In una biblioteca, trovo per caso un esile libro in francese – Roses et vase nocturne – di un autore cinese il cui nome mi è famigliare, contenente delle poesie e un discorso tenuto al College de France nel 1981, “Delirio cosciente” (più sotto in traduzione).
Nato nel 1902 a Shaoxing (Zhejiang) e cresciuto fra Hangzhou e Shanghai, Lo Ta-kang (Luo Dagang) si laureò all’Università franco-cinese di Pechino sull’opera del simbolista Albert Samain (nella cui stessa vita scorgeva un’opera bella e commovente); vinse una borsa per continuare gli studi in Europa, dove visse per una quindicina d’anni (dal 1933 al 1947), prima a Lione e a Parigi dove conseguì il dottorato sulla poesia di Bai Juyi (Université de Paris, La double inspiration du poéte Po Kiu-yi, (772-846),1939: disponibile qui), poi a Ginevra durante la guerra.
Qui, lavorando all’ambasciata cinese, nel 1942, per una casa editrice svizzera diede alle stampe la traduzione delle Cent quatrains des T’ang (tradotte in italiano per Hoepli nel ’49, a cura di Giuseppe Zoppi, con il titolo Poesie cinesi dell’epoca dei T’ang), tra “ciò che il genio cinese ha creato di più sublime (e più accessibile)” (Simon Leys): “è evidente che tutta la poesia moderna che conta, e che si piega verso purezze, ahimè spesso contraddittorie, se non incompatibili, risuona in armonia con le quartine dei Tang” (Stanislas Fumet).
Sia in Cina che in Europa Lo è conosciuto per essere stato un ponte fra le due culture, come studioso di letteratura francese e traduttore: in cinese tradusse le opere e pubblicò studi su fra gli altri, Aragon, Paul Éluard, Montesquieu (le Lettere persiane, 1958), Balzac, Romain Rolland, Françoise Sagan, Marcel Arland, Paul Lafargue. In francese, oltre alle Quartine pubblicò negli stessi anni (sempre per le svizzere Éditions de la Baconnière) la traduzione di alcune leggende e romanzi di epoca Tang, Le Miroir Antique (Gu Jing Ji) e una introduzione a sette poeti classici cinesi, intitolato curiosamente Homme d’abord, poète ensuite.
In quegli “anni poveri e studiosi” in Francia diceva di aver accumulato “un tale tesoro per lo spirito che tutta la mia vita non sarebbe sufficiente per metterlo pienamente a profitto”. Presa tuttavia la decisione di tornare in patria, insieme alla moglie Qi Xiang (figlia di Qi Rushan, “drammaturgo e studioso che ha ravvivato l’interesse per il dramma tradizionale cinese nella Cina del XX secolo e in Occidente”) e il figlio, da intellettuale si trovò presto coinvolto nelle tragedie politiche del suo tempo. Diventato professore,
“entrato nel 1951 nella Lega Democratica (membro non comunista), sarà eletto membro della terza assemblea popolare nazionale nel 1964 [poi del Comitato Nazionale della CPCPC negli anni ’80]. […] Tra il 1967 e il 1970, sarà esiliato nel sud della provincia dello Henan, regione rurale e torrida delimitata dal fiume Giallo. […] sarà costretto a lavorare la terra, a dormire in un sacco, a portare delle pietre, con il divieto di pubblicare.”
Pierre Seghers
Negli anni della Rivoluzione Culturale (1966-1976), tra “riforma del pensiero”, persecuzioni e confische di libri e proprietà, Luo tornava a trarre forza dalla memoria dei poeti classici a cui aveva dedicato la prima parte della sua vita, come dallo scrivere in francese:
“Nel più buio della lunga notte, la poesia lo ha salvato. […] All’estremo degli estremi, nella peggiore delle situazioni, [la sua poesia] si esprimeva in un’altra lingua: in francese. La nostra lingua divenne per Lo Ta-kang la lingua della sua anima”.
(sempre Seghers; vedi anche la biografia di Yang Zhe e Song Min, Luo Dagang zhuan, 2000)
Lo non amava essere chiamato poeta – la sua prima e unica raccolta poetica in cinese, Liuto senza corde (Wu Xian Qin), coprendo l’intero arco della sua produzione sin dalle prime degli anni venti, risale al 1985 (aveva 76 anni):
“Scrive poesie nel tempo libero. Ha pubblicato poesie sotto diversi pseudonimi poco conosciuti, e non si considera un poeta”.
(dal risvolto)
Il suo ideale di poesia sembra essere rappresentato dall’immagine stessa del Liuto senza corde, risalente a Tao Yuanming (o Tao Qian, 365–427), simbolo di un principio estetico della tradizione artistica cinese.
