18 Novembre 2023

“Pilato era un uomo di luce, ma l’anima è sfuggente, ingovernabile”

Che Jean Grosjean non sia tradotto in Italia, annoverato tra i grandi scrittori dell’epoca, testimonia incuria, disattenzione, insipienza. Rimedieremo. Piuttosto, l’incuria e lo spergiuro sono indice del talento di un uomo che ha vissuto molte vite – in una di queste è stato prete, in un’altra prigioniero a Sens durante la Seconda guerra, in un’altra ancora eremita ad Avant-lès-Marcilly a ‘rifare’, letteralmente, il canone della tradizione occidentale – in un ricercato silenzio, restio ai canoni polemici. Jean Grosjean non è, per intenderci, telegenico come Emmanuel Carrère, utile alla causa come Albert Camus, crudele a comando come Houellebecq. Non ha vinto il Nobel per la letteratura come il discepolo J. M. G. Le Clézio, scrittore di più incerta vertigine, con cui ha ideato, nel 1989, per Gallimard, la collana “L’Aube des peuples”, in cui ha pubblicato i miti, i poemi, le leggende che hanno fondato le civiltà del globo, dall’Africa al Tibet, dalla cultura azteca a quella coreana. Morto nel 2006, a 93 anni, Jean Grosjean è il remoto artefice della letteratura francese recente: ha curato testi di André Malraux – che riteneva un prezioso la sua amicizia – ha scoperto l’opera di Thierry Metz e di Lydie Dattas, ha tradotto la Genesi e il Vangelo di Giovanni, l’Apocalisse e i Profeti, il Corano e i tragici greci. È poeta tra i più importanti del Novecento francese: la reticenza ha conferito qualità aurea ai suoi scritti; si è fatto di lato al chiasso, setacciando dal mondo lo stesso enigma di sempre, la stessa gioia – i suoi testi ci appaiono fuori dal tempo, ignifughi ai dettami della sociologia e della critica letteraria che fa i favori dell’industria editoriale.

In particolare, da Calusewitz (1972) e Le Messie (1974), Grosjean si è inventato un nuovo genere letterario, récit, che sta tra la prosa lirica, l’atto teatrale, il gesto agiografico. Le ‘vite parallele’ ideate da Grosjean – spesso tratte dalla narrazione biblica – hanno la compostezza di un classico, rispondono al cliché delle storie medioevali dei santi, alla chiamata della letteratura odierna – il Flaubert della Leggenda di san Giuliano l’ospitaliere, le Vite immaginarie di Marcel Schwob, per dire. Più che altro, le sue scritture verticali paiono pitture su vetro, a illuminare l’abside delle gotiche case di Dio.

Dalla mole dei récit, si è scelto, qui, di tradurre i primi capitoli da Pilate, testo uscito in origine per Gallimard nel 1983. Il governatore romano è osservato nei suoi aspetti chiaroscurali, a confronto con una mischia religiosa che gli è aliena: emerge, per sensibilità, la figura traslucida di Procla, la moglie, ritenuta santa dalla tradizione ortodossa orientale. Non si rincorre, in questo breve testo, la carnalità verbale dell’apocrifo: tutto ha il nitore della ricerca interiore – l’anima, tana di lupi. Così la quarta del libro:

“Arrestato come ribelle, condotto davanti a Pilato, Gesù, per la prima volta, si trova al cospetto di un uomo senza pregiudizi. Prima di allora, aveva avuto a che fare soltanto con discepoli o nemici. Tramite dialoghi, meditazioni, paesaggi, Jean Grosjean ci trasporta nell’Oriente che conosce così bene. Tra il procuratore romano, la moglie, il sommo sacerdote Caifa, il beduino Malchos, Erode che di tutto ha terrore, si gioca una partita che l’uomo occidentale non vuole perdere. Il giorno della pietà sarà il giorno della sconfitta. Tiberio, che dopo poco deporrà Pilato, rifiutandogli nuovi incarichi, gli dirà: Ti hanno reso folle. Alla fine del romanzo – o dramma – cominceremo a capire perché Pilato è inscritto tra i santi della Chiesa etiope”.

***

Pilato

I

Pilato si mosse verso la cima del promontorio. Vide salpare, silente, la trireme che lo aveva scortato fino a lì. La notte crollava e con essa comparve la fine neve siriana, mite turbinio. Vide la lunga barra scura della nave da guerra allontanarsi e sparire, oltre l’orizzonte. Poi, si unì al gruppo degli sbarcati che lo attendeva sulla via.

La coorte giunta ad accoglierli brandiva le torce. I cavalli scalpitavano mentre venivano caricati i bagagli. Sciacalli guaivano tra le rocce. Così, partì.

Fece fatica a controllare la bestia che gli era stata data, così nervosa e rapida, eppure, tentò, dalla notte, di estrarre il profilo delle alture. Promosso procuratore, decise di non assumere in pubblico il suo incarico. Preferiva incontrare prima il governatore: lo avrebbe visto, un mattino, entrare nell’aula da una porta laterale, mentre fischiava, trascinando i sandali, annoiato, così pareva, da molto tempo.

Attraversarono villaggi che sembravano dormienti da millenni.

Alla periferia di Cesarea, Pilato vide torce, lunghi volti indigeni, sguardi neri su di lui.

Pilato era un uomo della luce: resisteva a fatica alla morsa delle ombre che dilagano dopo il crepuscolo. Appena udiva gli ululati, si ritirava nella stanza, con la lampada e un libro. Una volta spenta la lampada, cadeva in un sonno alieno ai sogni. Quando vegliava, durante gli anni nell’esercito, non vedeva altro, nelle costellazioni, che i bivacchi delle falangi celesti, alleate.

