18 Marzo 2024

“Oggi, ogni ufficio, ogni industria è una prigione”. Un saggio di Aldous Huxley su Piranesi

È nella prima parte del racconto di Gustav Herling, La Torre, cosi  tanto amato da Cristina Campo,  che ho letto per la prima volta di questo breve saggio di Aldous Huxleydedicato alle carceri del Piranesi. 

“I mobili rosicchiati dalle tarme, le poltrone e il divano di pelle logora, le ragnatele nel camino e sulla mensola dei libri, lo specchio del comò in una cornice un tempo dorata che rifletteva la faccia come attraverso una cortina di fumo: tutto questo si armonizzava perfettamente con le quattro stampe del Piranesi alla parete. Chi ha veduto anche una sola volta le sue incisioni sa che il Piranesi aveva il gusto delle rovine, alle quali riusciva a dar l’aspetto di un corpo che si distacca dalle ossa. Nel suo saggio sulle “carceri” del Piranesi Aldous Huxley scrive che esse esprimono un “inutilità perfetta”; “le scale non conducono in nessun posto, le travi non reggono nulla.”

Eppure non della decadenza dei luoghi ci parlano queste pagine.  L’idea ossessiva, l’utopia senz’anima del “pensiero calcolante” questo si è addensato fra gli scalini confusi delle stampe. Qui si è tradotto parte dell’opuscolo. Per la traduzione mi sono avvalso di alcuni estratti del raro testo inglese (Prisons, the Trianon Press London 1949) e della sua traduzione spagnola più semplice da reperire (Las Cárceles de Piranesi, ed. Casimiro libro 2012). (Tony Vero)

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In cima alle scale dell’University College di Londra si trova una cabina di legno verniciato, un po’ più grande di una cabina telefonica, un po’ più piccola di una latrina esterna. Quando la porta di questa casa in miniatura viene aperta, una luce vi si accende all’interno, e coloro che stanno sulla soglia, si ritrovano di fronte un piccolo e anziano signore seduto, con la schiena dritta, che sorride benevolo nel vuoto. I suoi capelli sono grigi e gli arrivano all’altezza delle spalle; il cappello di paglia a tesa larga sembra uscito dalle illustrazioni di una delle prime edizioni di Paul et Virginie; indossa un cappotto francese (verde, se ricordo bene, con bottoni di metallo) e pantaloni di cotone bianco, discretamente rigati. Questo vecchietto è Jeremy Bentham, o almeno ciò che resta di Jeremy Bentham dopo la dissezione ordinata nel suo testamento: uno scheletro con le mani e il volto di cera, vestito con gli abiti che un tempo appartennero al primo degli utilitaristi.

A questo strano santuario (così caratteristico, in quell’isola sperduta di Albione, per la sua eccessiva modestia) ho fatto la mia curiosa visita in compagnia di uno degli uomini più straordinari del nostro tempo, Albert Schweitzer. Sono passati molti anni da allora; ma ricordo benissimo l’espressione di affettuoso divertimento che apparve sul volto di Schweitzer, mentre guardava la mummia. “Caro Bentham!” disse alla fine. “Mi piace molto di più di Hegel. È stato responsabile di molti meno danni”. Ovviamente Schweitzer aveva perfettamente ragione.  Il filosofo tedesco era orgoglioso di essere tief, ma gli mancava l’umiltà che è la condizione necessaria per la profondità ultima; perciò finì per diventare l’idolatra dello Stato prussiano, il padre spirituale di quei dogmi marxisti della storia, in base ai quali è possibile giustificare ogni atrocità da parte dei veri credenti e condannare ogni atto buono e ragionevole compiuto dagli infedeli. Bentham, al contrario, non aveva pretese di questo tipo. Superficiale, di quella superficialità benevola e sensata del XVIII secolo, pensava agli individui come persone reali, non come banali bolle sulla superficie del fiume della Storia, non come semplici cellule nei muscoli e nelle ossa di un organismo sociale la cui anima è lo Stato. 