Già in Homme d’abord, poet ensuite (1948) Lo diceva di Tao Yuanming che “[v]olle esprimere la sua ‘poesia’ con l’azione, piuttosto che con delle parole. Poeta, rifiutava ancora di apparire poeta. La mano che scrive dei versi è la mano che suona il ‘liuto senza corde’. E si sa che questo ‘liuto’ non è affatto lo strumento volgare che hanno i musicisti. È un liuto simbolico il cui canto è il silenzio. […] [mantenne] durante tutta la sua vita un temperamento vigoroso e la giovinezza del cuore, in una parola quella ‘gioia’ che fece dire al Tao adolescente: il mio cuore è gonfio di una allegria senza nome”.
“Ma ha l’uomo moderno la coscienza tranquilla? La verità pratica dice: sì; la verità poetica dice: no”. Testimone del “nostro drammatico secolo” (morirà nel 1998) , nel testo che lesse al Collège de France sosteneva che “non vale molto la poesia che non tocca il tragico della condizione umana” – sentendo nella letteratura moderna l’ombra dell’angosciante domanda: “animale umano, sei veramente felice? In che cosa sei diverso dalla bestia vorace?”, concludeva con il monito: “Di tutti i monopoli, il monopolio della verità mi sembra il più insensato e il più nocivo al mondo degli uomini.” Eppure, tragicamente scriveva, “non sta a noi, umili amatori della poesia pura, di mostrarci capaci di cambiare il corso delle cose”…
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Da Cent quatrains des T’ang:
Li He (790-816), “Al giardino del Sud”
Ricercare lo stile, rifinire le frasi, non ho fatto che incidere vermi!
La luna all’alba davanti alla tenda pende come un arco di giada.
Non vedi che, di anno in anno, sul vasto mare
La letteratura piange la sua sorte nel vento d’autunno?
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Da Roses et vase nocturne
IL DELIRIO COSCIENTE
Riflessioni sul destino della poesia
(Testo del discorso pronunciato al Collège de France nel novembre 1981)
Il mondo è in delirio. Nessun uomo che guardi se stesso allo specchio, può evitare di avere il volto piegato da una simile grinza di disgusto e amarezza. E tuttavia, sotto certi regimi totalitari, degli uomini prudenti continuano a dare un’importanza primordiale al realismo dell’arte, inteso ancora nel senso del XIX secolo, come se il realismo non avesse finito per rivelarsi come uno dei mille modi di travestire la realtà. D’altra parte, bisogna rimanere onesti anche nel declamare dei sentimentalismi o delle enormità. Ecco, a mio avviso, la tragedia della poesia moderna. Verrà ad ogni modo il tempo in cui ci si metterà d’accordo per affermare che il delirio, il delirio voluto, il delirio cosciente, forse è stato talvolta la più alta espressione del reale, diciamolo francamente, della realtà sociale. Ma non sta a noi, umili amatori della poesia pura, di mostrarci capaci di cambiare il corso delle cose.
La grande invenzione poetica del nostro secolo, mi sembra essere il simulacro del subconscio, dacché il subconscio, a dire il vero, scappa ad ogni espressione verbale, come ogni espressione del subconscio attraverso la parola è inevitabilmente più o meno caricaturale. Ciò non dovrebbe stupire, essendo da sempre il proprio dell’arte il simulacro di qualcosa, cioè l’imitazione volontariamente modificata di una realtà oggettiva. Quel che chiamiamo volgarmente abbellire o idealizzare le cose. Ma la concezione del bello ha subito dei grandi cambiamenti a partire da Baudelaire, per il quale il bello è innanzitutto “il mio cuore messo a nudo”. Prova che l’onestà estetica è superiore all’onestà morale. Che lo vogliate o meno, l’arte supera la morale.
Dall’avvento del surrealismo negli anni Venti del nostro secolo, una lotta è cominciata tra la verità scientifica e quella poetica. Quest’ultima si sforza di conquistare il suo posto al sole, perché venga riconosciuta la necessità incontestabile della verità poetica nella vita quotidiana. Tutti possiamo vedere che cosa succede se non si ammette come verità che la sola verità scientifica. L’angoscia propria dell’uomo moderno viene prima di tutto dal monopolio della verità che si dà alla scienza detta esatta. La lotta cominciata dal surrealismo è lontana dall’avere avuto la vittoria finale sulla verità scientifica. Nell’antichità, l’umanità dispersa nei quattro angoli della terra visse principalmente della verità sacra, di qualsiasi forma fosse. Si comprende ora che questa verità sacra o verità divina, fu nient’altro che la forma primitiva della verità poetica. I nostri poeti moderni hanno senza dubbio tentato inconsciamente di reintegrare nella vita del XX secolo la verità sacra dell’antichità più remota. Ed è per questo che molti tra di loro sono ricaduti in un misticismo di nebbie.
