono brevi capolavori di grande sensibilità, di estrema fragilità, invisibili perché relegati ai circuiti underground”, esplicita una nota in Omaggio al cinema di Massimo Bacigalupo) ha, tra le tante cose, girato un bianco e nero, muto, di undici minuti Con Ezra Pound a Venezia (era il 1967) e ripreso alcuni istanti di vita di Sheri Martinelli, musa di tanti ‘modernisti’, di Pound soprattutto. Nella vita da anglista, Bacigalupo ci ha dato, in lingua italiana, tra le tante meraviglie, le opere di Emily Dickinson e di Thomas S. Eliot, di Dylan Thomas, di Seamus Heaney, di Robert Lowell, di Coleridge e Wordsworth. Dialogare con Bacigalupo significa sprofondare nel cuore esatto della poesia del Novecento.
Partiamo da Wallace Stevens. Spesso la sua opera, decisiva, mi pare sia stata ‘oscurata’ da quella di Eliot e Pound. Che ruolo ha Stevens nel grande mutamento della poesia occidentale del Novecento?
Stevens ha proposto un modello di poesia in qualche modo alternativo rispetto al discorso sulla crisi della tradizione di Pound ed Eliot, ispirato ai grandi modelli. Stevens scrive apparentemente partendo da una tabula rasa, non ha riferimenti esterni, colti o no. In fondo Pound ed Eliot volevano sempre essere capiti, esprimere dei giudizi, delle posizioni. Stevens rimane inossidabile, non c’è mai il senso del dejà vu, perché il testo è come uno specchio cangiante non passibile di una lettura univoca, al limite refrattario alla lettura. Una poesia spiegata è una poesia morta, diceva Stevens, che pure rispondeva pazientemente a suoi lettori e traduttori come Renato Poggioli fornendo chiavi e delucidazioni, anch’esse a dire il vero paradossali. Va anche detto che Stevens non è mai prezioso, non ci dà il senso dell’arte per l’arte e per pochi, anche se poi sostenne che la torre d’avorio era alquanto sottovalutata. Insomma è americano, solido per quanto cerebrale. E i temi di fondo sono poi non difficili da scoprire nelle loro perpetue variazioni giocose.
Attraverso le lettere e i materiali privati di Stevens, che ritratto dell’uomo appare?
Un uomo difficile, sorvegliatissimo, sempre protetto da colletto e cravatta. Il suo editore eccellente, Alfred Knopf, passò una volta a salutarlo a Hartford. Ma la conversazione avvenne in giardino. Pare che ai cocktail newyorkesi qualche volta bevesse un bicchiere di troppo, e il giorno dopo scriveva lettere profondendosi in scuse ai padroni di casa per aver raccontato una barzelletta imbarazzante. Ma leggere le lettere di Stevens è stare in compagnia di una bella testa e penna che ha puntate sottili di umorismo yankee.
Passando a Ezra Pound. Sono passati 45 anni dalla sua morte. Non è il caso di tentare una nuova traduzione commentata dei “Cantos”? Lei ha già affrontato i primi “XXX Cantos”. Intende compiere l’opera?
Sarebbe superiore alle mie forze, e va anche detto che i Cantos sono assai più diseguali di Stevens, anche se delle volte pure il grande Wallace parte troppo per la tangente. Con Pound è il contrario, la sua è una personalità contagiosa ed entusiasmante, ma non di rado insopportabile. Sarei disposto a ritradurre i Canti pisani. La pionieristica traduzione di Alfredo Rizzardi spesso “canta” bene ma spesso anche fraintende il testo. Quella di Mary de Rachewiltz inclusa nei Cantos dei ‘Meridiani’ Mondadori ha forse qualche asperità di troppo, ma meriterebbe di essere ristampata in un volume a sé. Se non altro è corretta.
Che rapporti ha avuto Sheri Martinelli nella cultura ‘modernista’ e in quella di Pound in particolare? La figura di Sheri sembra essere affascinante quanto evanescente.
