08 Settembre 2023

“Aver conosciuto un uomo così è un privilegio e una catastrofe”. Le poesie del dottor Sonne

Per rigenerarne l’importanza, forse, i grandi libri vanno perduti. Setacciare la propria libreria non serve a nulla: quando un libro sceglie l’abisso è inutile il retaggio delle reti. Forse, una sorta di rabdomanzia potrebbe liberare l’arcano dal suo demone, ma non sono esperto in tali misteri.

Nel 2018 le edizioni Portatori d’acqua hanno pubblicato le Poesie di Avraham Ben Yitzhak. Libro di scandalosa bellezza, avvio verso la voragine. Nella mia pia costellazione – per dire – quel libro sta di fianco alle poesie di Nelly Sachs e a quelle di Scipione; per alchimia di ammirazioni, sta dirimpetto a Ritorno Sopramonte di René Char. Libri insonni, spesso negletti, che si leggono in negativo, quando il buio, per effervescenza, per brillio interno, pare giorno.

È stato Elias Canetti, in uno dei suoi libri più straordinari, Il gioco degli occhi (1985), ad aver creato la leggenda di Avraham Ben Yitzhak, ovvero il “dottor Sonne”. Egli è l’emblema della saggezza e della reticenza, dell’orgoglio dell’umiltà, del ‘giusto’ che per tradizione apocalittica è irriconosciuto, si nutre di irriconoscenti. Qualcosa di sinistro alligna nella bontà del “dottor Sonne”: il candore abbacina, tiene sotto scacco, mette a repentaglio:

“Attraverso Sonne capii per la prima volta che cosa fa l’integrità di una persona: è la capacità di non farsi toccare da nulla, neanche dalle domande, e di disporre di sé senza venir meno ai propri motivi e alla propria storia. Mai una volta mi feci domande sulla sua persona, per me Sonne rimaneva intangibile, anche nei pensieri”.

Sonne è il sole che non ha timore di mostrarsi nero. Personalità sconcertante per apofatismo, è lui l’enigmatico protagonista de Il gioco degli occhi, come specifica l’ala della prima edizione italiana del libro, edita da Adelphi: “[Sonne] parla di tutto fuorché di sé, e ogni volta la sua parola illumina quella singola cosa che cade sotto il suo sguardo. In una città sonnambolica e straparlante, è colui che veglia, come la luce discreta e solitaria dietro una finestra, di notte”.

Il carattere, per così dire, ‘morale’ – ergo: biblico – di Sonne si rivela, ripiegato, nella sua opera:

“Giovanissimo, all’età di quindici anni, sotto il nome di Abraham Ben Yitzchak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l’autore era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun’altra poesia era venuta alla luce. Si pensava che si fosse imposto il divieto di scrivere poesie. Non ne parlava mai, dicevano i miei informatori: anche su questo argomento, come su tanti altri, manteneva un silenzio inviolabile”.

Canetti delinea il profilo di un Kafka all’estremità del polo, di un personaggio borgesiano: per eccesso di perfezione, perfezionato dal pudore, il poeta si impone di non scrivere. Una legge interiore occlude l’istinto; un voto, forse. Una diversa vitalità – vitalba sui vecchi sacrari.

Nato a Przemyśl il 13 settembre del 1883, studi a Berlino, sortite a Copenaghen e a Londra, vita immobile a Vienna, transitando tra l’Istituto pedagogico ebraico che finì per dirigere e i bar in cui figurava da guru, “Sonne” era sionista, spesso malato, vagabondo sulla via negativa della vita. Costantemente senza denar o il genio: sovversione dello sperpero, inabilità di stare ai canoni contrattuali del mondo –, sopravviveva grazie all’aiuto di ricchi amici, che lo forzavano alla scrittura: lui – con la gloria rara di chi perviene subito al frutto, ha già succhiato l’oro di ogni verbo – rifiutò sempre, specie di Bartleby ebreo, di implacabile Giona. Con l’occupazione nazista dell’Austria, riuscì, era il 1938, a rifugiarsi a Gerusalemme.

Per capire il profilo autentico di “Sonne”, tuttavia, oltre che Canetti dobbiamo leggere Lea Goldberg. Poetessa, più giovane – era nata a Königsberg nel 1911 – e più avida di vita di “Sonne”, non riuscì a conquistare il suo sole: ne era tragicamente innamorata. Lo conobbe nel 1938; lei era sbarcata in Palestina tre anni prima. Di “Sonne”, oltre l’aura, il tempio dell’erudito assoluto, la romanzata chiacchiera, capì tutto, subito:

“Non voleva si parlasse di lui pubblicamente. Se il suo nome compariva sulla stampa, il suo volto prendeva un’espressione afflitta e insieme beffarda… Aver conosciuto un uomo così è certo un privilegio, ma anche una catastrofe”.