Passeggiando nella foresta della poesia moderna, si hanno qualche volta dei piccoli brividi sulla schiena, perché non mancano dei segnali che danno il presentimento di un ritorno al medioevo, un medioevo ancora più medioevale che quello dei nostri antenati del IX secolo. In un modo o nell’altro, la poesia riflette la realtà sociale. Essa è il fatale prodotto della vita sociale. Anche la poesia più ermetica ha la funzione di fare da specchio della vita reale. Non ho l’intenzione assurda adesso di ricordarvi le successive guerre e rivoluzioni del nostro grandioso secolo. Vorrei semplicemente specificare che il simulacro del subconscio dell’arte poetica e plastica moderne è il frutto fatale di questo secolo minacciato continuamente da un ritorno all’età medievale. La poesia moderna annuncia un ritorno a un medioevo senza dio, ancora più terribile del medioevo soggiogato dal potere divino. Siamo nell’anticamera di un nuovo medioevo, che il testo sacro della poesia moderna ci fa pregustare.
Non sono né ottimista né pessimista sulle sorti della poesia, come del resto sulla sorte dell’umanità. Dacché la sorte dell’una è fatalmente legata all’altra. La poesia moderna è una poesia volontariamente insensibile, essa stessa non è né ottimista né pessimista. La poesia moderna è una poesia oggettiva, il poeta stesso si considera come una cosa e non come un essere umano. La poesia moderna è una foresta che sta per ridiventare vergine, dopo aver subito tanta violenza da parte della civiltà capitalista del XIX e del XX secolo. L’umanità si smarrisce in una foresta oscura, foresta dantesca, dove si sente un canto liturgico, un incantamento fastidiosamente monotono e inintelligibile: la poesia moderna. Ma il ritmo dell’universo vuole che ogni cosa abbia una fine. Bisogna credere che l’umanità arriverà ad attraversare la foresta infernale per finire su una piana soleggiata. Allora la poesia cambierà di tono, perché la sorte della poesia e strettamente legata alla sorte dell’uomo.
La poesia in Cina è stata per secoli una poesia di “rime baciate”, dei piccoli e grandi discorsi rimati, come l’Arte poetica di Boileau. Questo trattato didattico sull’arte di fabbricare poemi è stato considerato a suo tempo come un grande poema esso stesso, un poema modello. In Cina, abbiamo dei piccoli trattati di scienza medica, o delle ricette mediche rimate con eleganza e distinzione secondo la metrica classica. Trattati e ricette vecchi di qualche decina di secoli. E non li si è mai considerati come della vera poesia. Oggi il verso libero conta non pochi amatori in Cina, un gran numero di poesie pubblicate non sono in realtà che dei discorsi più o meno lunghi che non hanno alcuna rima. Non voglio dire che preferisco i discorsi rimati ai discorsi senza rime. Preferisco la vera poesia alla poesia che non ne ha che l’apparenza. È inevitabile che si troveranno in Cina, delle poesie gioiosamente rimate che, in fondo, non contengono più poesia delle ricette rimate.
Mi scuserete per questa lunga deviazione per dimostrarvi che il simulacro del subconscio vale, poeticamente, cento volte i grandi e piccoli discorsi rimati o meno che siano. “L’arte non fa che dei versi, il cuore solo è poeta”, è una verità che vale in tutti tempi e in tutti i paesi. Per me la vera poesia deve essere la poesia del cuore. Non sono così pretenzioso dal voler dare una definizione della cosa poetica. Ma che mi sia permesso ciononostante di ammettere che la sola poesia che credo sia veramente poetica dev’essere un grido che sale dal profondo del cuore, è la vibrazione di una corda segreta nascosta nel piu profondo del nostro essere, è, in una parola, la vibrazione dell’anima. È forse la poesia del XX secolo, la poesia surrealista per esempio, una vibrazione dell’anima? No, non sempre. A volte, sì, ma alla lunga non lo è. Comunque sia, il simulacro del subconscio si avvera molto più nei pressi della vibrazione dell’anima che nei discorsi rimati.