Dalle viscere di Hegel sono scaturite la tirannia, la guerra e la persecuzione; dalle secche di Bentham, una serie di benefici senza pretese, ma reali: l’abrogazione di leggi antiquate, l’introduzione dei sistemi fognari, la riforma del governo municipale, quasi tutto ciò che era sensato e umano nella civiltà del XIX secolo. Solo in un campo Bentham seminò i denti del drago. Aveva la passione di ciò che è estremamente logico, per l’ordine e la coerenza; e voleva imporre le sue idee di ordine non solo ai pensieri e alle parole, ma anche alle cose e alle istituzioni. Ora, l’ordine è innegabilmente un bene, ma un bene di cui è facilmente possibile averne in eccesso e a un prezzo troppo alto. L’amore per l’ordine è spesso, insieme all’amore per il potere, il motivo della tirannia. Negli affari umani l’estremo del disordine è l’anarchia; l’estremismo dell’ordine, un esercito o un penitenziario. L’anarchia è nemica della libertà e, nella sua forma più alta, lo è anche l’efficienza meccanica. La bella vita può essere vissuta solo in una società in cui l’ordine è predicato e praticato, ma certamente non in modo fanatico, e dove l’efficienza è sempre avvolta, per così dire, da un margine tollerato di disordine. Lo stesso Bentham non era un tiranno né un adoratore dello Stato onnipresente, onnisciente, provvidenziale; ma amava l’ordine e inculcava quel tipo di efficienza sociale che è stata e continua ad essere usata come scusa per la concentrazione del potere nelle mani di pochi esperti e l’irreggimentazione delle masse. 

Bisogna ricordare il fatto strano e alquanto allarmante a cui Bentham dedicò circa venticinque anni della sua lunga vita, lelaborazione nei minimi dettagli del progetto di una prigione perfettamente efficiente. Il panopticon, come lo chiamava, doveva essere un edificio circolare, costruito in modo che ogni detenuto trascorresse la sua vita in perpetua solitudine, pur rimanendo perennemente sotto la sorveglianza di una guardia posta al centro. (In modo abbastanza significativo, Jeremy Bentham prese in prestito l’idea del panopticon da suo fratello, Sir Samuel, architetto navale, che, mentre era impiegato da Caterina la Grande per costruire navi per la Russia, aveva progettato una fabbrica secondo linee panottiche, allo scopo di ottenere di più e meglio lavoro dai mujik industrializzati). Il piano di Bentham per un progetto detentivo totalitario non fu mai eseguito. Per consolarlo della sua delusione, al filosofo furono concesse, con una legge del Parlamento, ventitremila sterline dai fondi pubblici.

L’architettura delle prigioni moderne manca della perfezione logica che caratterizzava il panopticon; ma la sua ispirazione è quella stessa passione per l’ordine più che umano che mosse i fratelli Bentham e che, possiamo aggiungere, è stata da tempo immemore, l’ispirazione dei dittatori. Prima dei tempi di Howard, di Bentham e dei quaccheri di Filadelfia, nessuno, per qualche strana ragione, sembra aver mai pensato di rendere le prigioni ordinate ed efficienti. Le prigioni in cui Elizabeth Fry portò i suoi inesauribili tesori di carità e buon senso erano come l’incarnazione di un delirio criminale. Varcando queste porte, il prigioniero si ritrovava condannato a un’esistenza somigliante a quella dello stato di natura teorizzato da Hobbes. Dietro la facciata di Newgate, una facciata che il suo architetto, non inibito dalla noiosa necessità di trovare un posto per le finestre, era riuscito a rendere estremamente elegante, esisteva non un mondo di uomini e donne, non un mondo animale, ma un caos, un pandemonio. L’artista la cui opera riflette più fedelmente la natura di questo inferno è Hogarth: non l’Hogarth dei dipinti dai colori armoniosi, ma quello delle incisioni, quello della linea dura e insensibile, lo spietato delineatore del male e della miseria caotica: Fleet, Newgate, Bedlam,  i negozi di liquori di Gin Alley, i bordelli e le sale da gioco di Covent Garden, i campi da gioco dei sobborghi dove i bambini torturano i loro cani e gli uccellini con raffinatezze di crudeltà e oscenità difficilmente immaginabili.

