30 Luglio 2020

“Il potere è più forte di ogni volontà di potere”. Tra rinuncia e sottomissione. Discorso intorno a un libro di Carl Schmitt

Tutto parte da una domanda. Che cosa ci posso fare? In termini esatti: qual è il mio potere? Su questo – non sulla rendita, sul denaro, elementi secondari, d’appendice – si fonda la vita. Un potere che va potenziato. Il potere, in forma assoluta, è tale senza che il potente eserciti alcuna volontà – più realisti del re i sudditi agiscono interpretando le ombre del sovrano, senza che egli annunci alcun volere.

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Perché un uomo dovrebbe obbedire al potere e perfino alla sua ombra? Perché nella risposta al potere è la sua vita. La forma preliminare della potenza è esercitare un potere – reale o supposto – di vita e di morte sul prossimo. Ogni religione, in effetti, postula il sacrificio del fedele: esisto per dare la mia vita a Dio, che lui, l’artefice, ne sia il padrone. Chi mi ha fatto può disfarmi; io, che di lui sono fatto, posso tradirlo.

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Come un sistema di forze fisiche, a un potere se ne contrappone un altro – o la sua esplosione. Un cubo di roccia nel lago crea, con evidenza, un’inondazione. Penso alla parola posse, potere, alle posse, al potere alternativo.

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Si crede che il potere riguardi la forza di suggestione o di sopraffazione di un uomo su un altro uomo. Ma che potere esercito su me stesso? “Quando voglio fare il bene, il male mi assale”, dice San Paolo nella Lettera ai Romani. Siamo in una lacerazione: la volontà è nulla. Il potere è una catena che impone iene: eppure, il dissidio mi disintegra.

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Quando Elias Canetti comincia il suo ragionamento sul potere, parla delle mani. E dice due cose. Primo: “Vi è una particolare smania di distruzione delle mani che non mira direttamente a far bottino e ad uccidere”. Le mani esprimono la volontà di afferrare e distruggere – occorre poi valutare se ho la potenza per esercitare davvero ciò che voglio. È vero: le mani curano, accarezzano, cuciono una ferita. Ma se lo fanno è per garanzia di una sottomissione ulteriore – tra carezza e pugno c’è lo spago di una opalescente lucidità. Così conclude Canetti: “Le attività della mano non procurano a tutti il medesimo potere: il loro prestigio varia notevolmente. Sebbene alcune funzioni assai importanti per la vita attiva di un gruppo umano possano essere stimate, il massimo prestigio è pur sempre riservato a ciò che agisce nella direzione dell’uccidere. Ciò che può permettere di uccidere è temuto, ciò che non serve direttamente a uccidere è solo utile. Chi si limita alle attività pazienti della mano ne ricava soltanto sottomissione, mentre gli altri, coloro che si dedicano a uccidere, detengono il potere”.

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La rinuncia ad esercitare un potere lo decuplica. Chi corre per i deserti inseguendo Dio ha il prestigio dell’uomo sacro, di chi non deve usare le mani per colpire: le impone. Intoccabile come il dio di cui è l’emblema vivente, egli non tocca il prossimo – le sue parole sono triplici mani. Nella Bibbia, Dio riscatta, è vero, ma ammazza, e tanto. Un dio potente, però, non è semplicemente un dio che detiene il potere: Roma si piega sotto i sussurri dei cristiani che ammettono una salvezza radicale, temeraria. La Croce risolve l’elemento di tortura in prodigio, il colpo di grazia in atto di grazia. Il cristiano non ha paura della morte, dunque, che potere ho su di lui?

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“Perché gli uomini approvano il potere?”, si domanda Carl Schmitt in una piccola, uncinata opera platonica, Dialogo sul potere (cito dall’edizione de il melangolo, 1990, l’edizione in circolo è Adelphi, 2012, il testo è edito in origine nel 1954). La risposta è ovvia: il potere protegge. “Colui che ha il potere può addurre comunque e sempre ragioni assolutamente efficaci per ottenere l’obbedienza ancorché immorali: può rivendicare la concessione di protezione o di una esistenza assicurata, l’educazione o la solidarietà contro altri”. Il potere impone un rapporto di forze, ma non è mai questione di forza bruta. Gli strateghi, spesso, sono fragili: Gandhi ha tenuto sotto scacco un continente, Cesare, la cui crudeltà era traslucida, era magro, bianco, macerato, epilettico. A volte, uccidere un potente che pare debole fa esplodere un potere inatteso, perfino infinito. Non sempre è forte, potente, chi sopravvive: anche i morti esercitano il potere.

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Schmitt, però, sposta l’asse della questione. Siamo noi a esercitare il potere o siamo esercitati dal potere, siamo, in fondo, nell’esercito degli obbedienti anche quando spadroneggiamo? “Il potere è una grandezza indipendente, anche di fronte al consenso che lo ha creato”, scrive Schmitt, e poi, “Chi conferisce con il potente e lo informa, partecipa già al potere… così ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette… In altre parole: davanti ad ogni stanza del potere diretto si forma una sorta di anticamera di influssi indiretti e di controlli, un ingresso verso l’orecchio del potete, un corridoio verso la sua anima”. Non ci si riferisce qui, soltanto, al sistema istituzionalizzato del potere, per cui di fianco a un potere se ne crea un altro esattamente opposto, con funzioni di controllo. Non è potere occupare una posizione di potere – si è sudditi di una poltrona –, ma esercitare un potere proprio, che prima non esisteva e che dopo non esisterà equivalente. Il labirinto dei sudditi, il groviglio dei funzionari è, a sua volta, una dittatura.

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Riguardo al potere, Schmitt ci fa ragionare su due cose. Intanto, che il potere non ha un’etica: trascende il bene e il male, vive per affinarsi, per essere, ed è famelico. Poi che “non è più l’uomo come uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui. Superando il confine della natura umana essa trascende anche tutte le norme che possono regolare il potere umano e le relazioni tra gli uomini”. L’ultima parola di Schmitt è questa: “Il potere è per tutti, anche per il potente, una realtà a sé stante e lo trascina nella propria dialettica. Il potere è più forte di ogni volontà di potere, più forte di ogni bontà umana e fortunatamente anche di ogni malvagità umana”.

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Una forma obliqua di potere porta all’assassinio casuale – oppure al suicidio, forma di potenza ritorta contro di sé. L’uomo anela a obbedire, foss’anche alla disobbedienza: a volte il potere è nell’eseguire un ordine piuttosto che impartirlo, nel contemplare la pietrificata bellezza delle nuvole, nell’evidenza della nostra impotenza, nell’imporsi un desiderio impari. (d.b.)

*In copertina: François-Léon Benouville, “La furia di Achille”, 1847

 

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