Emettere un grido che esteriorizzi le emozioni del cuore, non è affatto qualcosa che rilassa. Spesso capita di sentire che in una poesia famosa non ci sia che un verso che viene dal cuore del poeta, tutto il resto essendo più o meno un contorno (remplissage). Contorno di grande talento, certo, ma pur sempre contorno. Il verso che tocca il cuore del lettore ha senza dubbio toccato a sua volta il cuore del suo autore. Tale verso è una grazia accordata al poeta dal cielo. Il poeta permette di approcciarsi a un cuore grande, un cuore sincero, un cuore magnanimo, un cuore umile e modesto. Può essere che fra qualche dozzina di migliaia di versi lasciati alla posterità da un grande poeta non ve ne siano che una manciata di toccanti. Al contrario, un poeta minore che non lascia in eredità che un centinaio di versi, lascia forse un numero maggiore di versi toccanti, commoventi, strazianti di un grande poeta che appesantisca il mondo con la montagna della sua produzione poetica. Più si pretende di avere del genio, più si scrivono versi che suonano falsi. Un bel verso non deve per forza essere un verso sincero e profondo.
Si incontrano a volte nei poeti del subconscio dei poeti sinceri, onesti con se stessi, modesti davanti agli altri. Nella linea dei surrealisti, amo i poeti come Paul Eluard e Jules Supervielle che si applicano, durante tutta la loro vita, a trovare un verso che sia l’eco fedele del loro cuore. La poesia di questi poeti mi commuove per la semplicità dello stile e la sincerità di tono. Sono già al di là di questo gioco del simulacro del subconscio che finisce per essere troppo facile. Ma il simulacro del subconscio è stato una tappa indispensabile dell’evoluzione della poesia del XX secolo. Non si può negare il merito del simulacro del subconscio, tanto che lo si dovrebbe scrivere in lettere d’oro nella storia dell’evoluzione della poesia lirica. Una parte della poesia recente ha superato questo stadio, ma gli dobbiamo quel che siamo. Esso ci ha liberato dalla predominanza del discorso rimato, per permetterci di accedere a uno stato ben piu prossimo all’essenza della poesia, del grido appassionato dell’anima. Un grido di fuoco, la passione bruciante nella quale l’anima del poeta si consuma. Così deve essere la poesia degna di questo nome. Un grido di rivolta, tale deve essere la vera poesia del nostro secolo.
Non si può definire il senso della poesia, perché diverse condizioni umane fanno nascere diverse concezioni della poesia. C’è dappertutto una poesia di piccoli redditieri molto soddisfatti tanto del sentimentalismo sdolcinato che dello snobismo gratuito. C’è la poesia di fuoco, di sangue e di lacrime, come la poesia di Villon, di Baudelaire, di Rimbaud e di Li He (790 – 816), questo sconosciuto Rimbaud cinese. Sono poeti (e non sono i soli) che hanno sofferto per l’umanità intera. Le loro grida di dolore, d’angoscia e di rivolta, sono le grida di tutta l’umanità in preda a “brividi neri”, come canta Hugo nella sua “Coscienza” [poesia di Victor Hugo, ndr]. Non vale molto la poesia che non tocca il tragico della condizione umana. Ogni vera poesia si pone immancabilmente questa domanda fondamentale: “In che cosa l’uomo si distingue dalla bestia sordida?” Per i tempi che corrono, l’artista, il pensatore, non osano più porsi una tale domanda. Là, comincia la degradazione della cultura umana. Sarebbe più onesto e franco ammettere che l’uomo è un animale superiore perché è più perfido di tutti gli altri animali. Nella remota antichità, la religione si incaricava di rispondere a suo modo a questa domanda fondamentale, a questa domanda tragica. Ma l’uomo moderno evita di avventurarsi su un simile terreno pericoloso. Finge lo stupore e domanda a sua volta: perché l’uomo deve essere diverso dalle bestie in generale? Una pretesa ridicola. L’uomo è un animale come tutti gli altri, soltanto si sa procurare i mezzi materiali per poter gioire della vita molto più voluttuosamente che gli altri animali. Per l’uomo moderno, l’uomo è un animale favorito dalla sorte, equipaggiato in modo superiore per gioire del presente, gioire della vita materiale, fosse anche al costo di privarne i suoi simili. Ma ha l’uomo moderno la coscienza tranquilla? La verità pratica dice: sì; la verità poetica dice: no. La logica del giorno dice: sì; la logica della notte dice: no.