Nello spazio di trenta o quaranta anni la Prison Discipline Society compì una straordinaria riforma. Da subumanamente anarchiche, le prigioni sono diventate subumanamente meccaniche. Da quando Sir Joshua Jebb eresse la sua prigione modello a Pentonville, la consapevolezza di trovarsi all’interno di una macchina, all’interno di un ideale di ordine assoluto e perfetto assoggettamento, è stata una parte principale della punizione dei detenuti. Anche nei campi di concentramento nazisti l’inferno sulla terra non era del vecchio tipo hogarthiano, ma assolutamente pulito e scientifico. Visto dall’alto, si dice che Belsen sembrasse una stazione di ricerca atomica o uno studio cinematografico ben progettato.

I fratelli Bentham sono morti da cento anni e più; ma lo spirito del panopticon, lo spirito dell’ospizio di Sir Samuel, è andato marciando verso destinazioni strane e orribili. Oggi ogni ufficio efficiente, ogni fabbrica moderna è una prigione panottica, nella quale l’operaio soffre (più o meno, secondo il carattere dei guardiani e il grado della sua innata sensibilità) della coscienza di essere dentro una macchina. Credo che solo in letteratura si sia avuta una resa artistica adeguata di questa coscienza. De Vigny, ad esempio, ha detto delle cose interessanti sull’asservimento del soldato a un ideale di ordine assoluto; in Guerra e pace c’è un capitolo memorabile sul modo in cui le forze impersonali degli Ordini dall’Alto, dell’Alta Politica che si esprime attraverso il funzionamento di un Sistema, trasformano i gentili carcerieri francesi di Pierre in automi insensibili e spietati. Eppure, nel XX secolo un esercito è solo uno tra tanti panopticon. Ci sono anche i reggimenti dell’Industria, i reggimenti della contabilità e dell’amministrazione. Questi hanno evocato una buona dose di scrittura lamentosa o truculenta, ma non molto, e niente di molto soddisfacente, in termini di arte pittorica. C’erano, è vero, alcuni cubisti a cui piaceva dipingere macchine o rappresentare figure umane come se fossero parti di macchine. Ma una macchina, dopo tutto, è essa stessa un’opera d’arte, molto più sottile, molto più interessante da un punto di vista formale, di quanto possa esserlo qualsiasi rappresentazione di una macchina. Quanto alla rappresentazione degli esseri umani in gruppi meccanomorfi, questa è efficace solo fino a un certo punto. Perché il vero orrore della situazione in un panopticon industriale o amministrativo non è che gli esseri umani si trasformino in macchine (se potessero essere trasformati, sarebbero perfettamente felici nelle loro prigioni); no, l’orrore consiste proprio nel fatto che non sono macchine, ma animali amanti della libertà, menti lungimiranti e spiriti simili a Dio, che si trovano subordinati alle macchine e costretti a vivere, se si può dire che vivano, nel tunnel senza uscita di un sistema arbitrario e disumano.

Al di là delle prigioni storiche, reali, del troppo ordine e di quelle in cui l’anarchia genera l’inferno del caos fisico e morale, si trovano altre prigioni, non meno terribili perché fantastiche e incorporee: le prigioni metafisiche, la cui sede è nella mente, le cui mura sono fatte di incubo e di incomprensione, le cui catene sono l’ansia e tra i loro tormenti il senso di colpa personale e non solo. L’Oxford Street di De Quincey, la strada in cui ebbe la visione della morte improvvisa erano prigioni di questo tipo. Così era il lussuoso inferno descritto da Beckford in VathekCosì erano i castelli, i tribunali, le colonie penali abitate dai personaggi dei romanzi di Kafka. Passando dal mondo delle parole a quello delle forme, ritroviamo queste stesse prigioni metafisiche delineate con forza incomparabile nella più strana e per certi versi più bella delle acqueforti di Piranesi. (…)