La cara Sheri! Una volta ero negli archivi della Beinecke Library a Yale e mi chiamarono al banco. Era lei, settantenne, e la prima cosa che mi disse era se il mio nome aveva qualcosa a che fare con i baci… Sheri ebbe un ruolo importante quando fu vicina a Pound nei primi anni ’50 e lui, pur detenuto a Washington, la aiutò e incoraggiò, accollandosi spese per uno studio e un processo per droga, nonché per il volumetto di riproduzioni La Martinelli edito da Scheiwiller, controvoglia perché a Scheiwiller le opere di Sheri parevano insignificanti. Sheri aveva un geniaccio ribelle come rivelano le sue lettere (ne scrisse diverse anche a me, inserendo disegni di se stessa come nuda figlia dei fiori). Non so se conosce Fine al tormento, il memoriale di Hilda Doolittle che ho tradotto per Archinto. Lì c’è tutta la storia della relazione con Pound e le lettere affrante di quest’ultimo che spiega a “H.D.” quanto Sheri fosse una mina vagante. Però dobbiamo probabilmente alla salutare follia di Sheri i canti più belli scritti da Pound in ospedale psichiatrico, 90-95 (la seconda parte della sezione Rock-Drill), che sono una sorta di neocanzoniere stilnovista e magico. Sheri era un po’ maga e strega. Su YouTube c’è un video (purtroppo di non buona qualità) che realizzai quando ebbi la fortuna di incontrarla: piccola, nerovestita, con buste di plastica di manoscritti e disegni, ma anche uno spacco nella gonna che rivelava un bel po’ di gambetta. Morì nel suo camper.
Ci sono figure di poeti e scrittori ‘modernisti’, penso a Hart Crane, Wyndham Lewis, Roy Campbell, ma anche Allen Tate e Robert Penn Warren, che non hanno attecchito nel nostro paese dove, in fondo, la grande letteratura del ’900 anglofono è risolta nella trimurti Joyce-Eliot-Pound. Come mai? Ritiene che ci siano autori di quel periodo degni di uno studio più approfondito? Penso che un autore, altrimenti decisivo, come Robert Frost, ad esempio, sia troppo poco letto in Italia.
Tate e Warren non sono molto letti nemmeno in America, e neanche Robert Lowell che pure è la figura più considerevole del secondo Novecento accanto alla Bishop. La poesia è sempre amata per ragioni strane e spesso occasionali, visto che è il lettore che deve metterci la passione. Col romanzo è ovvio che Ulysses ad apertura di pagina si rivela un capolavoro spassoso. Certo Robert Frost è davvero una lacuna. Da anni per questioni di diritti non viene nemmeno ristampata la bella scelta Conoscenza della notte proposta da Giovanni Giudici. Che peccato!
L’amicizia con i poeti italiani la ha aiutata nel lavoro di traduzione?
Mah, credo che il solo poeta a cui ho mostrato una traduzione fu Giudici, per l’Omaggio a Sesto Properzio di Pound. E la sola cosa che mi disse era di usare “gli” anche per il femminile (“la lettera che gli – non le – ho mandata”). E che quel poemetto era assai bello. Del resto fu anche apprezzato da Sanguineti. Credo tutto sommato di essermi fatto un linguaggio poetico per le traduzioni abbastanza a naso, del resto tendo sempre a una certa scrupolosa letterarietà, sicché a volte la traduzione può dispiacere. Spesso ritocco. Giudici e Loi furono se ben ricordo i due poeti che compresero e descrissero l’importanza assoluta del Preludio di Wordworth, da me tradotto 30 anni fa con grande partecipazione. Quando si incontra un capolavoro e lo si sente… che avventura e che regalo.
Che cosa le piacerebbe tradurre e su cosa si concentra ora la sua ricerca?
Tutto sommato Robert Frost mi interesserebbe. Forse senza di lui l’America non si capisce. E ci tocca così in profondo. A volte ho avuto il piacere di insegnare una sua raccolta integrale, North of Boston, ed è stato bellissimo. “Non starò molto. Vieni anche tu”, come traduce Giudici (“I shan’t be gone long. – You come too”). Ricerche? C’è il rapporto fra letteratura e contesto regionale, storico ecc. Il mio libro AngloLiguria. Da Byron a Hemingway (2017) è una raccolta di piccole ricerche sul campo, fisico ma anche stampato: traduzioni, letture, amicizie.