Una volta giunto nella sua stanza a Cesarea, non riuscì a dormire, e prese a camminare. Odori sconosciuti. Ebbrezza di piante aromatiche intrideva le tende. A volte si fermava: crepe in quel silenzio. Il viavai di ignoti insetti. L’universo era nuovo. L’universo era più grande di quanto si credeva a Roma. L’Europa, misero angolo del globo, era una bizzarria ormai distante.

Non appena Pilato lasciò Roma, il passato volò via come un uccello che non lascia tracce nell’aria. Pilato considerava quella stanza una sorta di segnavia su un cammino che non faremo mai più a ritroso. Nonostante il cupo inverno, avrebbe ricordato per sempre il sole che aveva accompagnato la sua partenza verso Oriente. Mangiando il cocomero, all’ombra del pergolato, a Cesarea, prima del sopralluogo delle cinque, avrebbe ricordato l’irrisorio sole di Roma che, a quella stessa ora, aveva illuminato per l’ultima volta la baracca della sua giovinezza.

*

II

Passarono gli anni. Non era più nuove, le cose – non divennero facili. Pilato dormiva poco in Oriente. Ora poteva vantarsi di conoscere le fasi lunari. Sapeva indovinare la grandezza della falce dalla nitidezza delle ombre rintracciate a terra.

Ogni giorno aveva le sue complicazioni. Le truppe di cui Pilato disponeva non gli permettevano di tagliare il nodo gordiano. Dovevi risolverlo – o fingere di riuscirci.

Le folle umane sono a mala pena prevedibili: l’Oriente vi aggiunge l’anima. L’anima è sfuggente. Devi affrontarla ad ogni istante. Pilato sapeva stare sulla breccia, conosceva l’arte della soglia.

Da dieci giorni la minaccia era a Gerusalemme. Come ogni anno, la Pasqua attirava i cuori di tutto quel mondo – e le teste calde.

Caifa, non fate lo stupido, non lo siete.

Caifa non disse nulla. Pilato guardò oltre la finestra: una scheggia di azzurro. Caifa, sommo sacerdote per intercessione di Roma, non lo riteneva del tutto legittimo, si mostrava presuntuoso. Un fuoco ardeva nei suoi occhi, dietro le palpebre spesse, appena abbassate. Pilato, stanco di quella visita, gli disse, per congedarlo: Io non intervengo nei vostri affari religiosi.

Davvero?

Non chiamo religione le vostre riunioni da strada.

La nostra religione appartiene al popolo.

Ma avete un tempio e le vostre sinagoghe.

Dobbiamo averle.

Che ciascuno passi per strada senza formare gruppi o riunioni. Le strade sono proprietà dello Stato.

Noi siamo una famiglia.

Pontificia.

Intendo, il nostro popolo.

Avete le case e i vostri campi.

Caifa non rispose. Pilato disse, Ho detto ciò che ho detto. Caifa fece finta di inchinarsi davanti a Pilato che ormai non lo guardava più e si ritirò dalla sala facendo frusciare i suoi vestiti.

Procla entrò, inavvertita. All’inizio non disse nulla. Fissò il quadrato azzurro della finestra. Tutto le pareva sospeso. E disse, a bassa voce: Il tuo è un ruolo da commedia.

Mi accusi di essere doppio?

Mi chiedo se la tua autorità non sia altro da te.

A quale io ti riferisci?

La tua anima selvaggia imbragata in un cuore romano.

Sono duro? Dimmelo.

Sei un eroe. Non uno di questi semi-dei che sognano i ragazzi, in questi giorni, ma un amministratore.

È il mio lavoro.

Dubito che il mondo sia stato creato per la pace romana.

Dobbiamo lasciare che gli uomini si sgozzino a vicenda?

I villaggi non sono abbastanza grandi? Perché Roma si è occupata delle nostre valli sannitiche?

Non vi regnava forse l’ingiustizia?

Forse dici il vero, ma ora…

Certo… ora potremmo… dovremmo…

*

III

Procla passeggiava davanti a cespugli impolverati. Si era levata prima dell’alba. I servi l’avevano sentita sbuffare in bagno. Dall’alba, i suoi sandali erano scivolati su sentieri deserti. Aveva lasciato la città mentre il cielo, bianco, elargiva la sua luce sul mondo.

Non le piaceva quel soggiorno in una Gerusalemme sovrappopolata, rumorosa, irrespirabile. Ogni giorno, all’alba, andava in campagna. Attraversava il Cedron e risaliva uno dei sentieri che, verso est, portavano agli ulivi. Una volta, sulla cresta, aveva visto il sole nascere. Ammirava i monti di Moab in controluce. Si rifugiava in quella nudità. Quando avvertì il rumore della città che si svegliava alle sue spalle e si levava dall’oscurità e che avrebbe dovuto sopportare per tutto il giorno, indugiò ancora, sfiorò l’erba con i piedi, chiuse gli occhi davanti alla luce che si specchiava sulle pietre, controfigura del sole. Aspettò che dai borghi di collina sciamassero turbe di bimbi. Rivolse a quel luogo uno sguardo amichevole, per poi voltarsi verso Gerusalemme.

Ogni mattina ammirava quella luce, così solida, di cui il Monte degli Ulivi pareva il santuario. Ma quella mattina c’era qualcosa di insolito. I bambini non correvano tra le rocce. La loro furia sembrava essere confinata nelle case.

Jean Grosjean

Gruppo MAGOG