06 Agosto 2022

Esistono ancora i poeti cristiani? Discorso su poesia e Cristianesimo

La maggior parte dei cristiani fraintende il rapporto tra poesia e fede. I fedeli considerano la poesia un aspetto ammirevole ma residuo della pratica religiosa: elegante decorazione verbale in onore del divino. Riconoscono il ruolo della poesia nel culto. Le congregazioni hanno bisogno di inni; si recitano i Salmi. Tuttavia, la maggior parte dei fedeli ha un senso più pratico, frugale, moralmente urgente della propria fede. Chi ha tempo per la poesia quando ci sono molte cose più importanti da fare? L’arte è un lusso, forse una distrazione, di certo non una necessità. Eppure, il cristianesimo può essere molte cose ma non è prosaico.

La poesia non è semplicemente importante per il cristianesimo: è un aspetto essenziale, inestricabile della fede e della pratica religiosa. Che la maggior parte dei cristiani ritenga assurda questa affermazione non la invalida; il loro fastidio dimostra, piuttosto, quanto la Chiesa contemporanea sia lontana dalle proprie origini. A rischio di offendere diversi credenti, va ribadita una verità: è impossibile comprendere la gloria del cristianesimo se non se ne comprende la poesia. Perché credere a questa affermazione? Intanto perché la Bibbia, che fonda il cristianesimo, è scritta per un terzo in versi. La poesia sacra non si limita ai Salmi, al Cantico dei Cantici, alle Lamentazioni. I libri profetici sono redatti per lo più in versi. I libri sapienziali – Proverbi, Ecclesiaste, Giobbe – sono libri poetici. Diverse poesie scandiscono i cinque rotoli di Mosè e quelli successivi.

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La Chiesa delle origini ha compreso la necessità di incorporare la poesia nel culto. Il testo della Messa era intessuto da citazioni dalla poesia sacra ebraica, in particolare dai Salmi. Nel Medioevo, la Chiesa ha stabilito che le grandi festività fossero sancite da celebrazioni speciali. Le vaste sequenze latine – lunghe poesie recitate o cantate una volta all’anno – servivano affinché la comunità contemplasse i misteri della fede. Queste sequenze sono tra le più belle poesie del Medioevo e del Rinascimento: Veni, Sancte Spiritus, Lauda Sion, Dies Irae. Lo Stabat Mater raffigura Maria testimone della Crocefissione. Questo ed altri testi sono stati musicati da diversi compositori.

Quando il Concilio Vaticano II ha eliminato queste sequenze dal messale cattolico, ha dimostrato quanto la Chiesa fosse ormai lontana dalle proprie tradizioni. La nuova Chiesa mirava a coinvolgere il mondo sbarazzandosi delle tradizioni ammuffite del passato. Il Vaticano II voleva mostrarsi pratico, positivo, moderno; doveva “aggiornarsi”. Le sequenze poetiche, che sembravano splendide ai tempi della vecchia Chiesa – estasianti veicoli artistici per la contemplazione dei misteri divini – parevano ormai stantie, troppo devote, elaborate e complesse per il culto moderno.

La visione del Vaticano II – la nozione per cui il futuro può essere creato liberandosi del passato – prevale in diverse chiese cristiane. Assomiglia alle moderne teorie architettoniche del Bauhaus, che spogliavano gli edifici da ogni decorazione, riducendoli a rettangoli esatti, fatti di vetro, pietra, acciaio. “La forma è conseguente alla funzione”, hanno dichiarato gli architetti del Bauhaus. I loro monumenti geometrici punteggiano i quartieri d’affari delle città metropolitane: enormi, anonimi, disumani.

Vescovi e cardinali sono cattivi profeti del futuro. L’aggiornamento della Chiesa cattolica ha previsto di abolire certi requisiti come il digiuno e l’astinenza dalla carne il venerdì. Ironica richiesta di approvazione popolare da parte di una società che si rivolge alla dieta e al vegetarianismo. Allo stesso modo, la Chiesa era imbarazzata dalla terribile visione del Dies Irae. Nessuno vuole più sentir parlare del Giorno del Giudizio e dell’Apocalisse: diamo messaggi positivi. Nel frattempo, la cultura popolare è diventata famelica di visioni apocalittiche del futuro, ne è ossessionata. Migliaia di film, videogiochi, serie televisive, graphic novel e canzoni non fanno che rappresentare la fine dei tempi.