Ho sempre sentito l’ombra di questa domanda dominare dolorosamente nella letteratura contemporanea: animale umano, sei veramente felice? In che cosa sei diverso dalla bestia vorace? Ho letto le opere di teatro dell’Assurdo (non ho avuto l’occasione di vederle in scena). Mi sono detto: ecco la logica della notte sbattuta in faccia alla logica del giorno. Il delirio cosciente che è il senso profondo dell’arte astratta, della poesia del subconscio e del teatro dell’Assurdo, ci rivela il volto nudo e tragico del nulla della vita moderna. La verità poetica non è morta, la verità poetica si rivolta.
La verità pratica e la verità poetica mi paiono due tendenze opposte di una sola realtà. Il dramma della vita moderna è la conseguenza del disequilibro tra queste verità contraddittorie. L’uomo moderno crede di vedere la verità pratica vincere su ogni punto: ad essa l’arte e la poesia moderne oppongono un no categorico. Dacché ho l’impressione che ci sia, indipendente dalla verità logica, una verità poetica che gioca un ruolo altrettanto importante nella vita umana che quello che vi gioca la verità logica.
Il guaio è che ci sono nel mondo degli uomini che non riconoscono che una verità, la loro, la verità che essi dettano. Di tutti i monopoli, il monopolio della verità mi sembra il più insensato e il più nocivo al mondo degli uomini. Il monopolio della verità è l’indice più inquietante e più grave del ritorno al medioevo. Già l’arte e la poesia si allarmano e reagiscono contro i tentativi apparenti di far tornare il mondo a un medioevo più sventurato che il medioevo conosciuto nella storia.
Ripeto che mi guardo dal dare una definizione alla poesia. L’amore per le definizioni arbitrarie e dogmatiche non è una tendenza abituale dello spirito cinese. Capisco perfettamente che per alcuni la poesia deve essere un ricamo di parole su un pezzo di seta bianco immacolato. Per molte persone coltivate la poesia è un’evasione, cioè un divertimento. Ma io concepisco la cosa in modo completamente diverso. “Considero la poesia o di valore nullo, o d’importanza infinita” ha detto Paul Valéry. Credo che la poesia sia di valore nullo per la logica pratica, ma d’importanza infinita per la logica del cuore.
Soprattutto per il nostro drammatico secolo, l’esistenza di una verità poetica [si impone] per controbilanciare il monopolio della verità pratica che condurrà il mondo in una notte senza fine, se non al suo annientamento totale.
Siamo per la poesia e contro ogni monopolio sinonimo di tirannia.
Formiamoci dunque un cuore di poeta per essere più degni del nome di uomo.
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Rose in vaso da notte (o la gioia di vivere)
Dentro un vaso da notte scheggiato dall’uso, una mano di donna coltiva un roseto in fiore.
Che importa la miseria più nera, che importa del contenitore, purché la vita sia sempre in fiore!
Questo spettacolo ingenuo è di una grandezza tale ai miei occhi da toccarmi come la rivelazione di una grazia suprema.
Disperato per l’Uomo? Ma sono stato troppo meschino. È il cuore dei più umili che mi insegnerà la nobiltà.
Un giorno, ero una formica tra innumerevoli altre formiche brulicanti in un campo disseminato di macerie, immondizia, di scarti di ogni sorta…
La guerra vi era passata? O un terremoto? Sembrerebbe proprio. Tanto abbiamo visto, che subito abbiamo finito per abituarci.
Formica, mi arrampico con le altre formiche sui mucchi di rovine, immondizie, brandelli di una vita devastata.
Inciampo, cado, faccio deviazioni inutili, perdo il mio cammino e mi trovo finalmente davanti ad una baracca squallida come una topaia.
Nel mezzo di tanta desolazione, una simile baracca ha le sembianze di un palazzo.
Davanti all’entrata del tugurio su un mucchio di macerie, un roseto espone i suoi magnifici fiori in un vaso di umili origini.
Questo spettacolo inatteso attira tutta la mia attenzione, non ho nemmeno notato l’arrivo di una giovane donna poveramente vestita.
Porta un secchio d’acqua e comincia ad aspergere le rose strizzando un panno bagnato, a mo’ d’annaffiatoio.
È la padrona di casa, senza dubbio. Si vede che è fiera del suo tugurio ornato di rose splendenti.
Quanto al discutibile recipiente sul mucchio di macerie, è promosso a culla delle più belle rose del mondo, una sorta di vaso di offerte degno di dei.
Dedico la mia poesia, se questa lo è, alla Signora che sta ora davanti alla porta della sua capanna,
Fiera e maestosa come una principessa che attende davanti al suo palazzo le acclamazioni del popolo che l’adora.
Sì, la adoro.
Agosto, 1976
*La cura e la traduzione dei testi sono di Andrea Corsi
*In copertina: Xu Beihong, Aquila in picchiata, 1939