Buton è un’isola al fianco di Sulawesi, in Indonesia. Sulawesi si chiamava Celebes: il suo nome, insieme a quello della città più importante, Makasser, realizza una quinta a là Conrad. Umidità equatoriale, foreste, forestieri d’Olanda, colture coloniali. La noia che inibisce ogni altra estasi, specie di Eden soporifero. Commercio furibondo. Da Buton giungono fotografie fatali, diffuse recentemente dal “Corriere della sera” con un titolo sintetico: “La tribù con gli occhi di ghiaccio”. L’articolo diffonde il servizio fotografico di Korchnoi Pasaribu, che ha fotografato uomini e bambini del luogo: carnagione scura, capelli neri e occhi azzurri, inquietanti, sembrano appartenere a una bestia originaria, angelica, che giace sotto la cupola umanoide. Si tratta, leggo, di un cromatismo dato da vigoria genetica, la sindrome di Waardenburg. Le fotografie paiono, in alcuni casi, artefatte: eleganti guerrieri con corona di legni imbracciano l’arco nella foresta. Serpi variopinte appaiono ovunque, ed è come se il simbolo si facesse carne.
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La mitologia del ‘buon selvaggio’ è inutile, qui, svasata in coriandoli: tonnellate di studi antropologici – ho sognato le Trobriand di Malinowski e i Tristi tropici di Lévi-Strauss – ci hanno edotto sull’implacabile distanza tra noi e la vita autentica, tra l’appartamento in città, specie di navicella spaziale colma di comfort, e l’alcova nel bosco. Non sapremmo superare – se non per spirito di avventura, prendendoci, cioè, una vacanza dal solito – una notte nel bosco, perché siamo espulsi da Eden (ogni giardino percorre un percolo), da noi, perfetti automi nella Babele metropolitana. Irrecuperabile il contatto con i primordi, ma anche con l’altro ieri: conosciamo gli abissi del web ignorando i nomi delle piante, sappiamo il nome del ristorante più alla moda del borgo X ma non sapremmo come sgozzare un coniglio e ci fa senso visitare un macello. Niente di che: abitiamo per natura la contraddizione. Eppure – pia utopia – si vive per avvicinarsi a se stessi, cioè alle origini. Così, se guardo Lascaux riconosco qualcosa che mi ha respinto, tempo fa, se leggo i Salmi mi lascio avvincere da un canto incatenato che non mi contempla più, se ammiro il viso di un ragazzo di Buton ravviso una fierezza sferica che mi manca. Egli non è privo, io sono privato.
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Questa percezione – che riguarda l’elevata eleganza del vivere – è descritta dal grande Inoue Yasushi così: “Tempo fa un giornale riportava che in pieno deserto della Siria era stato trovato un ragazzo nudo che viveva insieme a un branco di antilopi. La sua fotografia era di una bellezza indescrivibile. Le linee fredde del profilo sotto i capelli scompigliati, il fascino di quelle gambe slanciate capaci di correre a cinquanta miglia all’ora! Ancora adesso, se ripenso a lui, sento il mio sangue pulsare. A definirlo basterebbero due aggettivi: intelligente, per il viso, e selvaggio, per il corpo. Dopo aver visto quel ragazzo, qualunque uomo mi appare ordinario e terribilmente noioso” (Il fucile da caccia, stampa Adelphi). Certo: ogni ‘primitivismo’ è imbecille, perfino lo scintillio nostalgico è stupido. Siamo ciò che siamo – e vorremmo conoscere la statuaria violenza dell’albero, l’energia del giaguaro, l’accuratezza del falco. Tutto, al mondo, ci pare certo, tranne l’uomo, che tende a funesti al di là (più assolutori che assoluti) e pensa – re Mida a contrario – di corrompere ciò che tocca.
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Nel 1951, per Guanda, Roberto ‘Bobi’ Bazlen – già traduttore di Freud, di Jung, di William Carlos Williams – costruisce uno dei suoi libri più anomali, Poesia dei popoli primitivi. In realtà, il libro si riferisce a un lavoro di Eckart von Sydow, etnologo e storico dell’arte tedesco, pubblicato nel 1923. Inesatto, per altro, è il genere e l’aggettivo. I “popoli” non sono primitivi (“naturali” si legge nel testo introduttivo, come se noi non lo fossimo), se s’intende la definizione con tinta dispregiativa; e la poesia, beh, non è poesia. Piuttosto, è gesto magico – lanciare parole come ossa dipinte per indovinare un destino –, scongiuro, atto liturgico prima che lirico – “Il centro intorno al quale gravita la lirica primitiva, non sta lì dove per abitudine crederemmo di poterlo trovare: nell’espressione completa e perfetta di concezioni e di passioni personali… Gli impulsi più essenziali dei punti culminanti della poesia dei popoli naturali sono la religione, la magia, la tristezza, la guerra. Anche qui si conferma la regola generale secondo la quale il valore artistico è tanto maggiore quanto meno si manifesta un egoismo personale ed arbitrario: i canti di maggior valore artistico sono i lamenti funebri”. La scelta che ha spinto l’etologo tedesco a raggruppare le ‘poesie’ è meramente estetica: questo rende la raccolta (ormai scomparsa dal consesso editoriale) affascinante da leggere, benché si tratti di parole ‘da agire’. “L’ovvio desiderio di rendere la loro forma quanto mai vicina all’originale, non può essere soddisfatto finché non appariranno poeti che, come Rainer Maria Rilke, siano all’altezza di questo lavoro tanto dal punto di vista formale che da quello del contenuto”. È curioso avvicinare questi canti al lavoro di Rilke, poeta tutt’altro che selvaggio. Eppure, la grande poesia, ovunque, sprofonda nei dati primi, nelle questioni cardinali: non fa che tentare il ritmo che ritardi la morte, che smuova i pilastri del tempo, che riduca il fato al dito indice.