In un cammeo, Lea Goldberg descrive “Sonne” insieme a Else Lasker-Schüler, la grande poetessa tedesca riparata in Palestina nel ’39: “Entrambi solitari di una solitudine tragica, vivevano in un mondo buio e terribile. Ed io – che ci faccio qui, di fronte a loro, con la mia vita ‘normale’?”. Di Ben Yitzhak scrisse che “si inoltrò in un mondo di silenzio tenace, irriducibile, tragico”. A lui dedicò le prime poesie – ricevendone approvazione. Ne imitò i toni, Lea, variandoli, in un controcanto che non trovò risposta: Avraham restò radice senza sciogliersi in fiume, in voce.

“Beati coloro il cui sorriso sbocciò nella bufera
come luce di stella sulla furia delle onde,
beati coloro che si incontrano in giorni tristi
e la loro letizia splende nell’ombra”.

“Sonne” morì nel 1950, il giorno in cui Lea Goldberg compiva 39 anni. “Da allora ogni cosa, eccetto questo fatto, ha perduto ogni importanza”, scrive. E poi: “…assenza d’ogni fervore intimo. Non c’è vita in una vita così. Mi sono forse inaridita?” (traggo da: Lea Goldberg, Lampo all’alba. Poesie, Giuntina, 2022).

Volevo leggere le poesie di Avraham Ben Yitzhak, una fattura mi obbligava a quel libro, ma la mia libreria, un Leviatano, lo ha inghiottito. Anello che non brilla, amuleto sottratto, ho sarchiato dall’edizione inglese – Collected Poems, Ibis Editions, a cura di Peter Cole – per tradurre qualche poesia del mio amato reticente. Non so se il digiuno sia pratica lirica; non so se ci si sfama bendandosi le mani. Naturalmente, dal bisbiglio di orecchio in orecchio (ebraico-inglese-italiano) molto va perduto, e quanto a me, predico il travisamento come pratica del tradurre. Nello sbaglio – meglio: nella conversione verbale, nel salto – è il vero affronto, la verità del testo, il teschio che parla.

***

Ogni giorno lascia in eredità un sole morente
ogni notte un lamento sulla notte.
L’estate dopo l’estate si rivela autunno
e il mondo il proprio dolore canta.

Domani moriremo, la parola è in esilio.
Saremo al cospetto dei cancelli chiosi
come al giorno del nostro viaggio. Il cuore gioisce
perché Dio si è avvicinato – trema, terrorizzato dal tradimento.

Ogni giorno sorge un sole che arde
la notte sulla notte rovescia le sue stelle
e la poesia si ferma sulle labbra di pochi:
su sette strade partiamo, da una ritorniamo.

*

Beati quelli che seminano senza raccogliere –
vagheranno nell’estremità.

Beati i generosi
la cui gloriosa gioventù ha generato uno stravagante
             chiarore sui giorni –
beati quelli che lasciano ogni risorsa al bivio.

Beati i coraggiosi il cui orgoglio trabocca
            dal greto delle loro anime
per realizzare l’umiltà del candore
sulla scia di un arcobaleno che ascende tra le nubi.

Beati quelli che sanno:
i loro cuori grideranno dalle terre selvagge
                 e il silenzio sboccerà sulle loro labbra.

Beati costoro
perché saranno raccolti nel cuore del mondo
                avvolti nei manti dell’oblio
il loro destino: sfrenata offerta fino all’infinito.

*

Il giorno declina

I fuochi cremisi delle nostre vite svaniscono,
solleviamo le corone della festa dalle nostre fronti
le foglie incolte, i petali caduti:
in silenzio, andiamo verso i fiumi.

Restiamo ai lati mentre il giorno declina,
i nostri occhi seguono il rio della luce –
i perduti e i superbi in una solitudine infinita.

Nella corrente del crepuscolo rubino
vediamo, attoniti, come nascono i fiori
dai bianchi germogli
trascinati con dolcezza sul viso delle acque –
dai confini di un giardino agile di gioia
e di risate, a mezzogiorno.

Sappiamo che la giovinezza è alla deriva
e mentre i ricordi si fanno dolci dentro di noi
l’oscura ombra del salice e della pena ci avvolge.
Ma sopra la valle, in altro, una dopo l’altra, appaiono
le stelle, santificano questa notte vasta e aliena
e il vento della sera ci sfiora, mormora
                come su uno spartito di neri violini.

Avraham Ben Yitzhak

Gruppo MAGOG