Le Prigioni di Piranesi sono creazioni nelle quali il fondamento personale, privato e perciò eterno è notevolmente più lungo della base meramente storica e sociale. La prova di ciò sta nel fatto che queste straordinarie incisioni hanno continuato, attraverso due secoli, ad apparire del tutto attuali e moderne non solo negli aspetti formali, ma anche come espressioni di oscure verità psicologiche. Per usare una frase religiosa un tempo popolare, parlavano della condizione di Coleridge e De Quincey al culmine della reazione romantica; e parlano in modo non meno eloquente della condizione degli uomini e delle donne del XX secolo cresciuti nella letteratura, fantasiosa o descrittiva, della psicologia del profondo. Ciò che Piranesi rappresenta non è soggetto a cambiamenti storici. Non registra, come Hogarth, i fatti della vita sociale contemporanea. Né sta cercando, come Bentham, di progettare un meccanismo che possa cambiare la natura di tali fatti. Il suo interesse riguarda gli stati dell’anima: stati che sono in gran parte indipendenti dalle circostanze esterne, stati che ricorrono ogni volta che la Natura, nel suo eterno gioco d’azzardo, combina i fattori ereditari del fisico e del temperamento in determinati modelli. 

In passato la psicologia veniva generalmente trattata come una branca dell’etica o della teologia; per sant’Agostino il problema delle differenze umane era lo stesso di quello della Grazia e del mistero del compiacimento di Dio. Ed è solo in anni molto recenti che gli uomini hanno imparato a parlare delle idiosincrasie del comportamento individuale in termini diversi da quelli di peccato e virtù.  Le prigioni metafisiche delineate da Piranesi e descritte da tanti poeti e romanzieri moderni, erano ben note ai nostri antenati, ma conosciute non come sintomi di malattie o di qualche peculiarità di temperamento, non come stati da analizzare ed esprimere dai poeti lirici, ma piuttosto come imperfezioni morali, come ribellioni criminali contro Dio, come ostacoli sulla via dell’illuminazione. Così il Weltschmerz di cui andavano così fieri i romantici tedeschi, l’ennui, fruit de la morne incuriosité che fu tema di tanti splendidi versi di Baudelaire, non è altro che quell’accidia, gli annoiati e malinconici che furono immersi da Dante nel nero fango del terzo girone infernale. E questo dice Santa Caterina da Siena riguardo allo stato d’animo che costituisce il clima e l’atmosfera stessa di tutti i romanzi di Kafka. 

La confusione è una lebbra che inaridisce corpo e anima e lega le braccia del santo desiderio. Rende l’anima insopportabile a se stessa, esponendo la mente a conflitti e fantasie. Deruba l’anima della luce soprannaturale e oscura la sua luce naturale. Si vincano i demoni della confusione vivendo la fede e il santo desiderio”. 

La fantasia delle Prigioni di Piranesi è di qualità completamente diversa rispetto a quella mostrata nelle opere di tutti i suoi immediati predecessori. Tutte le tavole della serie sono evidentemente variazioni di un unico simbolo, il cui riferimento è a cose che esistono nelle profondità fisiche e metafisiche dell’animo umano: all’accidia e alla confusione, all’incubo e all’angoscia, all’incomprensione e allo smarrimento da panico. Il fatto più inquietantemente ovvio di tutti queste prigioni è la perfetta inutilità che regna ovunque. La loro architettura è colossale e magnifica. Si ha la sensazione che il genio di grandi artisti e il lavoro di innumerevoli schiavi abbiano contribuito alla creazione di questi monumenti, ogni dettaglio dei quali è completamente privo di scopo. Sì, senza scopo: perché le scale non portano da nessuna parte, le volte non sostengono altro che il proprio peso e racchiudono spazi vasti che non sono mai veramente stanze, ma solo anticamere, ripostigli, vestiboli, dipendenze. E questa magnificenza della pietra ciclopica è dovunque resa squallida da scale di legno, da fragili passerelle. E lo squallore è fine a sé stesso, poiché tutte queste strade traballanti attraverso lo spazio sono manifestamente senza destinazione. Sotto di loro, sul pavimento, ci sono grandi macchine incapaci di fare qualcosa in particolare, e dagli archi in alto pendono corde che non portano altro che una disgustosa suggestione di tortura. Alcune prigioni sono illuminate solo da finestre strette. Altre sono semiaperte verso il cielo, con accenni di altre volte e muri in lontananza. Ma anche laddove la recinzione è più o meno completa, Piranesi riesce sempre a dare l’impressione che questa colossale inutilità continui all’infinito e coesista con l’universo. Impegnate in un’attività non riconoscibile, senza prestare attenzione l’una all’altra, alcune piccole figure senza volto infestano l’ombra. La loro insignificante presenza non fa che sottolineare il fatto che in casa non ci sia nessuno. Ogni essere umano è sempre solo, soffre nella solitudine, gode nella solitudine, incapace di partecipare ai processi vitali dei suoi simili. Ma, sebbene autonomo, questo organismo-isola non è mai autosufficiente. Ogni solitudine vivente dipende da altre solitudini viventi e, più completamente ancora, dall’oceano dell’essere da cui solleva il suo piccolo scoglio di individualità. La realizzazione di questo paradosso della solitudine in mezzo alla dipendenza, all’isolamento accompagnato dall’insufficienza, è una delle principali cause di confusione, accidia e ansia. E a loro volta, naturalmente, la confusione, l’accidia e l’ansia intensificano il senso di solitudine e fanno sembrare il paradosso umano ancora più tragico. Gli occupanti delle Prigioni di Piranesi sono gli spettatori senza speranza di questo fasto di mondi, di questo dolore della nascita, di questa magnificenza senza significato, di questa incomprensibile miseria senza fine e al di là della capacità dell’uomo di comprendere o sopportare.