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Il libro, pubblicato con banda che promuove “Per la prima volta in Italia la voce poetica dei popoli al margine della storia”, è artatamente suddiviso in sezioni (“Religione e magia”; “Amore e vita familiare”; “Ninne-nanne”; “Canzoni di animali”; “Paesaggi”…), si censiscono inni dei Pigmei e degli Algonchini, canti provenienti dalla Nuova Zelanda, dall’Altai, dalla Polinesia. Spesso siamo inibiti a entrare in quel mondo di divinità remote: non sappiamo più vedere un serpente nel fulmine né il neonato nel fiume, non crediamo che un mare possa dilatarsi né che una litania possa curare; semplicemente, non sappiamo riconoscere i segni (che non riguardano la nostra misera fattura sentimentale, ma il nostro ruolo nel tempo, al cospetto degli alti). Molti anni fa, mi feci donare da quell’uomo multiforme, Girolamo Melis, gli studi della Société d’études linguistiques et anthropologiques de France Selaf pubblicati nel 1979: avevano raccolto e tradotto i canti sacri dei Senufo della Costa d’Avorio, specie di salterio notturno, sciamanico. Mi emozionò non capire nulla. Qualche anno dopo, nel 1984, “In Forma di Parole” dedicò un numero monografico al Poema dinastico Rwanda: alcuni concetti (“Memorizzare la storia dei re è questione di vita o di morte per il paese… Nella filosofia rwandese la storia è ciclica: bisogna dunque rispettare scrupolosamente il ritorno continuo del medesimo, bisogna evitare di rifare i gesti che, in passato, hanno portato disgrazia, di ricominciare i gesti abortiti o di riutilizzare i nomi che possono richiamare una catastrofe”), che trovo anche nelle partecipi e particolari storie dei re della Bibbia – e poi in Erodoto, in Tacito, ovunque ci sia una ‘forza’ che conduce al naufragio o alla grandezza imperi e città –, continuano ad affascinarmi. Che scoperta – che stupido –: credo che basti intonare una poesia per farmi amico delle stelle, mestatore di galassie, e che un nome, rinnovato, mi permetta una sintonia con i lupi e le pantere, secondo il genio di Mowgli. (d.b.)
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Pigmei dell’Africa equatoriale
La luce si fa scura,
La notte ancora più notte.
Dio è adirato con noi.
I vecchi se ne sono andati.
Hanno le ossa lontano.
Le loro anime vagano.
Dove sono le loro anime?
Il vento che passa
Forse lo sa.
Le loro ossa sono lontane.
Le loro anime vagano.
Sono molto lontane?
Sono molto vicine?
Vogliono il sangue dei sacrificati?
Sono lontane?
Sono vicine?
Il vento che passa,
Lo spirito fa turbinare la foglia,
Forse lo sanno.
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Canto apocalittico degli Sciamani siberiani
Allora la terra nera si incendia,
Le schiere del popolo muoiono,
Insanguinate sono le onde dei fiumi,
I monti girano in turbine.
Crollano le rocce con fragore
Tremando vacilla l’arco del cielo
Si ergono i flutti del mare
E compare il fondo.
Ora sul fondo del mare si spaccano
Nove grandi pietre nere
E da ognuna di queste pietre
Si alza un eroe di ferro.
I potenti eroi di ferro
Cavalcano nove cavalli di ferro
E presso le loro zampe, di dietro,
Scintillano nove lance di ferro.
Se correndo incontrano alberi
Cadono a terra gli alberi
Se incontrano esseri viventi
Anche loro cadono, distrutti.
Kairan Kan, il Dio, il Padre
Lui, il Creatore del mondo,
Allora si tura le orecchie
Non ascolta l’urlo del popolo.
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Canto d’amore. Bagirmi, Sudan, Africa
Gli occhi mi sono orlata di nero antimonio.
Una cintura con amuleti mi sono messa intorno alla vita.
Voglio placare la mia brama d’amore.
O mio snello ragazzo!
Vado dietro alle mura
Col mantello ho coperto i seni
Bella creta impasterò
La casa del mio amico imbiancherò
O mio snello ragazzo!
Prenderò la mia moneta d’argento
Comprerò seta
Con i miei amuleti mi adornerò
Per placare la brama d’amore.
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Canto di un morto sognato da un Eschimese
Gioia mi riempie
Quando appare il primo chiarore del giorno
E il grande sole scivola tranquillo nel cielo.
Di solito giaccio pieno di paura, angosciato
Come mi spaventa il laborioso brulicare dei vermi!
Mangiando s’insinuano nel cavo della clavicola
E mi consumano gli occhi.
Pieno d’angoscia giaccio qui e ricordo.
Dimmi, era proprio così bello sulla terra?
Ricordi l’inverno
Quando le preoccupazioni ci divoravano
Per la suola delle scarpe, per la pelle degli stivali
Era proprio tanto bello?
Pieno d’angoscia giaccio qui e di paura.
Non sono forse stato sempre in ristrettezze,
Quando mi trovavo sul ghiaccio del mare
E arrivavo alla pazzia
Perché nessun salmone voleva abboccare?
Da: “Poesia dei popoli primitivi. Lirica religiosa magica e profana”, Guanda 1951; scelta di Eckart v. Sydow, cura di Roberto Bazlen
*In copertina: fotografia di Edward S. Curtis, “Apache Scout”, 1900