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Già, ma cos’è la poesia cristiana? Nessun critico sembra saper sciogliere l’enigma. Se raccogliessimo una dozzina di antologie di poesie “cristiane”, ciascuna ci darebbe una definizione completamente diversa dall’altra. La confusione nasce da intellettuali indottrinati che si focalizzano sul rapporto tra religione e letteratura.

Nessuno dubita che la letteratura sacra si qualifichi come poesia cristiana. I versetti che si trovano nella Scrittura costituiscono il fondamento della letteratura cristiana. Nessuno mette in dubbio che i versi devozionali siano poesia: inni, preghiere, meditazioni. La lunga tradizione della poesia devozionale ha attratto alcuni tra i più grandi poeti in lingua inglese, John Donne, George Herbert, Gerard Manley Hopkins. I problemi nascono quando la poesia non è esplicitamente religiosa nel soggetto e nello stile. Secondo alcuni studiosi, è poesia cristiana quella che sorge da una cultura prevalentemente cristiana. In questo senso, praticamente tutta la poesia inglese scritta prima del Settecento è cristiana. Anche l’ateo Christopher Marlowe poteva dirsi tale perché si muoveva in un contesto cristiano: The Tragical History of Doctor Faustus è blasfema ma teologicamente ortodossa.

Fatto è che non viviamo più nel XVII secolo: la società occidentale è sostanzialmente non cristiana, dunque occorre guardare alle qualità intrinseche di ogni opera e di ogni autore. Questa situazione ci lascia a tre possibili criteri. Il primo è basato sull’identità: la poesia cristiana è scritta da cristiani professi. Gli scrittori cristiani, sostiene questa tesi, apertamente o implicitamente ostentano nella propria opera la loro visione religiosa. Eppure: la poesia non dovrebbe essere più importante del suo autore?

Una seconda tesi si concentra sul contenuto religioso della poesia. Poesia cristiana è quella che esprime un dogma pertinente alla dottrina della Chiesa. Il tono potrà essere riverente o ribelle, ma entro i temi distintivi della Chiesa cristiana: Incarnazione, Redenzione, Giudizio, Santissima Trinità, Caduta (così, almeno, li semplifica Donald Davie nel suo New Oxford Book of Christian Verse, 1981). Questa definizione è chiara, coerente, pertinente – ma restrittiva. Un poeta è cristiano solo se mette in versi questioni dottrinarie? Dunque dovremmo escludere poeti infiammati da visioni non ortodosse come William Blake e Emily Dickinson?

Una terza definizione sostiene che la poesia è cristiana quando affronta qualsiasi tema spirituale o argomento religioso. Le opinioni del poeta non devono essere necessariamente ortodosse fintantoché gli argomenti sono trattati con tensione autentica. Questo criterio è quello dominante: riflette le tendenze inclusive e tolleranti del cristianesimo moderno. Nel primo Oxford Book of Christian Verse (1940), Lord David Cecil adotta questo criterio. Non gli importava molto della dottrina o del dogma, prediligeva il sublime della religious emotion. Il dubbio andava bene purché fosse creativo. Cecil voleva qualità letterarie e vigore spirituale.

Un approccio così inclusivo e non dottrinario è attraente. Non definisce la poesia cristiana soltanto come gesto devozionale. Sa che la poesia religiosa comunica in un modo diverso dalla prosa dottrinaria; riconosce che emozione ed evocazione sono più importanti di affermazione e argomentazione. La qualità letteraria è preminente alla purezza dottrinaria. Cosa non funziona? Il guaio è che una definizione tanto ampia può includere qualsiasi poesia vagamente spirituale.

Ciascuna di queste teorie offre alcuni criteri, nessuna è esaustiva. Una teoria adeguata deve comprendere la natura letteraria e religiosa della tradizione. Genio poetico e identità cristiana sono distinte, ma una definizione di poesia cristiana deve includere entrambe. Per quanto edificanti, i sermoni in versi e i gorgheggi morali sono letteratura di seconda classe. Come ha osservato Thomas S. Eliot in Religion and Literature (1935), “L’ultima cosa che desidero è l’esistenza di due letteratura: una per i consumatori cristiana, l’altra per il pubblico pagano”.

Combinando i vari approcci, possiamo definire la poesia cristiana quel modo lirico che affronta esplicitamente o implicitamente argomenti religiosi praticato da autori che guardano all’esistenza da una prospettiva cristiana. I poeti possono avere una fede ferma, tarlata dal dubbio, infantile. La poesia cristiana non riguarda la santità individuale; è il lavoro di artisti la cui immaginazione è plasmata dai principi e dai simboli della fede.