Si dice che la prima idea delle Prigioni venne a Piranesi in preda al delirio febbrile. Ciò che è certo, però, è che questa prima idea non fu l’unica e ultima; poiché alcune delle acqueforti esistono già negli stadi più antichi, in cui mancano molti dei dettagli più caratteristici e inquietanti delle prigioni che ora conosciamo. Da ciò si deduce che lo stato d’animo espresso da queste acqueforti era, in Piranesi, cronico e in qualche modo normale. (…)

Le tavole delle Prigioni furono pubblicate quando il loro autore era ancora giovane, e durante il resto della sua abbastanza lunga vita Piranesi non tornò mai più sul tema che, in esse, aveva trattato con così consumata maestria. La maggior parte del suo lavoro, da allora in poi, fu topografico e archeologico. Il suo tema era sempre Roma; e questo fu vero anche quando abbandonò la realtà delle rovine e delle chiese barocche per intraprendere escursioni nel mondo della fantasia. Perché ciò che gli piaceva immaginare era ancora Roma: Roma come avrebbe dovuto essere, come sarebbe potuta essere se Augusto e i suoi successori avessero posseduto un tesoro inesauribile e un’inesauribile riserva di manodopera. È una fortuna che le loro risorse fossero limitate; perché l’ipotetica Roma della fantasia di Piranesi è un luogo deprimente e pretenzioso. Secondo Santa Caterina i demoni della confusione si possono sconfiggere solo con il santo desiderio e la fede nella Rivelazione cristiana; ma in realtà ogni desiderio sostenuto, ogni fede intensa sono capaci di vincere la battaglia. Piranesi sembra non avere alcuna convinzione religiosa profonda o aspirazione mistica. A differenza del suo contemporaneo più giovane, Blake, non gli furono concessi accenni di immortalità, né visioni, tra le tempeste e i lamenti, di Dio e delle anime trasfigurate, dei figli del Mattino. La fede di Piranesi era quella di un umanista rinascimentale, il suo dio era l’antichità romana e il suo desiderio motivante era un misto della volontà dell’artista per la bellezza, della volontà dell’archeologo per la verità storica e della volontà del povero di guadagnarsi da vivere. Questi, dobbiamo supporre, erano antidoti sufficienti all’accidia e alla confusione spirituale. In ogni caso non diede mai una seconda espressione allo stato d’animo che aveva ispirato le Prigioni.