In effetti, un’identità religiosa comune non rende i poeti artisticamente omogenei. Nella sua indagine, Christian Poetry (1965), Elizabeth Jennings ha osservato la cangiante diversità che caratterizza il linguaggio dei poeti cristiani. Leggendo Donne, Herbert, Milton, Blake e Hopkins nessuno potrebbe concludere che la fede abbia estinto la loro individualità. Lo stesso vale per i moderni. T.S. Eliot, W.H. Auden e Dylan Thomas non suonano allo stesso modo. Ognuno ha il proprio senso dell’arte.

Uno degli scopi della poesia religiosa è rendere tangibile il mondo nascosto, invisibile.

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Il cristianesimo è sopravvissuto fino al XX secolo; non ne è uscito illeso. Ha mantenuto testa e cuore, la chiarezza del credo, la missione compassionevole. Eppure, ha perso i sensi – tutti e cinque. Vasta è la messe, enorme la fame da sfamare, ma il richiamo della Chiesa è debole, astratto. Il cristianesimo contemporaneo parla per lo più per concetti. Concetti possenti, ma incolori e banali nella loro affermazione.

La grande sfida del cristianesimo è recuperare il linguaggio dei sensi, riconquistare il rapporto naturale della fede con la bellezza. Oggi si parla spesso, tra teologi e cardinali, di bellezza: la si considera un problema filosofico da risolvere con l’analisi e l’apologetica. La relazione con la bellezza è passiva più che creativa. Il pensiero più lucido non può colmare il divario tra la vita nel tempo e il modo in cui la spiega la Chiesa – concetti morali e spirituali sistemati in un organismo razionale. La teologia offre un laser quando abbiamo bisogno di una lampada.

Il cristianesimo ha perso il tradizionale legame con le arti. Non comprende più il livello viscerale della bellezza, necessario a comunicare con potenza il divino. Qualsiasi impegno nei riguardi dell’arte è retrospettivo: si tratta di preservare ciò che abbiamo ereditato dal passato. Probabilmente, nessuno trasformerà San Pietro in un centro commerciale o la cattedrale di Chartres in una multiproprietà. Eppure, cristiani e atei concordano su un punto: nessuno associa più la Chiesa alle arti. Una ragione sostanziale impone il ripristino della presenza della poesia nella Chiesa. Preghiera, adorazione, canto. Il cristianesimo si basa sulle parole della Scrittura. Le parole celebrano il Verbo che si fa carne.

Per far rivivere la poesia cristiana è necessario un cambiamento: comprendere che non è sufficiente un linguaggio superficiale per avviare il credo, che scopo della liturgia, dell’omelia, dell’educazione non è condiscendere ma elevare. Questo cambiamento chiederà una sorta di Grande Risveglio. Se perdiamo la capacità di articolare la nostra fede con eccellenza saremo sminuiti, individualmente e collettivamente. Se non saremo capaci di un linguaggio vivo, all’altezza dei nostri sentimenti, perderemo la possibilità di descrivere la gloria del creato. “Il mondo è pieno della grandezza di Dio”: non decliniamolo con brodini verbali, i soliti cliché, gli slogan che vediamo sui festoni che adornano le chiese.

Potremmo non essere più in grado di assegnare al cavallo la sua forza, facendogli indossare i finimenti del lampo e del tuono, di cardare le ali del pavone e contare le nuvole con sapienza. Le doti divine superano le mere qualità umane. Ma possiamo trovare il linguaggio che partecipa di quella gloria. Possiamo usarlo nelle liturgie, intrecciarlo nelle omelie, insegnarlo nelle scuole. Le antiche verità non vogliono un linguaggio logoro. Abbiamo bisogno di un linguaggio radioso quanto i miracoli e i misteri, e usare parole possenti per comunicare con gli altri, con noi stessi, con Dio. Che la verità sia intrisa di splendore.

Dana Gioia

*Figlio di immigrati siciliani, Dana Gioia è tra i più noti poeti statunitensi di oggi. Tra i suoi libri ricordiamo “The Gods of Winter” e “Interrogations at Noon”. Ha tradotto i “Mottetti” di Eugenio Montale e le tragedie di Seneca. Qui si pubblica parte del suo intervento su “Christianity and Poetry”, pubblicato nella rivista “First Things”.

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