Considerate da un punto di vista puramente formale, le Prigioni sono notevoli, in quanto rappresentano l’approccio più vicino, nel Settecento, all’arte astratta. La materia prima dei progetti di Piranesi è costituita dalle forme architettoniche; ma, poiché le Prigioni sono immagini di confusione, poiché la loro essenza è l’inutilità, la combinazione delle forme architettoniche non si risolve mai in un disegno architettonico, ma rimane un disegno libero, svincolato da qualsiasi considerazione di utilità o anche di possibilità, e limitato solo dalla necessità di evocare l’idea generale di un edificio. In altre parole, Piranesi utilizza forme architettoniche per produrre una serie di disegni meravigliosamente intricati, disegni che assomigliano alle astrazioni dei cubisti perché composti da elementi geometrici, ma che hanno il vantaggio di combinare la geometria pura con abbastanza argomenti, abbastanza letteratura, per esprimere con più forza di quanto possa fare un semplice modello, gli stati oscuri e terribili di confusione spirituale e accidia .

Piranesi, nelle sue Prigioni non fa alcun uso delle forme naturali, da contrapporre a quelle geometriche. Non c’è una foglia o un filo d’erba non un uccello o un animale in tutta la serie. Qua e là, irrilevanti ma vive in mezzo alle pietrose astrazioni, si trovano alcune figure umane, scure, informi e impassibili. Nelle acqueforti topografiche le cose sono molto diverse. Qui Piranesi utilizza le forme naturali come contraltare romanticamente decorativo alla solida geometria dei monumenti. Gli alberi hanno un aspetto selvaggio e trasandato; i personaggi in primo piano sono o mendicanti, inconcepibilmente cenciosi, oppure belle dame e gentiluomini, non meno inconcepibilmente adornati di nastri e parrucca, a volte a piedi, a volte seduti in carrozze scolpite come torte nuziali o giostre. Ovunque lo scopo è quello di mettere in risalto la levigatezza della pietra squadrata giustapponendo le forme vacillanti e fiammeggianti delle piante e degli esseri umani. Allo stesso tempo le figure servono ad un altro scopo, ovvero quello di ingrandire la dimensione dei monumenti. Uomini e donne sono ridotti alla statura di bambini piccoli; i cavalli diventano poco più grandi dei mastini. All’interno delle basiliche, i pii si avvicinano alle acquasantiere e, anche in punta di piedi, difficilmente riescono a bagnarsi le dita. Popolato da nani, anche il più modesto degli edifici barocchi assume proporzioni eroiche; un piccolo pezzo classico di Pietro da Cortona sembra portentoso, e le deliziose trovate di Borromini assumono la qualità del ciclopico. Questo trucco di aumentare la dimensione apparente degli edifici diminuendo il metro noto della figura umana era uno degli espedienti preferiti dagli artisti del XVIII secolo. 

Nelle Prigioni non c’è traccia di questa teatralità ingenua. I prigionieri esistono allo scopo di enfatizzare non la grandiosità sovrumana degli edifici, ma la loro inumana vacuità, la loro inutilità subumana. Sono, letteralmente, anime perdute, che vagano – o addirittura che semplicemente stanno in piedi – in un vuoto labirintico. È interessante paragonarli ai personaggi delle illustrazioni di Blake per l’Inferno di Dante: queste anime dannate sono così lontane dall’essere perdute, sembrano essere perfettamente a loro agio tra le loro fiamme, i dirupi e le paludi. In tutti i gironi dell’inferno di Blake tutti sono vagamente eroici alla maniera classica e corrotta della fine del Settecento e tutti sembrano nutrire un vivo interesse per i propri simili. Com’è diverso lo stato delle cose nelle Prigioni! Qui non ci sono muscoli eroici, né esibizionismo estroverso, né traccia di vita sociale. Ogni uomo è vestito, imbacuccato, furtivo e, anche in compagnia, completamente solo. I disegni di Blake sono curiosi e talvolta belli; ma mai per un momento possiamo prenderli sul serio come simbolo di estrema sofferenza. I prigionieri di Piranesi, invece, sono gli abitanti di un inferno che, pur essendo uno degli innumerevoli peggiori mondi possibili, è del tutto credibile e porta il marchio di un’indiscutibile autenticità.

Aldous Huxley

*La cura e la traduzione del testo sono di Tony Vero

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